Clima, geopolitica ed energia. La sfida della transizione tecnologica ed energetica
La transizione verde ha già iniziato a ridisegnare l'equilibrio geopolitico mondiale, tra nuove opportunità e nuove sfide legate a sicurezza energetica, competizione tecnologica e materie prime.
Nel 2023, per la prima volta nella storia, gli investimenti globali nel campo dell’energia pulita hanno superato quelli relativi alle fonti fossili, con 1,7 trilioni di dollari contro 1 trilione. È un dato, questo, che riflette un impegno crescente, a livello globale, nel portare avanti la transizione verso un sistema energetico carbon-free, allo scopo di contenere quanto più possibile il cambiamento climatico e i suoi effetti sugli ecosistemi. Come affermato nell’Agenda 2030 dell’ONU, la transizione energetica potrebbe costituire infatti il principale strumento per contrastare la crisi climatica, dato che la produzione e il consumo di energia sono tra le cause principali di tale crisi, essendo responsabili per i tre quarti delle emissioni totali di gas serra. Oltre che essere necessaria ai fini della sostenibilità climatica, la transizione energetica è inoltre considerata dagli stati un mezzo utile per garantirsi la sicurezza energetica. Tuttavia, anche uno scenario futuro fondato sulle fonti rinnovabili – e, soprattutto, il periodo di transizione necessario a raggiungerlo – presentano una serie di criticità di cui tenere conto.
La necessità di una radicale trasformazione del sistema economico globale è oggetto di dibattito a livello internazionale almeno dagli anni Settanta, quando si verificò una presa di consapevolezza collettiva riguardo alla limitatezza delle risorse del pianeta. Nel nuovo millennio, poi, anche a seguito della firma del Protocollo di Kyoto nel 1997, il tema della transizione energetica ha acquisito una rilevanza sempre maggiore nell’agenda degli stati, anche per via degli effetti sempre più evidenti del cambiamento climatico. Nel 2015, la comunità internazionale si impegnò formalmente, tramite gli Accordi di Parigi, a contrastare il riscaldamento globale e i firmatari si posero come obiettivo un azzeramento delle emissioni entro il 2050, con alcuni obiettivi intermedi come, ad esempio, la riduzione del 55% entro il 2030 prefissata dall’Unione europea. Per rendere possibile il raggiungimento di questi obiettivi è necessaria una radicale sostituzione delle fonti fossili con fonti di energia pulita. Secondo l’IRENA (Agenzia internazionale per le energie rinnovabili), per mantenere l’innalzamento delle temperature al di sotto della soglia degli 1.5° C, le rinnovabili dovrebbero arrivare a coprire, nel 2050, il 77% del mix energetico globale.[1] In linea con questi obiettivi, i leader mondiali riunitisi a dicembre 2023 nella COP28 hanno concordato di triplicare la quota di rinnovabili entro la fine del decennio.
Come già accennato in apertura, oltre ad essere necessaria per limitare gli effetti della crisi climatica, la transizione green può anche portare alcuni notevoli vantaggi agli stati dal punto di vista della sicurezza energetica. Una notevole maggioranza di paesi a livello mondiale possiede infatti il potenziale tecnologico ed economico per sfruttare tutte e quattro le principali fonti di energia pulita (geotermico, idroelettrico, solare ed eolico), e la restante parte può contare su almeno due di esse. La transizione energetica sembrerebbe quindi offrire a un numero sempre maggiore di paesi la possibilità di aumentare il livello di autosufficienza energetica, riducendo così la rete di dipendenze che ha finora caratterizzato il mercato globale delle fonti fossili. Tuttavia, il quadro si presenta in realtà più complesso, dato che, se pure è vero che la transizione ha già iniziato a produrre una ridefinizione della geografia mondiale delle risorse, non sono però diminuiti gli elementi di criticità.
Un primo aspetto da considerare è il fatto che la transizione energetica si leghi strettamente ad una altrettanto radicale transizione tecnologica. Lo sfruttamento delle energie rinnovabili richiede infatti il ricorso a tecnologie avanzate che, se da un lato rappresentano nuovi ambiti di investimento, dall’altro corrono il rischio di diventare soggette a monopoli di fatto. Oltre che le tecnologie in sé, le criticità riguardano anche le materie prime necessarie alla loro produzione, i cui giacimenti sfruttabili sono distribuiti in maniera diseguale sul globo. Il rischio che le dipendenze energetiche tipicamente legate alle fonti fossili si ripropongano in una nuova forma è quindi concreto, e anche se al momento si sono verificati pochi esempi di una vera e propria weaponization del controllo sulle Materie Prime Critiche, alcune limitazioni imposte da Pechino negli ultimi anni hanno sollevato concrete preoccupazioni in merito alla posizione predominante della Repubblica Popolare Cinese nel settore.
