Come la Siria di Assad cerca di recuperare posizioni a livello internazionale
La riammissione della Siria all'interno della Lega Araba pone fine all'isolamento regionale di Damasco. L'analisi di Emanuele Rossi
I ministri degli Esteri della Lega Araba hanno deciso, domenica 7 maggio, per il re-inserimento della Siria nell’organizzazione “con effetto immediato”, come dice la dichiarazione pubblica. La mossa pone fine all'isolamento regionale della Siria iniziato oltre un decennio fa, facendo riacquisire al Paese un ruolo formale negli affari multilaterali del mondo arabo, mentre Damasco ha già riavviato rapporti bilaterali con gli Emirati Arabi Uniti e con l’Egitto (che nella Lega ha un ruolo centrale). A questo punto si creano anche i presupposti per permettere al presidente siriano, Bashar al-Assad, di essere presente al vertice tra i leader dell’organizzazione, che sarà ospitato questo mese a Riad.
Gli interessi degli attori arabi
La partecipazione di Assad a un vertice della Lega Araba segnerebbe lo sviluppo più significativo della sua riabilitazione all'interno del mondo arabo, da cui è stata escluso dal 2011, quando la Siria fu sospesa dall'organizzazione come misura punitiva in risposta alla brutale repressione delle proteste contro il regime assadista. Azioni che hanno portato poi all’esplosione della guerra civile, una catastrofe umanitaria ancora non del tutto risolta – l’Europa, per esempio, paga ancora il costo della fuga dal Paese in termini di flussi migratori –, anche se ormai i governativi hanno di fatto riconquistato il controllo della stragrande maggioranza del Paese. Un risultato ottenuto anche grazie all’aiuto decisivo fornito dall’intervento militare russo (nel 2015) e al puntellamento del regime da parte dell’Iran e delle milizie sciite sostenute dai Pasdaran.
Il ritorno della Siria nell'organismo di 22 membri è simbolico, giacché riflette un cambiamento nell'approccio regionale al conflitto siriano. Damasco non è più un avversario contro cui facilitare dinamiche destabilizzanti – come l’assistenza ai ribelli nel tentativo di produrre un regime change. Nel nuovo ordine regionale in cui trova spazio l’appeasement iraniano-saudita mediato a Pechino, una forma di riqualificazione assadista è conseguenza collegata – tanto quanto l’attesa e auspicata consolidazione del cessate il fuoco in Yemen. E si procede anche con velocità: dopo il mese sacro musulmano del Ramadan sono state avviate le procedure per riaprire le sedi diplomatiche reciproche di Siria e Arabia Saudita. Da oltre un anno l'Arabia Saudita aveva posto delle condizioni che il governo siriano doveva soddisfare come clausole per ricucire i rapporti.
Lunedì primo maggio, i ministri degli Esteri di Giordania, Egitto, Arabia Saudita e Iraq si sono incontrati ad Amman con il ministro degli Esteri siriano per discutere nuovamente, e in modo approfondito, di quelle condizioni. In una dichiarazione rilasciata al termine dell'incontro, i ministri hanno chiesto che tutte le forze straniere lascino la Siria e hanno esortato il regime siriano a compiere alcuni passi, come consentire il ritorno in sicurezza dei rifugiati siriani e fermare il contrabbando di droga attraverso il Paese. La droga in questione è soprattutto il Captagon (e in generale le anfetamine), di cui la Siria è un nodo di smistamento (anche grazie all’attività di gruppi come Hezbollah attorno a questo business). Assad ha offerto aperture, ma sostanzialmente le vincolava al rientro nella Lega Araba — che significa la riqualificazione diplomatica regionale e dunque internazionale. La dinamica, che segna anche la dimensione di narcostato siriano, tocca anche l’Italia: a giugno 2020 un carico enorme di metanfetamine siriane fu bloccato dalla Guardia di Finanza al porto di Salerno — e si scoprì in seguito che tra l’organizzazione di spaccio internazionale c’erano anche figure non distanti al circolo del regime.
Tettonica geopolitica
Un catalizzatore del processo di riqualificazione Siria e è stato anche il terremoto, seppure con tutta la sua drammaticità. La tragedia che ha colpito la Siria e la Turchia ha portato diversi Paesi — per primi quelli del Golfo e gli alleati – a fornire supporto umanitario a Damasco (e farlo cercando formule per evitare di finire invischiati nell’ampia serie di sanzioni occidentali che colpiscono la Siria).
