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Come Seul investe sulla sicurezza e la deterrenza regionale

In vista della parata del primo ottobre, la Corea del Sud porta avanti il suo programma di investimenti nel settore della difesa. L’analisi di Emanuele Rossi

A metà agosto, i cittadini di Seul hanno ricevuto un messaggio di allerta sui loro schermi: abituati come ormai sono ai test militari della Corea del Nord, in molti hanno pensato che potesse trattarsi di un avviso di un missile finito nello spazio aereo meridionale della Penisola. E invece era un “Public safety alert” legato alle prove della parata militare che si terrà il primo ottobre. L’evento sarà simbolico, utile anche per la strategia di sicurezza di Seul, che in questi giorni è protagonista di esercitazioni anfibie congiunte con gli Stati Unit ed è in una fase di rafforzamento della sua impronta strategica, anche tramite nuovi investimenti nel budget per la Difesa.

Il governo sudcoreano ha ceduto per necessità a una sorta di “nordcoreanizzazione” passando ad una linea più “militarista” come risposta alle azioni dell’autocrate di Pyongyang, Kim Jong-un, che dopo una stagione di sbandierate quanto effimere volontà negoziali è tornato di forza a proteggere il suo potere mostrando le armi. Per mantenere gli equilibri nel regime questo atteggiamento è parte del gioco, e allora certe posture diventano anche un boccone da far digerire alla democratica e libera società sudcoreana. Quasi come un riflesso strategico incondizionato.

Pur nelle sostanziali diversità (e nelle letture iperboliche dei singoli, anche legate a differenze nelle visioni politiche), da tempo la società sudcoreana è divisa tra chi vorrebbe aumentare le capacità di deterrenza – perché convinto che prima o poi Kim possa passare oltre al piano delle minacce e delle dimostrazioni – e chi chiede l’avvio di una fase di negoziati sinceri ed efficaci che possa pacificare la Penisola, mai in pace sin dai tempi della Guerra di Corea.

Mentre il passaggio dalla presidenza progressista di Moon Jae-in a quella conservatrice di Yoon Suk-yeol (nel 2022) ha influenzato anche l’approccio del Paese in materia di politica estera e difesa — Moon aveva addirittura invitato la potente sorella del satrapo nordcoreano, Kim Yo-jong, all’inaugurazione delle Olimpiadi invernali di Pyeongchang — l’aumento degli investimenti nel comparto militare è questione trasversale. Basta leggere i dati con cui il budget per la Difesa è cresciuto seguendo questa tendenza: 2019-2020 circa il 6% di aumento; 2020-2021 il 6,1%; 2021-2022 il 3,5%; 2022-2023 il 5,5% di aumento rispetto all’anno precedente.

Anche per il 2024 è stato pianificato un aumento del 4,5% del budget per la difesa, portandolo a 59,49 trilioni di won (circa 45 miliardi di dollari). Gran parte del budget è destinato al sistema di deterrenza a “Tre Pilastri”, che include il programma Kill Chain, il sistema di Difesa Aerea e Missilistica della Corea (KAMD), e il programma di Punizione e Ritorsione Massiccia della Corea (KMPR). Un ulteriore aumento del 3% è stato fissato per il 2025, arrivando a 46,3 miliardi di dollari, dunque superando la soglia psicologica 60 trilioni di won (con l’asticella spostata a 61,5 trilioni di won).

Il bilancio, come accennato, si concentra sul rafforzamento del sistema dei Tre Pilastri, allocando risorse significative per l’acquisizione di armi avanzate e l’aggiornamento del personale militare. In particolare: la “Kill Chain” è una dottrina di attacco preventivo con cui la Corea del Sud potrebbe essere in grado di sparare rapidamente un numero enorme di missili tattici e strategici per eliminare tutte le principali strutture di comunicazione del nemico, concentrandosi subito sulle risorse di ricognizione e sorveglianza. La KMPR è una dottrina fondata sull’idea dell’utilizzo di missili per annientare il cuore pulsante del comando nemico, le risorse critiche e la leadership (anche per anticipare le capacità di utilizzo delle armi di distruzione di massa da parte della Corea del Nord); il KAMD è un sistema di difesa missilistica per proteggere il territorio.

Oltre alle opzioni pre-emptive e difensiva, presto verrà istituito un nuovo, enorme “Comando Strategico” con il quale Seul lavorerà non solo sui teatri operativi, ma pianificando per il futuro e coordinando un eventuale attacco totale contro il Paese.

Seul non vuole mostrarsi debole davanti a un mondo — quello di Kim — che percepisce solo il valore della forza. Negoziare sì, se possibile, ma forti della deterrenza. Tanto più se si considera che Pyongyang ha rafforzato legami e cooperazione con la Russia, un Paese che non ha avuto timore di invadere l’Ucraina. E anche per questo Seul ha approfondito le relazioni con la Nato (la Corea del Sud dal 2021 è ospite fisso dei Nato Summit, sotto il formato IP4) e partecipato alle misure occidentali contro Mosca — finora in forma più soft, ma si stanno valutando anche impegni maggiori.

