Convergenza su Tunisi. La crisi mediterranea tra Occidente e Cina
Sulla tenuta politica della Tunisia, alle prese con una cronica crisi economica e finanziaria, convergono interessi regionali e internazionali, tra cui quelli dell’Italia. Il punto di Francesco Meriano
La Tunisia si conferma cardine fragile degli equilibri mediterranei. Sulla tenuta politica del paese dei gelsomini, incrinata da una cronica crisi economica e finanziaria, convergono infatti interessi regionali e internazionali – tra cui spiccano quelli dell’Italia. Lo conferma l’incontro a Roma di Nabil Ammar, ministro degli Esteri tunisino fresco di nomina, con l’omologo italiano Antonio Tajani e con il Commissario europeo per l’allargamento e la politica di vicinato, Olivér Várhelyi, volto alla risoluzione dello stallo tra palazzo Cartagine e il Fondo monetario internazionale. A Washington, a margine delle riunioni di primavera del Fmi, il ministro dell’Economia e delle finanze Giorgetti ha discusso con la delegazione tunisina capeggiata dall’omologo Samir Said. Mentre il Commissario europeo per l’Economia ed ex-presidente del consiglio italiano, Paolo Gentiloni, si è recato a Tunisi per un incontro d’urgenza con il premier Najla Bouden.
L’immediata priorità dell’azione europea e italiana si lega a doppio filo – nel favorire lo sblocco di potenziali finanziamenti internazionali a risanare il deficit di bilancio tunisino – al contenimento dei flussi migratori sud-nord nel bacino mediterraneo. L’aggravarsi della crisi economica riflette l’incremento delle partenze illegali dal paese: flussi diretti soprattutto verso l’Italia – prima destinazione per oltre il 60% degli arrivi registrati dagli Interni di Roma nel 2022[1] – che, analogamente a quanto accaduto sulla scia del conflitto civile siriano, rischiano di minare la coordinazione strategica europea alla luce del controverso quadro legislativo degli accordi di Dublino. Per la sponda settentrionale del Mediterraneo, la crisi tunisina indebolisce infatti la stabilità della fascia maghrebina e nordafricana: un cordon sanitaire tra Europa e Africa subsahariana, già minato dalla dissoluzione del potere statuale in Libia e potenziale “ventre molle” di una frontiera sempre più esposta alle pressioni migratorie dai paesi del Sahel.
Cruciale alla cooperazione Roma-Tunisi anche il comparto dell’energia. L’interruzione degli approvvigionamenti di idrocarburi dalla Russia modifica gli equilibri regionali a favore dei produttori africani e rinnova la centralità strategica delle pipelines mediterranee. Attraversa il territorio tunisino il gasdotto Transmed che collega Algeria e Sicilia, tramite il quale l’Italia riceve i 9 miliardi di metri cubi annui di gas naturale sbloccati in aprile 2022 con gli accordi tra Eni e la parastatale algerina Sonatrach. Risale invece a dicembre l’erogazione, da parte della Commissione europea, di 307 milioni di euro volti a finanziare il progetto di elettrodotto sottomarino El Med, frutto di un accordo bilaterale risalente al 2021 e destinato a connettere Capo Bon alla Sicilia per 230 chilometri e 600 megawatt di capacità.
Si tratta di intese mirate tanto all’integrazione del fabbisogno energetico di Roma quanto alla definizione di una più ampia proiezione regionale per il sistema paese. Il riassetto delle dinamiche di approvvigionamento verso il Mare nostrum, sulla scia del conflitto ucraino, qualifica l’Italia a potenziale snodo energetico tra la sponda sud del Mediterraneo e l’Europa continentale, alleviando al tempo stesso la pronunciata dipendenza della Tunisia dagli idrocarburi algerini e favorendo il redirezionamento di ulteriori volumi di gas verso l’Unione Europea.
Sinergie, queste, messe a rischio da squilibri che profilano una potenziale crisi sistemica di più ampia portata. All’acuirsi della crisi economica tunisina concorre la sempre maggiore scarsità di carburante e generi alimentari innescata dall’interruzione delle catene di fornitura mediterranee sulla scia del conflitto tra Mosca e Kiev, nonché dalla prolungata siccità, che danneggia il comparto agricolo (già reduce da una stagione di endemici roghi estivi) e riduce al minimo storico le riserve idriche tunisine.
