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Così il Mediterraneo allargato trova nuovi equilibri

Le attuali dinamiche di distensione nel Golfo potrebbero condurre ad un nuovo equilibrio nella regione. L’analisi di Daniele Ruvinetti

Negli ultimi giorni, l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman, l’emiro del Qatar, Tamin bin Hamad al Thani, e il ministro degli Esteri emiratino, Abdullah bin Zayed, si sono recati in Egitto. Al Cairo, in occasione dell’incontro con il presidente Abdel Fattah al Sisi, hanno portato la solidarietà dei cugini del Golfo a uno dei Paesi più duramente colpiti dai pesanti effetti della guerra russa in Ucraina. La crisi alimentare e i rischi che essa comporterebbe a livello di tenuta sociale per il Paese più popoloso del mondo arabo sono un elemento di primario interesse per tutta la regione.

L’arrivo di sauditi, qatarini ed emiratini non è banale: adesso quei Paesi hanno varato insieme un piano da 22 miliardi per Il Cairo (da aggiungere agli ulteriori accordi bilaterali), ma fino al gennaio 2021 erano divisi. Il Golfo aveva posto Doha in isolamento diplomatico, economico e commerciale. Una faglia attualmente appianata per effetto di una serie di dinamiche distensive che stanno interessando tutta la regione.

Un altro esempio: partito dal Cairo, bin Salman si è diretto ad Ankara, per un incontro con Recep Tayyp Erdogan. Tra i due ci sono state stagioni complicate: i due Paesi erano divisi da una competizione ideologica e geopolitica che sembra attualmente rientrata. La Turchia è un attore cruciale del Mediterraneo, ma ha una situazione economica delicata. L’Arabia Saudita è una potenza regionale che ha una forza economica tale da potersi permettere di assistere Paesi più in difficoltà.

Nei giorni successivi alla visita del principe saudita, in Turchia è arrivato l’attuale primo ministro ad interim israeliano Yair Lapid. Ankara e Gerusalemme si stanno coordinando su questioni di sicurezza – i turchi avrebbero aiutato a sventare alcuni attacchi contro cittadini israeliani organizzati dai Pasdaran –, ma questo genere di contatti potrebbe aprire a ulteriori sviluppi. Il riavvicinamento tra Turchia e Israele, coincidente con quello tra Turchia ed Egitto (che sembrano ora dialogare su dossier complessi come la Libia) e tra Turchia e Qatar, è invero un fattore di particolare interesse. Tanto più alla luce della postura che gli Stati Uniti stanno adottando relativamente alla costruzione di un’architettura di sicurezza regionale (che dovrebbe condurre ad una stabilità foriera di prosperità economica).

Secondo informazioni di stampa attualmente non smentite, a marzo, a Sharm el-Sheikh, funzionari di Israele, Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Giordania si sarebbero riuniti sotto l’ombrello del Comando Centrale americano per parlare di temi concernenti sicurezza e difesa nel quadrante ampio che dal Medio Oriente arriva fino al Nord Africa, ossia nel cuore del Mediterraneo allargato.

E sempre in questi giorni, protagonisti simili – Israele, Egitto, Bahrain, Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti, Egitto e Marocco – si sono visti a Manama per dare seguito al Summit del Negev e trasformare la riunione di marzo in un forum costante, in cui gruppi di lavoro composti dai sette player in campo dialogano e cercano soluzioni alle grandi questioni della regione: sicurezza, energia, salute, istruzione e tolleranza, turismo.

Se parte di questi contatti è possibile grazie agli Accordi di Abramo, un altro motivo di dialogo riguarda indubbiamente il processo di ripresa dalla pandemia, fortemente condizionato dallo scoppio della guerra. Un doppio effetto potenzialmente devastante. La forbice che si potrebbe creare tra Paesi ricchi e Paesi fragili della regione – anche grazie alle nuove dinamiche del mercato energetico – è un elemento di estrema sensibilità.

Il pragmatismo tattico richiede che la stabilità venga raggiunta adesso come base di successive strategie. Un percorso che questi attori hanno deciso di compiere di concerto, facendo fronte unito (pur con specifici interessi individuali) dall’interno, anche davanti a un ventilato – spesso citato – disimpegno americano dalla regione. Disimpegno che – se c’è – vede comunque Washington come fattore comune a tutte queste dinamiche.

Dall’altra parte, l’Iran rimane il player concorrente. Ma, anche in questo, occorre cautela. Se c’è una parte della Repubblica Islamica (collegata per lo più all’industria militare e fortemente ideologizzata) chiaramente ostile a forme di stabilizzazione – teorizzandosi da sempre componente o motore di un nuovo ordine mondiale –, dall’altra ci sono elementi che cercano ancora un aggancio. Ciò è dimostrabile dai tentativi dell’Iraq (accettati a Teheran) di tenere in piedi un dialogo tra sauditi e iraniani; dalle aperture (controllate e piene di precauzioni) degli emiratini; dall’impegno verso una qualche forma (embrionale) di normalizzazione dei rapporti con Europa, che lavora ininterrottamente per ricomporre l’accordo sul nucleare JCPOA.

Un’Europa che è protagonista di azioni politiche nella regione, come dimostrano sia questo impegno con l’Iran sia la nuova strategic partnership pensata per il Golfo. Movimenti in cui l’Italia ha un ruolo sia a livello multilaterale, sia a livello diretto e bilaterale.

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