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Così la Turchia prova ad avanzare in Africa

Ankara prova a dimostrare la sua affidabilità con la mediazione tra Etiopia e Somalia. Sul tavolo la capacità di Erdoğan di essere un leader di riferimento per il continente. Il punto di Daniele Ruvinetti

L’iniziativa per mediare una riappacificazione storica tra Etiopia e Somalia sul Somaliland è l’ultima delle attività in cui Recep Tayyip Erdoğan ha mosso la sua “Türkiye” in Africa. Dopo la volontà di dimostrare la propria standing internazionale su dossier come l’Ucraina (con gli accordi sul grano) e l’intervento militare che ha salvato il governo onusiano di Tripoli quattro anni fa, ora Ankara continua a spingere il proprio “consensus” sul palcoscenico globale, cercando la soluzione ad un dossier tanto complesso quanto simbolico.

Più in generale, la Turchia sta spingendo investimenti economici e diplomatici (anche militari) mentre cerca di diversificare la sua politica estera e diventare un’alternativa affidabile alla Cina o alle potenze occidentali in lizza per l’influenza in Africa. Qui sta la primaria direttrice della proiezione strategica. Erdoğan si presenta come un’alternativa, cercando di colmare vuoti di comprensione lasciati nel continente. La Turchia promuove la sua presenza come più sincera rispetto a quella di ex potenze coloniali occidentali e non impone condizioni su governance o diritti umani. Allo stesso tempo, nella promozione della sua politica “win-win” cerca di distinguersi dall’approccio superficialmente armonioso, ma spesso predatorio, cinese. In contemporanea, si muove anche nel settore difesa e sicurezza, cercando di esportare armi e know how in concorrenza con la Russia.

Riunire Somalia ed Etiopia per due cicli di colloqui indiretti ad Ankara è stato un successo diplomatico, frutto anche della richiesta ricevuta sia da Mogadiscio che da Addis Abeba – entrambi partner turchi (anche nel campo militare). Raggiungere una risoluzione nel Corno d’Africa – regione dove la Turchia ha una presenza recentemente rafforzata da un accordo con Mogadiscio – è ancora un processo irto, il cui successo si basa sulla capacità di trovare una soluzione equilibrata davanti alle istanze sul tavolo, ma anche sull’abilità di Erdoğan di ergersi a leader autorevole e di proporre il paese come attore di riferimento, col quale raggiungere compromessi. La sfida ruota dunque attorno al cosiddetto “Ankara Consensus” e potrebbe determinare successi turchi rivendibili, dunque riproducibili, altrove nel continente (e non solo, se vogliamo).

Il coinvolgimento attivo della Türkiye sottolinea l’approfondimento della fiducia, frutto di anni di influenza coltivata nella regione. Ankara si sta sforzando per facilitare un ambiente cooperativo con l’obiettivo – mai nascosto anche nelle attività all’interno del complicato dossier russo-ucraino – di dimostrarsi un paese in grado di risolvere controversie internazionali. Sarebbe un successo in grado di arricchire lo status turco, elevandolo a quello di potenza internazionale appunto, e non più regionale.

Al di là della mediazione politica nell’Africa orientale, Ankara ha anche accumulato soft power attraverso l’istruzione, i media e la religione – o meglio l’interpretazione dell’Islam – condivisa con molti paesi musulmani africani. Sono un esempio le scuole gestite dalla Turkish Marrif Foundation, espanse a una rete di 140 scuole e istituzioni che si rivolgono a 17.000 alunni, mentre 60.000 africani sono studenti in Turchia. La potente Direzione degli Affari Religiosi di Ankara ha intensificato le sue attività umanitarie e il sostegno alle moschee e all’educazione religiosa in ampie aree dell’Africa (per esempio proprio nel Corno). Il conservatorismo religioso turco è inoltre ben accetto in molti paesi africani, in un momento in cui le leggi anti-LGBTQ vengono adottate da vari governi del continente. Di più ancora: l’emittente pubblica TRT ha programmi in francese, inglese, swahili e hausa e sta sviluppando corsi di formazione per futuri giornalisti africani. NRT si vanta sul suo sito web di servire 49 paesi sui 54 del continente, diffondendo la lingua turca. Turkish Airlines attraversa tutta l’Africa, volando verso 62 destinazioni. Da ricordare che nel 2012 è diventata la prima compagnia aerea a tornare a Mogadiscio, il cui aeroporto è stato ricostruito con finanziamenti e assistenza turchi. Promemoria per non perdere di vista che quello in atto è un processo che dura da tempo.

Anche grazie a questa penetrazione, negli ultimi due decenni, il volume del commercio bilaterale turco-africano è passato da 5 a 30 miliardi di dollari. In modo del tutto correlato, le missioni diplomatiche turche sono salite da 12 a 44 e le missioni africane ad Ankara sono diventate 38.

La Turchia sta avvolgendo l’Africa nel suo insieme, dunque dalla cooperazione in materia di difesa e sicurezza, all’assistenza sanitaria, istruzione e aiuti umanitari. Negli ultimi anni, ha firmato accordi di difesa con Libia, Kenya, Ruanda, Nigeria e Ghana, aprendo contratti per la Bayraktar, produttore di droni affidabili ed economici. Popolarmente utilizzati nella lotta contro il terrorismo, i droni turchi sono stati recentemente consegnati in Ciad, Togo, Burkina Faso, Mali e Niger. Qui c’è un elemento da sottolineare: la Turchia non si pone limitazioni su certe vendite, che invece le aziende occidentali sottopongono a vagli di carattere politico, etico e morale. Anche per questo tali velivoli sono simbolici della politica estera turca in Africa (e non solo).

È tale approccio, considerato dagli africani più aperto, che sta forgiando l’attività turca in Africa secondo un modello destinato a svilupparsi – perché è percepito come utile per contribuire agli obiettivi di sviluppo del continente nei settori legati all’economia e alla sicurezza. Promuoverlo come alternativa alle potenze occidentali, alla Cina e alla Russia, è parte conseguente della competizione. La narrazione turca sottolinea spesso la “sincerità” della sua presenza nel continente rispetto a quella degli europei, che portano l’eredità del colonialismo. In mondi come quelli del Sahel, dove i colpi di stato visti negli ultimi anni hanno avuto matrice comune in questo genere di narrazione – abbinata alla necessità di combattere lo sviluppo delle organizzazioni terroristiche – e mentre molti paesi africani cercano un partner affidabile nei settori delle costruzioni e delle infrastrutture (delusi dalle promesse cinesi a volte non mantenute), la Turchia gioca le sue carte.

Ora, se la mediazione nel Corno dovesse avere successo, tutto questo combinato disposto potrebbe ricevere un’ulteriore spinta massiccia. La Turchia è un grande fattore da tenere a mente per progetti strategici in Africa.

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