La parata del primo ottobre, organizzata per celebrare il 75º anniversario del Giorno delle Forze Armate e il 70º anniversario dell’alleanza con gli Stati Uniti, assume questa doppia simbologia. Yoon spinge sulla strategia a lungo termine, consapevole che il rafforzamento militare non può non essere condiviso con Washington.

C’è infatti anche il tema del confronto tra Stati Uniti e Cina. La politica di Seul rientra negli interessi strategici americani, che vedono come necessità un riarmo programmato dei partner indo-pacifici ed europei, in quanto contribuisce alla creazione di un fronte compatto, ma articolato, pronto a ogni evenienza — in un mondo in cui gli avversari del modello democratico si stanno allineando (Cina, Russia, Iran, Corea del Nord intrecciano infatti le loro attività).

Attualmente la U.S. Force Korea è composta da 28.500 unità dispiegate (con vari assestamenti) dal 1950 e restate dopo la fine della Guerra di Corea di tre anni dopo. Pur essendoci comunque un ampio sostegno per l’alleanza bilaterale in termini di sicurezza, c’è chi tra l’opinione pubblica e intellettuale sudcoreana ipotizza che tale presenza non abbia agevolato una totale rappacificazione con Pyongyang. Ma per Washington adesso quella presenza è altamente strategica in chiave di contenimento cinese.

Nonostante che, durante la sua presidenza, Donald Trump avesse espresso più volte una posizione critica riguardo alla presenza delle forze statunitensi in Corea del Sud. Trump aveva sostenuto che Seul dovrebbe contribuire maggiormente ai costi del mantenimento delle truppe americane nel Paese, affermando che gli Stati Uniti stavano pagando una quota sproporzionata per la difesa della Corea del Sud.

La questione del burden-sharing (condivisione dei costi) è continuata anche durante l’amministrazione Biden, che in modo meno conflittuale ha raggiunto un accordo per una maggiore condivisione delle spese nel 2021. Anche in vista dei futuri passaggi alla Casa Bianca, Seul continua a muoversi e mostrarsi proattiva.

La Cina intanto ha cercato di sfruttare le polemiche interne al contesto politico sudcoreano. Come in ogni confronto politico democratico, la questione del riarmo è anche stata sfruttata dall’opposizione per criticare l’esecutivo e Pechino ha a sua volta sfruttato questa discussione per criticare il rafforzamento delle relazioni militari tra Seul e Washington. Questo perché l’asse, che con i Camp David Principles è diventato a tre nodi, comprendendo anche il Giappone, è chiaramente problematico per i piani del Partito/Stato cinese e le sue ambizioni regionali. Questa narrativa è stata infatti amplificata attraverso campagne di disinformazione e propaganda mirate a influenzare l’opinione pubblica sudcoreana contro le scelte dei vari governi. Quando lo scorso anno fu firmata la cosiddetta “Washington Declaration” con cui Usa e Corea del Sud hanno concordato di rafforzare la deterrenza nucleare contro la Corea del Nord — includendo l’eventuale dispiegamento di sottomarini a propulsione nucleare statunitensi in Corea del Sud — le autorità cinesi parlarono di “mentalità da Guerra Fredda”, criticando l’amministrazione Yoon per la politica filo-americana. Pechino sostiene che questa potrebbe destabilizzare la regione e, per questi motivi, la Cina lavora anche per alimentare il dissenso tra quei sudcoreani critici dell’influenza statunitense, dell’aumento delle spese militari e in generale delle politiche di Yoon.

Le ragioni di questa strategia si sono evidenziate anche con quanto accaduto in questi giorni con l’esercitazione “Ssang Yong 24”, conclusasi il 7 settembre 2024, e svoltasi davanti alla città costiera di Pohang. Ci sono stati 13.000 militari, inclusi marines sudcoreani, statunitensi e una compagnia di Royal Marines britannici, in uno dei più importanti esercizi anfibi congiunti tra i due Paesi, mirato a rafforzare l’interoperabilità e la prontezza al combattimento dell’alleanza. Il valore strategico delle operazioni anfibie risiede nella capacità di proiettare forze su territori costieri ostili e conquistare punti strategici, come spiagge e porti, sotto la protezione di forze aeree e navali.

Queste esercitazioni permettono di affinare le capacità di risposta rapida a un’eventuale crisi nella penisola coreana, ma non solo. La coordinazione tra Stati Uniti ed eserciti alleati è per la Cina un problema pratico: se Pechino dovesse svolgere azioni avventate nel Mar Cinese o contro Taiwan, si troverebbe davanti gli Usa con una capacità di contro-reazione avanzata. Seul, con il suo riarmo, sarebbe una sponda fondamentale di certe attività.

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