Belice punto zero
Dal terremoto del Belice alla mappa della minaccia sismica nel bacino del Mediterraneo: una pubblicazione dell’INGV ne ripercorre la storia recente
Isole che ho abitato, verdi su mari immobili;
d'alghe arse, di fossili marini le spiagge ove corrono in amore cavalli di luna e di vulcani.
Nel tempo delle frane, le foglie, le gru assalgono l’aria;
in lume d'alluvione splendono cieli densi aperti agli stellati;
le colombe volano dalle spalle nude dei fanciulli.
Qui finita è la terra: con fatica e con sangue mi faccio una prigione.
È un brano di poesia dedicato da un padre alla figlia, ma è anche l’ode con cui l’autore, il premio Nobel Salvatore Quasimodo, evoca la terra fragile e meravigliosa delle sue origini. La Sicilia richiamata dal poeta non è delimitata da confini precisi, non è territorio geograficamente ben definito: è piuttosto ‘pezzo’ di Mediterraneo, che dalle coste greche e turche corre fino a lambire quelle africane. Terre attraversate, per distanze spaziali e temporali, da vulcani e terremoti. “Molto probabilmente Quasimodo si è voluto riferire a quelle catastrofi che hanno segnato in profondità il volto di città e territori, sconvolto dalla violenza con cui la stessa geodinamica che ne determina lo splendore, è causa di radicali trasformazioni” spiega Mario Mattia, primo tecnologo dell’Osservatorio Etneo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) e coautore di ‘Belice. Punto Zero’, edito dallo stesso istituto e frutto del lavoro a più mani (a cominciare da quelle del Presidente dell’ente, Carlo Doglioni, che ne firma la prefazione) di indagine, selezione e raccolta di materiale d’archivio e testimonianze d’epoca. Album fotografico di notevole pregio e, contemporaneamente, pubblicazione scientifica ricca di dati ed approfondimenti, il volume, a partire dalla ricostruzione, storicamente ben documentata, della drammatica vicenda del Belice, evidenzia con rara nettezza il destino comune che la geologia assegna a quell’articolato puzzle che descrive il complesso di faglie che assecondano il movimento della placca africana nel suo eterno incontro/scontro con quella europea, a confini politici labili, più volte ridisegnati nel corso della storia. Dell’interminabile elenco di episodi prova inequivocabile di un legame tanto stretto e profondo da saldarsi nelle viscere della Terra, basti ricordare l’11 gennaio del 1693, quando il più forte terremoto registrato, ad oggi, dal catalogo sismico italiano (uno dei più lunghi e completi al mondo), colpì con inaudita violenza la Sicilia Orientale: “Quella catastrofe, che provocò la distruzione integrale di città come Catania e la morte di decine di migliaia di persone, vittime dirette del terremoto, o della fame e dell’abbandono che ad essa seguirono, rase al suolo anche i nuclei abitativi e gli istituti religiosi di Malta -prosegue Mattia- e ingentissimi danni si registrarono in diverse regione affacciate sul Mediterraneo, in particolar modo in corrispondenza dell’attuale Tunisia”. La serie di calamità che si è abbattuta sul Mare Nostrum comprende eruzioni esplosive di dimensione epocale, come nel caso del Vesuvio o Santorini, e decine e decine di terremoti e tsunami che hanno tracciato il filo rosso che cuce i destini dei popoli di questa parte di mondo. “Nonostante la schiacciante evidenza della comune natura, a causa forse di quel processo umano che porta alla rimozione psicologica di eventi tragici, siamo ancora lontani da una vera e propria alleanza transfrontaliera finalizzata alla prevenzione e gestione degli effetti di tali episodi -riflette il vulcanologo, ricordando l’evento sismico che colpì la Valle del Belìce- Quello del gennaio del 1968 non fu un terremoto di elevatissima magnitudo, anche se distrusse molte città di quel lembo di Sicilia Occidentale. Nonostante l’Italia avesse già più volte affrontato analoghe calamità, come, ad esempio, quella che nel 1908 causò la morte, a Messina e Reggio Calabria, di almeno 70.000 persone, quello del Belice fu il primo evento catastrofico dell’Italia repubblicana, lasciato, per altro, ad una gestione improvvisata, senza una strategia: per questo, rappresentò, e rappresenta, nell’immaginario collettivo, un doppio disastro, naturale e sociale”. In effetti, la ricostruzione iniziò solo nel 1976 e centinaia di famiglie abitarono nelle baracche per vent’anni, prima di avere assegnata una casa. Fu una promessa di sviluppo tradita: forse uno dei tanti tradimenti inflitti al nostro Meridione.