Segnali di dissesto che contribuiscono a polarizzare il confronto politico tra la presidenza di Kais Saied e l’eterogenea alleanza dei partiti anti-governativi, riuniti sotto l’egida di un Fronte di salvezza nazionale ad ampio spettro. La coalescenza di un’opposizione organizzata – seppure incrinata dai contrasti interni – cozza con il rapido accentramento dei poteri statuali attorno alla figura di Saied, promotore di riforme elettorali e costituzionali volte a rafforzare le prerogative del capo di Stato.
Un programma nel segno di un pronunciato accentramento di potere che incontra la resistenza delle correnti islamiste e segnatamente di Ennahda, estensione locale della Fratellanza musulmana e prima forza politica del Parlamento dissolto da Saied nel 2021. L’escalation delle ultime settimane – culminata in una campagna di arresti che ha coinvolto numerosi esponenti di Ennahda, tra cui il fondatore e ideologo del movimento, Rachid Ghannouchi – si consuma sullo sfondo di un crescente malcontento civile: disaffezione nutrita dal deterioramento delle condizioni economiche e in buona parte trasversale al contrasto tra establishment e Islam politico.
Si inserisce in questo quadro il controverso negoziato tra palazzo Cartagine e il Fondo monetario internazionale. In corso dall’estate 2022, le trattative prevedono l’apertura di una linea di credito da 1,9 miliardi di dollari – misura emergenziale e condizionata all’adozione di una serie di riforme del comparto economico tunisino, volte ad allargare la base fiscale, tagliare i sussidi statali e ridurre una sovradimensionata burocrazia civile.
Sarebbe una boccata d’ossigeno per l’economia tunisina – asfissiata da un debito estero che assorbe oltre l’80% del prodotto interno lordo nominale[2] – ma una lama a doppio taglio per la tenuta della presidenza Saied. Ridimensionare i sussidi governativi alla popolazione e il servizio civile – le cui nomine sono tradizionalmente condizionate alle logiche di uno spoils system funzionale alla quiescenza delle parti politiche – rischierebbe di costituire la proverbiale scintilla sulla polveriera di una già fragile pace sociale. Un’inerzia forzata a fronte della quale i negoziati sembrano essersi arenati, mentre la progressiva erosione delle riserve di valuta estera profila il rischio sempre più concreto di un default su scala nazionale e spinge Roma e Bruxelles a intensificare i tentativi di mediazione.
Ma la crisi tunisina apre le porte anche all’azione di attori esterni al bacino mediterraneo. A inizio aprile, la Repubblica popolare cinese ha espresso il proprio assenso all’ingresso della Tunisia nel blocco delle economie emergenti BRICS, che comprende anche Brasile, Russia, India e Sudafrica: mentre il portavoce del movimento filogovernativo 23 luglio, Mahmoud Ben Mabrouk, ha dichiarato che Tunisi sarebbe pronta per aderire al mastodontico programma commerciale BRI (Belt and Road Initiative) promosso da Pechino. Dichiarazioni che coincidono con un sensibile inasprirsi dei toni adottati da Saied nei confronti degli intermediari occidentali, i quali punterebbero a imporre “diktat stranieri” sul paese dei gelsomini.
L’ouverture di Pechino amplifica le ripercussioni della crisi tunisina ben oltre i confini del Mediterraneo, innestando il dossier regionale nella più ampia competizione geopolitica tra la Repubblica popolare e gli Stati Uniti. Toni riecheggiati dal ministro degli Esteri cinese Liu Wenbin, che ha esortato gli USA a “farsi carico delle proprie responsabilità” nei confronti dei paesi africani quale principale shareholder di Fondo monetario e Banca mondiale, sottolineando l’impegno di Pechino a favore dell’alleggerimento del debito internazionale contratto dalle nazioni del continente.
In questo quadro, la potenziale offerta di un finanziamento alternativo, no strings attached, contribuirebbe a consolidare l’influenza cinese sulla Tunisia, ideale rampa di lancio per la penetrazione economica di Pechino verso i mercati in crescita dell’Africa subsahariana. Una mossa dal valore strategico e simbolico, che sancirebbe lo status di Pechino quale possibile riferimento alternativo, per le economie in via di sviluppo, alle economie dell’Occidente. E che eroderebbe il nostro spazio di manovra in uno scacchiere fondamentale per l’autonomia strategica di Europa e Italia.
[1] Paluzzi, P. Allarme Tunisia, caos e crisi spingono le partenze. ANSA 2023. https://www.ansa.it/ansamed/it/notizie/rubriche/cronaca/2023/03/10/allarme-tunisia-caos-e-crisi-spingono-le-partenze_fab4273c-c163-4fcb-94cf-87b46bc5a0d2.html
[2] Dati CEIC. https://www.ceicdata.com/en/indicator/tunisia/government-debt--of-nominal-gdp