Con l’avvio del programma “Made in China 2025”, nel 2015, Pechino aveva ufficialmente dichiarato l’obiettivo di rendere la Cina una superpotenza dell’high tech, identificando tra i settori fondamentali per la crescita economica del paese quelli relativi a celle solari, batterie al litio e veicoli elettrici (le “new three”), e prefissandosi inoltre di arrivare a controllare il 70% della capacità di raffinazione e produzione delle Materie Prime Critiche necessarie per i settori industriali più avanzati. L’effettivo raggiungimento di tali obiettivi ha destato la preoccupazione degli Stati Uniti, i quali hanno tentato, da una parte, di ostacolare la crescita cinese tramite l’imposizione di dazi e, dall’altra, di mettersi al passo del rivale asiatico, approvando ad esempio l’Inflation Reduction Act (2022), provvedimento che mira ad attirare investimenti ingenti nel settore delle tecnologie verdi.
Le iniziative di Pechino e Washington hanno spinto all’azione anche l’Unione europea, che non solo sta assistendo alla perdita del primato delle proprie aziende in campi come quello del fotovoltaico e dei veicoli elettrici, ma che rischia anche di vedere compromesse le proprie politiche climatiche, soprattutto per via del predominio cinese sull’intera filiera green. Per citare solamente un esempio, la Solar Energy Strategy – parte del più ampio programma RepowerEU varato nel 2022 per ridurre la dipendenza europea dai combustibili fossili – deve tenere conto del fatto che le aziende cinesi forniscono il 90% dei moduli fotovoltaici a livello globale. Per affrontare tale situazione, le istituzioni europee hanno attuato una serie di iniziative legislative, pur mantenendo una linea (seguita anche dagli Stati Uniti) votata al “de-risk, not decouple” – vale a dire, non apertamente conflittuale – nei confronti della Cina. Da una parte, iniziative come il già citato programma REPowerEU e l’Innovation Fund (finanziato, quest’ultimo, dal sistema delle quote di emissioni) hanno reso disponibili ingenti finanziamenti per il settore delle rinnovabili, che ammontano a quasi 300 miliardi di euro nel caso del primo e a 40 miliardi per il secondo. Dall’altra, atti legislativi come il Net Zero Industry Act – approvato a febbraio 2023 in risposta all’IRA statunitense – e il Critical Raw Materials Act del marzo 2024 richiedono agli stati membri di diversificare i propri fornitori di tecnologie e di materie prime.
La competizione tra i grandi player mondiali non riguarda, tuttavia, solamente il finanziamento e la tutela dei settori industriali legati alla transizione energetica, ma anche investimenti e accordi volti ad assicurarsi il controllo – o, in alcuni casi, la creazione – di corridoi transnazionali incentrati su materie prime e fonti energetiche fondamentali per la transizione. Le energie rinnovabili costituiscono, ad esempio, una componente essenziale della Belt and Road Initiative cinese – nel 2020 hanno infatti catalizzato metà degli investimenti totali del programma –, ma anche delle analoghe iniziative occidentali. Il progetto di un Corridoio economico India-Medio Oriente-Europa annunciato al G20 di Delhi del 2023 è stato infatti presentato come un “green and digital bridge” volto a muovere beni, dati ed energia tramite un sistema di infrastrutture fortemente incentrato sulle rinnovabili. L’iniziativa rientra nell’ambito della Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII) sorta nell’ambito del G7, e sempre nell’ambito della PGII – in intersezione con il programma di investimenti dell’UE Global Gateway – è stato annunciato a Delhi anche il progetto Trans-African Corridor, che mira a creare una nuova arteria infrastrutturale tra Angola, Repubblica Democratica del Congo e Zambia, con investimenti orientati, tra le altre cose, anche alla decarbonizzazione.[2]
