COP28: dagli Emirati si confermano la necessaria gradualità della transizione e il valore della conferenza stessa
Dai progressi sul fondo ‘Loss and damage’ alla proposta di triplicare la quota di nucleare nei mix energetici da parte di venti paesi. La Cina chiede progressi sulla mitigazione dei cambiamenti climatici, mentre continua a puntare sul carbone.
Si è conclusa recentemente a Dubai la COP 28, un evento che è servito agli Emirati Arabi per affermarsi sulla scena internazionale come un paese disposto a impegnarsi nella lotta al cambiamento climatico. Sebbene Abu Dhabi rappresenti il settimo produttore di petrolio al mondo, si sta posizionando come uno degli attori regionali più attivi nella transizione energetica, insieme all’Arabia Saudita. Questo ruolo di primo piano probabilmente integrerà gli Emirati in molti investimenti occidentali legati al progressivo abbandono dei combustibili fossili.
Durante il primo giorno della Conferenza, i delegati dei 197 paesi presenti hanno raggiunto un accordo sull’effettiva implementazione del fondo ‘loss and damage’, ideato durante la COP 27 dello scarso anno al Cairo, volto a sostenere i paesi più colpiti dagli effetti estremi dei cambiamenti climatici. L’accordo prevede lo stanziamento di 700 milioni di dollari per l’anno in corso da parte delle economie sviluppate; un cifra che sembrerebbe ancora troppo bassa, ma che può essere considerata un primo passo concreto per tentare di porre un freno, in un orizzonte temporale di breve periodo, alle conseguenze degli eventi climatici estremi.
In agenda al summit di quest’anno c’era, però, un documento che indica lo stato dell’arte dello sforzo verso il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi: il Global Stocktake, una “valutazione” dei progressi compiuti nella mitigazione dei processi di riscaldamento del pianeta dal 2015. La stesura di questo documento, che avviene ogni cinque anni, prevede tre fasi: la prima, di raccolta delle informazioni, che si è conclusa due anni fa; c’è poi il vaglio dei dati rilasciati da ogni paese e, infine, l’imprimatur delle Nazioni Unite. I delegati dei paesi rappresentati alla COP 28 hanno approvato all’unanimità il citato documento, in cui si richiede di “procedere ad una ‘transizione graduale’ (transition away) dai combustibili fossili e accelerare l’azione in questo decennio critico”. In linea con gli Accordi di Parigi, i paesi devono sottoporsi a questa “valutazione”, comunicando le iniziative intraprese in materia di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici e le relative modalità operative.
La conferenza doveva chiudersi il 12 dicembre, ma, come accade quasi in ogni occasione, la conclusione è stata prorogata di alcune ore. Nel testo finale dell’intesa, si menziona per la prima volta l’abbandono dei combustibili fossili, una sostanziale novità rispetto alle precedenti conferenze sul clima delle Nazioni Unite. Seppure il testo dell’accordo non menzioni la “eliminazione progressiva” dei combustibili fossili, si traccia una roadmap per la transizione energetica, come ha ricordato anche il Segretario Esecutivo dell’UNFCCC, Simon Stiell: “La traiettoria di aumento della temperatura media globale è intorno a 3°; si doveva puntare più in alto. Ma, anche se qui a Dubai non abbiamo completamente voltato pagina sui combustibili fossili, questo è chiaramente l’inizio della fine”.
Tra coloro che possono definirsi insoddisfatti dall’accordo raggiunto, ci sono i rappresentanti dei piccoli stati insulari dell’Oceano Pacifico. Molti dei delegati dei 28 stati, ritengono che, sebbene l’accordo costituisca un passo in avanti, non dà l’impulso necessario all’azione contro il riscaldamento globale che serviva. Il rischio più grande per gli stati in questione è l’innalzamento del livello dei mari, che costituisce una minaccia esistenziale per gli stati insulari e costieri.
Insomma, è un accordo certamente non perfetto, anche perché non è facile conciliare gli interessi di più di 200 paesi. Sembra si sia trovata comunque una fragile ma fondamentale unità.
È opportuno menzionare, inoltre, una presa di coscienza comune. Ventidue paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito e la Corea del Sud, hanno espresso la volontà di triplicare le proprie capacità di produrre elettricità dall’energia nucleare da qui al 2050 con la firma di una dichiarazione. Emerge dunque la consapevolezza che, senza l’apporto dell’energia nucleare, non sembra possibile raggiungere gli ambiziosi obiettivi posti dalla Conferenza delle Parti, secondo cui è necessario contenere il riscaldamento della temperatura media del pianeta entro 1,5° rispetto ai livelli pre-industrali. I paesi che hanno formulato la proposta sottolineano come l’energia nucleare sia pulita, ormai sicura e complementare alle fonti solari ed eoliche, che, verosimilmente, non potranno sostenere tutta la transizione energetica. Nemmeno l’idrogeno sembra costituire una soluzione realistica, se ci riferiamo a un orizzonte temporale di breve e medio periodo; ha, infatti, bisogno di elettricità per essere utilizzato come un vero e proprio carburante. Quindi, ritenere che si possa operare una transizione completa dagli idrocarburi alle fonti rinnovabili in tempi brevi sembra puro wishful thinking, e questo è quanto è espresso anche nel documento finale.
Vi sono naturalmente alcune incongruenze. Per esempio, il caso della Cina, che nel 2022 risulta il primo paese per emissioni di Co2, con il 30% del totale. Se l’inviato per il clima di Pechino, Xie Zenhua, ha affermato come la Cina gradirebbe vedere la comunità internazionale trovare un accordo sul progressivo abbandono degli idrocarburi, non è chiaro se il paese sosterrebbe o meno tale sforzo. Al tempo stresso, non si può non considerare che Pechino ha intrapreso un piano di incremento del ruolo del carbone nel proprio mix energetico. L’economia cinese, che non naviga in acque tranquille, è fortemente dipendente dal carbone, che rappresenta la principale fonte dei consumi di energia nel paese Cina. La scelta cinese trova fondamento in due fattori: primo, il carbone risulta ancora la fonte energetica più economica per Pechino, considerato il gran numero di miniere nel paese. Secondo, le rendite del carbone e i numerosi posti di lavoro generati non spingono il governo a ridurne l’utilizzo, nonostante i proclami degli ultimi anni secondo cui, prima o poi, la Cina dovrà sganciarsi dall’utilizzo di questa fonte fossile. Un altro esempio è l’Australia, quarto produttore di carbone al mondo.
Quello della transizione energetica è un tema di difficile regolamentazione sul piano internazionale, che dipende e dipenderà dalla volontà dei singoli attori globali. Se uno stato non trova conveniente dal punto di vista economico abbandonare il carbone in tempi brevi, probabilmente non lo farà. I casi di Cina e Australia, rispettivamente il primo e il quarto produttore al mondo di carbone, ci indicano come non solo i due paesi non abbiano alcuna intenzione di abbandonare il combustibile fossile, ma ne incrementano la produzione. D’altra parte, a quei paesi cui conviene produrre energia da fonte rinnovabile, come la Svezia, il sesto produttore al mondo di energia eolica nel 2021, lo faranno e lo stanno già facendo.
Sembra possibile affermare che, nonostante siano stati fatti alcuni passi avanti alla COP di Dubai, l’esito della lotta al cambiamento climatico e l’impulso alla transizione energetica possano dipendere ancora dalle volontà dei singoli attori statuali. Le attuali priorità politico-economiche, come nel caso cinese, detteranno quindi i tempi dell’agenda climatica.