“L’esperienza, pesata sulle spalle dei contadini siciliani, cui veniva proposto, come unico sostegno, dallo Stato, un biglietto di sola andata per una destinazione del Nord Italia, non è stata vana, poiché, proprio da lì, si intraprese quel lungo e faticoso cammino che ci ha portato alla costituzione della Protezione Civile, di cui siamo oggi dotati, e alla legislazione per la gestione delle fasi di emergenza e ricostruzione di aree terremotate” spiega Mattia.
Grandi progressi in ambito nazionale, dunque, ma, guardando oltre il perimetro del nostro Paese, quale livello di consapevolezza e preparazione caratterizza i paesi della fascia mediterranea, tanto simili al nostro?
Di iniziative e protocolli di intesa tra le varie sponde del Mediterraneo ne esistono tante e, tra queste, vale la pena citare l’INTERREG V-A Italia-Malta che, da ormai diversi anni, finanzia progetti comuni tesi anche alla riduzione del rischio legato a terremoti e tsunami, e ai quali partecipano gli organismi di Protezione Civile della Regione Siciliana e di Malta.
“Il successo di questi partenariati deve spronarci ad un passo decisivo verso la creazione di iniziative rivolte a standardizzare procedure e infrastrutture condivisi tra i Paesi del Mediterraneo, affinché nessuno debba rivivere ciò che hanno sofferto le popolazioni della Valle del Belìce e si scongiuri l’eventualità che le devastazioni prodotte da terremoti e tsunami, con tutto il loro carico di drammaticità, vadano ad aggravare il già complesso quadro delle migrazioni economiche e politiche. È necessaria e inevitabile una risposta, anche nell’ottica delle politiche comuni rivolte agli effetti dei cambiamenti climatici” auspica lo scienziato, riferendosi all’altro processo in grado di modificare, in pochi anni, la demografia e l’habitat del Mediterraneo.
È curioso quanto l’editoriale de Il Corriere della Sera, all’indomani del terremoto del Belìce, riecheggi leit motiv dei giorni nostri riferiti ai Paesi dell’”altra sponda” del Mediterraneo: ‘Eccoci di fronte a un Sud come terra che trema, legato a una sua geografica e geologica predestinazione alla morte per terremoto. Eccoci di fronte a un Sud contro il quale saremo sempre avviliti e impotenti. Non c’è soluzione oltre il silenzio, il dolore, il lutto, la solidarietà. Non c’è margine oltre la coscienza di un comune destino umano che ci lega, Sud e Nord, al di sopra delle differenze che possiamo cancellare. Non c’è sfogo che nella rassegnazione amara. Nonostante riforme, progressi, buona volontà politica, corsi storici diversi, ecco infatti un immutabile sud che resta immutabile nei suoi lutti repentini’. Parole che traboccano rassegnazione: una rassegnazione inaccettabile, intollerabile, per un figlio della Sicilia, come Leonardo Sciascia, che, dalle pagine de L’Ora di Palermo denunciò: ‘…quello che invece scatta con puntuale efficienza è il triste rituale demagogico e il richiamo alla unità e solidarietà sentimentale di un paese effettualmente disunito, pieno di contrasti e di contraddizioni, a livelli diversi e di fatto inunificabili. E di fronte a Gibellina distrutta ci pareva di sentire i commenti di certa gente al cui cuore fanno appello certi giornali del Nord (notoriamente antimeridionalisti) quando aprono sottoscrizioni. “Vivono in case fatte di pietra e di gesso, quelli lì” “Mica conoscono il cemento armato, quelli lì”…”Quelli lì”, lì a Santa Margherita, a Montevago, a Gibellina, a Salemi; quelli che vivono nelle case di gesso e ci muoiono; quelli cui soltanto restano gli occhi per piangere la diaspora dei figli; pulviscolo umano disperso al vento dell’emigrazione e che lo Stato soltanto pesa nella bilancia dei pagamenti internazionali; quelli che ancora faticano con l’aratro a chiodo e col mulo; quelli che non hanno né scuole, né ospedali, né ospizi, né strade…’
Un messaggio potente, che oggi avremmo l’opportunità di fare nostro, alzando lo sguardo, se ne abbiamo il coraggio, verso l’orizzonte del Mare Nostrum, verso ‘quelli lì, quelli lì che vivono in case fatte di pietra e di gesso, quelli lì che mica conoscono il cemento armato, quelli lì di Kassala, Tibesti, Gibuti…’. Quelli lì che, come nella Sicilia del 1968, vivono nel pregiudizio e nell’abbandono.