Damasco, subito dopo il sisma, ha ricevuto telefonate dal presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi – mai successo prima –, e dal Re del Bahrain, Hamad bin Isa al-Khalifa, oltre ad ospitare il ministro degli Esteri emiratino – che era già stato in Siria nel novembre 2021 –, quello giordano – non c’era mai stata una visita giordana di alto livello in Siria dall’inizio del conflitto – e quello egiziano. L’Oman, Paese strategico nelle attività di dialogo regionali, e dunque anche nel processo di recupero pubblico di Assad, a poche settimane di distanza dal terremoto ha ricevuto il presidente siriano per colloqui ufficiali. La Tunisia ha ufficialmente avviato le procedure per ristabilire i legami diplomatici con Damasco. Il ministro degli Esteri siriano ha anche viaggiato verso la capitale saudita ad aprile, la prima visita di questo tipo da quando i due Paesi hanno interrotto le relazioni nel 2012.
All’interno di queste attività, anche l’Italia ha avuto un ruolo da precursore, in quanto primo Paese europeo ad aver fornito soccorso ai siriani attraverso veicoli di assistenza organizzati dall’Ue. Iraq, Palestina, Giordania, Libia, Oman, Libano, e soprattutto Emirati e Arabia Saudita hanno inviato aiuti in Siria — e Turchia, con Ankara che è parte in causa di certi processi. Meno di due mesi fa, durante la prima visita ufficiale di un ministro degli Esteri siriano al Cairo in oltre dieci anni, le due parti hanno concordato di rafforzare la cooperazione anche in ottica ricostruzione post-sisma e post-guerra. Dunque, il percorso non si fermerà all’emergenza sismica e alla necessità di fermare la droga siriana. L'Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo, come gli Emirati Arabi Uniti, stanno puntando a grandi progetti infrastrutturali in Siria come parte della ricostruzione del Paese.
Chi storce il naso e perché (c’entra anche l’Iran)
Alcune nazioni, tra cui Stati Uniti e Qatar, si sono opposti alla normalizzazione dei legami con Assad, citando la brutalità del suo governo durante il conflitto e la necessità di vedere progressi verso una soluzione politica in Siria prima di compiere certi passi. Il Segretario di Stato statunitense, Antony Blinken, ha detto al suo omologo egiziano, in una telefonata nei giorni scorsi, che "coloro che si impegnano con il regime di Assad dovrebbero valutare attentamente come questi sforzi rispondono alle esigenze del popolo siriano", secondo le dichiarazioni del Dipartimento di Stato.
Inoltre, le forze israeliane potrebbero aver effettuato anche recentemente attacchi aerei contro avamposti nella provincia siriana di Homs. Certi raid non sono quasi mai pubblicizzati, ma fanno parte delle attività anti-iraniane di Israele. Questo del personale iraniano è uno dei grandi problemi sulla riqualificazione assadista: i Paesi arabi chiedono che Damasco riduca sensibilmente la presenza dei Pasdaran e del personale militare collegato sul proprio territorio.
Nei giorni scorsi, per la prima volta dall’inizio della guerra civile, un presidente iraniano è andato in visita a Damasco. Il viaggio di Ebrahim Raisi avviene nel contesto della più ampia ondata di normalizzazione nella regione – innescata negli ultimi due anni – e che ora vive un nuovo moto spinto anche dall'intesa iraniano-saudita mediata a Pechino. Teheran ha agganciato all’interno del contesto siriano un’ampia serie di interessi che intende preservare. Raisi e Assad hanno firmato accordi di cooperazione a lungo termine sul petrolio e altri settori per rafforzare i legami economici. L’Iran — oltre al sostegno militare — ha anche fornito un'ancora di salvezza economica ad Assad, inviando carburante e linee di credito per miliardi di dollari. Ora vuole spazio nella ricostruzione per progetti come quello con cui la compagnia ferroviaria statale aspira da tempo a espandere la propria rete collegandola al porto siriano di Latakia — ossia permettersi un affaccio strategico sul Mar Mediterraneo.