Molti degli investimenti dell’UE riguardano direttamente la fornitura di energia rinnovabile alle economie europee. A questo riguardo si può citare, ad esempio, il progetto Black Sea Energy, avviato a dicembre 2022 in seguito alla firma di un Memorandum of Understanding tra Ungheria, Romania, Azerbaigian e Georgia. Il progetto, sostenuto dall’UE, è volto alla costruzione di un cavo sottomarino che trasporti il vasto potenziale di energie rinnovabili dell’Azerbaigian nel territorio dell’Unione, fornendo un apporto fondamentale per l’approvvigionamento di rinnovabili dell’UE e per la diversificazione delle forniture. Diversi progetti vedono poi un rafforzamento dei rapporti di lunga data tra l'Europa e i paesi nordafricani, riproponendoli nel settore delle rinnovabili. L’UE ha infatti concordato un aumento delle forniture di energia solare dal Marocco alla Spagna, e ha stanziato finanziamenti per nuove linee sottomarine che connettano le solar farms di Tunisia ed Egitto rispettivamente ad Italia e Grecia. L’interesse per il potenziale solare del Nord Africa è testimoniato anche da un ambizioso progetto sostenuto dal governo britannico, che intende trasportare energia solare dal Marocco al Regno Unito attraverso un cavo sottomarino ad alta tensione di 3800 chilometri (se completato, esso sarebbe il più lungo al mondo).[3]
Oltre che la posa di nuovi cavi sottomarini per il trasporto di energia elettrica, il Mediterraneo potrebbe anche assistere ad una riconversione dei gasdotti attualmente esistenti come veicoli di trasporto per l’idrogeno, un elemento che sembra destinato a ricoprire un ruolo cruciale nella transizione energetica. Nelle sue versioni “verde” (ottenuta tramite elettrolisi dell’acqua) e “blu” (ottenuta da combustibili fossili, ma ricorrendo anche a sistemi di cattura e stoccaggio della CO2), esso potrebbe infatti arrivare a coprire, secondo l’IRENA, una quota del 12% dei consumi totali di energia nel 2050, con alcune rilevanti implicazioni a livello geopolitico. L’idrogeno è infatti un vettore energetico in grado di immagazzinare e trasportare grandi quantità di energia senza produrre emissioni e rende quindi possibile trasferire l’energia prodotta da fonti rinnovabili anche su lunghe distanze, tramite gasdotti e trasporto marittimo. Un gran numero di paesi avrebbe quindi il potenziale per affermarsi come fornitore di idrogeno verde e sono molti, infatti, i governi che hanno già assegnato all’idrogeno un ruolo importante nella loro diplomazia, tanto tra i potenziali esportatori quanto tra gli importatori. Questi ultimi ritengono, infatti, che l’idrogeno possa rivelarsi cruciale ai fini della sicurezza energetica, dato che l’elevato numero di fornitori già prospettato sembra rendere improbabile la formazione di monopoli e cartellizzazioni. Tuttavia, l’attuale incertezza riguardo alle tecnologie necessarie e ai loro costi rende lo scenario ancora incerto. Inoltre, va tenuto in conto che anche per la produzione e lo stoccaggio dell’idrogeno sono necessarie alcune Materie Prime Critiche, soggette ai rischi a cui si accennava poco sopra.[4]
Se l’utilizzo dell’idrogeno come vettore energetico rappresenta uno sviluppo relativamente recente, c’è invece un’altra tecnologica ormai consolidata di cui tenere conto, vale a dire il nucleare da fissione. Nonostante l’abbandono dei programmi nucleari civili decretato da numerosi governi – soprattutto in seguito ai disastri di Černobyl' e Fukushima – abbia portato a una progressiva riduzione della quota del nucleare nella produzione totale di energia elettrica fino all’odierno 10%, l’energia prodotta tramite fissione sta tornando ad attirare l’attenzione di molti paesi, che la ritengono indispensabile per gli obiettivi di decarbonizzazione (non produce, infatti, emissioni, e non è caratterizzata dall’intermittenza tipica di solare ed eolico) e di indipendenza energetica. I progressi tecnologici in questo settore, e in particolare lo sviluppo degli Small Modular Reactors, potrebbero rendere via via più accessibile la produzione di energia nucleare anche ai paesi che non hanno la capacità finanziaria e infrastrutturale necessaria alla costruzione di centrali tradizionali. Attualmente, sono almeno una trentina gli stati che si sono dichiarati interessati ad avviare un programma nucleare civile e alcuni di essi hanno già avviato la costruzione di reattori. È il caso, questo, di Bangladesh, Egitto e Turchia, i quali hanno potuto contare su rapporti di cooperazione con Rosatom, l’azienda pubblica russa per l’energia nucleare. La Federazione russa rimane, ad oggi, il maggior esportatore mondiale di uranio e tecnologie relative al nucleare civile, ma anche Washington e Pechino si stanno impegnando in maniera crescente nella creazione di partnership in questo settore con i paesi in via di sviluppo. La Cina, inoltre, è il paese che sta dimostrando il più elevato tasso di sviluppo della propria capacità produttiva nel campo dell’energia nucleare, e si è posta come obiettivo la costruzione di 150 nuovi reattori tra il 2020 e il 2035 (al momento ne ha in attività 56). Nell’ambito di questa strategia, Pechino ha anche siglato, nel maggio 2024, un accordo con la Francia per lo sviluppo del nucleare civile, rinnovando un rapporto di cooperazione iniziato già negli anni Ottanta.[5]