Occhi su Mosca
Europei e (soprattutto) americani vorrebbero invece una riduzione della presenza e della capacità di influenza iraniana generale, cosa che per i Paesi arabi si limita al controllo sulle milizie — considerando invece forme di cooperazione per la ricostruzione siriana. Per Usa e Ue, in definitiva per la NATO, c’è anche un altro enorme tema: la presenza strategica russa. Dall’intervento militare otto anni fa, Mosca ha guadagnato il rafforzamento della base navale a Tartus e la strutturazione di quella aerea a Latakia, entrambe nel Levante.
Non è un caso se a inizio aprile è apparsa nel Mediterraneo la portaerei "George Bush" col suo gruppo da battaglia. Gli Stati Uniti sostengono che continueranno a schierare il comparto navale nel bacino per dare alla Casa Bianca un’ampia scelta operativa — poche settimane fa gli USA hanno subito in Siria un attacco da parte delle milizie assadiste sostenute dall'Iran. Ma quelli delle unità della US Navy sono anche posizionamenti strategici. Mosca sta usando il Mediterraneo come ambiente geopolitico su cui specchiare i riflessi della guerra in Ucraina — la Siria è centro logistico per certe attività, facendo da base extraterritoriale aerea e navale. L’obiettivo russo potrebbe essere una destabilizzazione a proprio vantaggio con cui distogliere le attenzioni occidentali dall’Ucraina.
La Russia tra Siria e Turchia
Contemporaneamente la Russia si muove anche ai tavoli diplomatici, movimentando il sistema quadrilaterale con Turchia, Siria e Iran, e cercando di capitalizzare a proprio vantaggio le dinamiche innescata dalla Lega Araba. La Turchia in particolare è oggetto delle attenzioni di Vladimir Putin, che sa quante sensibilità il suo omologo Recep Tayyp Erdogan si trova attorno in questo anno elettorale – colpito anche dal terremoto.
Mosca vorrebbe cercare di garantire equilibri al nord della Siria, area in cui si muovono i curdi e che è stata oggetto delle incomprensioni iniziate diversi anni fa con Washington. Erdogan cerca un accomodamento che possa permettere la sopravvivenza della narrazione strategica che ruota attorno al controllo securitario del Paese e i nuovi equilibri che sta costruendo dopo l’appeasement tattico con Emirati, Egitto e Israele – distensione che piace a Washington, ma su cui c’è fiducia relativa da parte degli interlocutori turchi. Gran parte di queste attività strategiche e tattiche sugli affari regionali/internazionali passano dalla Siria. Come d’altronde succede in qualche modo da oltre un decennio.
La Russia guadagnerebbe nella propria narrazione strategica da una distensione tra Turchia e Siria. Mosca passerebbe per attore responsabile che ha posto fine politicamente al confronto turco-siriano — che ha alimentato anche la guerra civile. Il Cremlino trova anche interesse pratico nel ravvicinamento, perché il collegamento Tartus-Mar Nero ha un ruolo importante nella strategia mediterranea russa.
Distensione tra Ankara e Damasco?
Due decenni di guerre, rivolte e rovesciamenti di regimi hanno devastato il Medio Oriente, ma, ora che si è innescato un effetto domino di diplomazia e ricucitura di relazioni, Turchia e Siria potrebbero trovare necessità e interesse in una distensione. Anche perché Ankara non vuol restare indietro rispetto alla Lega Araba. I due Paesi hanno 764 chilometri di confine da gestire e un interesse comune a far uscire le truppe americane da quella fascia per poter innescare una qualche forma di controllo condiviso. Damasco vuole l'aiuto di Ankara per reprimere i combattenti qaedisti rimasti asserragliati a Idlib e in altre sparute zone della Siria nordoccidentale. In cambio, si è offerta di aiutare la Turchia a combattere il PKK e i gruppi curdi affiliati nel nord-est della Siria.
La questione dei milioni di rifugiati siriani è un altro argomento spinoso. Sui colloqui incombono le elezioni turche: per Damasco probabilmente la vittoria di Kemal Kilicdaroglu, lo sfidante di Recep Tayyp Erdogan, è più congeniale agli interessi della Siria anche perché ha già dichiarato che si ritirerà dal 10% della Siria che la Turchia controlla attualmente. Tuttavia, c’è da valutare l’incognita della gestione di una sconfitta di Erdogan dopo due decenni di governo del Paese. Uno scenario sicuramente complesso anche per Assad.