Proprio la Francia è, come noto, il più grande produttore europeo di energia nucleare, tant’è che da sola fornisce metà della disponibilità dell’Unione europea. Altri paesi europei, invece, dimostrano molto meno entusiasmo nei confronti del nucleare, come nel caso di Portogallo, Danimarca, Austria e, soprattutto, Germania. Quest’ultima ha infatti chiuso il suo ultimo reattore nell’aprile 2023 e non ha preso parte al primo Nuclear Energy Summit tenutosi a Bruxelles nel marzo 2024, durante il quale numerosi paesi – tra cui l’Italia – hanno espresso la volontà di incrementare lo sviluppo del nucleare civile. I governi contrari all’utilizzo dell’energia nucleare puntano il dito, oltre che sui rischi legati a possibili incidenti, anche sulla questione delle scorie prodotte dai reattori. Lo smaltimento dei materiali radioattivi è infatti un problema di non poco conto, anche a livello geopolitico, in particolare per quanto riguarda la scelta dei siti di stoccaggio. La soluzione più facilmente attuabile prevede di seppellire le scorie a centinaia di metri di profondità in un terreno non sismico, ma al momento soltanto la Finlandia ha messo in attività un deposito di questo tipo.
I paragrafi precedenti hanno voluto evidenziare come la transizione a forme di energia pulita – inserendo tra queste anche il nucleare, in riferimento alla sua natura carbon-free – non comporti necessariamente la scomparsa dei legami di dipendenza e delle tensioni geopolitiche che hanno caratterizzato l’epoca delle fonti fossili. Ad essi si aggiungono poi anche altri rischi, quali ad esempio le minacce ibride (ossia fisiche e cibernetiche) rivolte alle infrastrutture energetiche. Sebbene queste non costituiscano una novità – si pensi, ad esempio, all’attacco ransomware rivolto alla Colonial Pipeline statunitense nel 2021 –, il rischio ad esse legato aumenterà inevitabilmente in conseguenza di una sempre maggiore digitalizzazione delle infrastrutture, resa necessaria dalla crescente elettrificazione del sistema energetico. La Task Force congiunta UE-Stati Uniti sulla sicurezza energetica, avviata nel 2022, e la direttiva UE sulla resilienza delle entità critiche sono alcuni esempi dell’attenzione che stati e istituzioni sovranazionali già dedicano a questo rischio potenziale.
Un ulteriore fattore di rischio per le infrastrutture energetiche è rappresentato dagli eventi climatici estremi. Ondate di calore o di gelo, incendi boschivi e forti venti possono danneggiare le infrastrutture di superficie, mentre le inondazioni – causate da piogge intense o dall’innalzamento del livello dei mari – minacciano quelle sotterranee e gli eventi estremi in mare possono mettere a rischio piattaforme e impianti di stoccaggio offshore. Inoltre, la carenza idrica può compromettere il funzionamento degli impianti di raffreddamento e di altre tecnologie energetiche che necessitano di grandi quantità d'acqua, mentre l'aumento delle temperature riduce la capacità di trasmissione delle linee elettriche. Eventi come lo shock petrolifero causato negli Stati Uniti dall’uragano Katrina nel 2005, o i danni alla produzione di petrolio nigeriana dovuti alle inondazioni del 2023, dimostrano che le infrastrutture legate alle fonti fossili sono tutt’altro che esenti da questi rischi. Tuttavia, le reti energetiche crescentemente elettrificate risultano ancora più vulnerabili agli eventi estremi. Se l’aumento di questi eventi per frequenza e intensità rappresenta quindi, da una parte, un chiaro esempio di come la transizione energetica sia indispensabile, dall’altra evidenzia i rischi a cui essa è soggetta allo stato attuale.
Occorre infine considerare un altro aspetto di grande rilievo per le future dinamiche globali, ossia le conseguenze della transizione energetica su paesi che da decenni fondano la propria economia sulle fonti fossili. Alcuni di essi hanno già dimostrato di saper assecondare il cambiamento, come nel caso della Russia, che sta mostrando interesse verso l’idrogeno, per la cui produzione e trasporto potrebbe ricorrere a giacimenti e infrastrutture già attivi per il gas naturale. Questa stessa prospettiva, legata al cosiddetto idrogeno “blu”, sembrerebbe la più adatta per i paesi produttori di idrocarburi, anche se in realtà molti di questi mirano a sviluppare anche i settori dell’idrogeno “verde” e delle rinnovabili.[6] Ne sono un esempio gli Emirati Arabi Uniti, che nel 2021 hanno lanciato la loro Hydrogen Leadership Roadmap, e l’Arabia Saudita, che in base al National Renewable Energy Programme del 2017 punta a ottenere il 50% della sua produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili entro il 2030, sfruttando nel contempo al massimo i giacimenti di idrocarburi esistenti. Altri paesi produttori, tuttavia, non dispongono delle risorse o della stabilità politica necessarie per attuare questa conversione e diversificazione, e rischiano quindi di subire una forte destabilizzazione economica, politica e sociale a causa della progressiva sostituzione delle fonti fossili a livello globale, con il conseguente calo delle esportazioni e aumento della disoccupazione. Tra i soggetti che corrono i maggiori rischi per i prossimi decenni, secondo le agenzie di rating, ci sono molti paesi africani. Questi sono infatti particolarmente dipendenti dalle esportazioni di idrocarburi – l’Algeria, ad esempio, deriva sin dagli anni Settanta oltre il 90% delle proprie entrate dall’export di energia – e i tentativi di diversificazione dell’economia sono spesso ostacolati dalla mancanza di risorse o dalla resistenza delle élite locali, come nel caso della Nigeria. Anche se molti stati africani dispongono di grandi giacimenti di materie prime necessarie per la transizione energetica (come cobalto, nickel e coltan), la cui esportazione potrebbero compensare il calo delle rendite degli idrocarburi, la conversione rischia di perpetuare alcune criticità strutturali delle loro economie, nonché di produrre squilibri tra le regioni al loro interno e alimentare nuove tensioni per il controllo di tali risorse.[7]
In conclusione, sebbene la transizione energetica verso fonti rinnovabili porti indubbi vantaggi legati tanto alla decarbonizzazione e alla lotta contro i cambiamenti climatici, quanto alla sicurezza energetica, essa comporta anche una serie notevole di sfide, legate, in particolare, ad una ridefinizione delle dinamiche che avevano finora caratterizzato lo scenario mondiale, con nuovi player, nuove alleanze e nuove dipendenze che hanno già iniziato a delinearsi.
[1] International Renewable Energy Agency (IRENA), Geopolitics of the energy transition: Energy security, International Renewable Energy Agency, Abu Dhabi, 2024 (https://www.irena.org/Publications/2024/Apr/Geopolitics-of-the-energy-transition-Energy-security).
[2] Ian Klaus e Simon Curtis, “The New Corridor Competition Between Washington and Beijing”, Carnegie Endowment for International Peace, 12 aprile 2024 (https://carnegieendowment.org/posts/2024/04/the-new-corridor-competition-between-washington-and-beijing?lang=en).
[3] Laura El-Katiri, “Sunny side up: Maximising the European Green Deal’s potential for North Africa and Europe”, European Council on Foreign Relations (ECFR), 9 gennaio 2023 (https://ecfr.eu/publication/sunny-side-up-maximising-the-european-green-deals-potential-for-north-africa-and-europe/).
[4] International Renewable Energy Agency (IRENA), Geopolitics of the Energy Transformation: The Hydrogen Factor, 2023 (https://www.irena.org/Digital-Report/Geopolitics-of-the-Energy-Transformation).
[5] Jane Nakano, “The Changing Geopolitics of Nuclear Energy A Look at the United States, Russia, and China”, Center for Strategic and International Studies (CSIS), 2020 (https://www.csis.org/analysis/changing-geopolitics-nuclear-energy-look-united-states-russia-and-china).
[6] Ali Al-Saffar e Matthew Van der Beeuren, “The case for energy transitions in major oil- and gas-producing countries”, International Energy Agency (IEA), 18 novembre 2020 (https://www.iea.org/commentaries/the-case-for-energy-transitions-in-major-oil-and-gas-producing-countries).
[7] Tegan Blaine, “Can the World Go Green Without Destabilizing Oil-Pumping Nations?”, United States Institute of Peace (USIP), 23 giugno 2021 (https://www.usip.org/publications/2021/06/can-world-go-green-without-destabilizing-oil-pumping-nations).