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Crisi in Libia: nuovi rischi di instabilità e insicurezza

La crisi della Banca Centrale fa riemergere la lotta, ormai ciclica, per i centri di potere e la spartizione delle risorse del paese. Alcune prospettive di mediazione nell’analisi di Francesco Meriano

A quattro anni dalla fine dell’ultima guerra civile, la “pace fredda” in Libia mostra nuove, sensibili incrinature. Pietra dello scandalo è – questa volta – la destituzione del governatore della Banca Centrale libica, Sadiq al-Kabir, decretata il 19 agosto dal Consiglio Presidenziale (CP).

L’organo, che svolge funzioni di capo di Stato, avrebbe agito su pressione del primo ministro Abdul Hamid Dbeibah, che da Tripoli presiede il Governo di Unità nazionale (GNU) e da tempo lamenta pessimi rapporti con Kabir. Quest’ultimo, che aveva già denunciato la malagestione delle finanze di Tripoli in una lettera indirizzata a Dbeibah e resa pubblica questo febbraio, da circa un anno coltiva un cauto riavvicinamento alle posizioni di Aguila Saleh, speaker del parlamento orientale – la Camera dei Rappresentanti – allineato alle posizioni del governo rivale di Sirte (il Governo di Stabilità Nazionale GNS, non riconosciuto dall’ONU) e del suo de facto uomo forte, Khalifa Haftar, capo dell’Esercito Nazionale Libico (LNA). In ambito economico Saleh si era già fatto promotore di una controversa imposta sui tassi di cambio, equivalente di fatto a una svalutazione del dinar libico, cui Kabir aveva concesso il proprio imprimatur a dispetto della contrarietà di Dbeibah.

L’ultima goccia per il premier di Tripoli è stata l’approvazione unilaterale, a luglio, di un massiccio budget finanziario da parte della Camera dei Rappresentanti per il governo di Sirte. Una potenziale alleanza tra il GNS e Kabir – che dall’agosto 2023 presiede la Banca centrale unificata, responsabile della distribuzione delle rendite petrolifere per l’intero paese – costituisce una minaccia per la discrezione finanziaria del governo Dbeibah, che conta sull’erogazione di fondi e stipendi da parte dell’istituto per mantenere le proprie reti di patronato e assicurare il salario delle milizie affiliate, più o meno strettamente, a Tripoli.

I riverberi di tale nuova crisi mettono a dura prova la tenuta della tregua armata, in vigore dal 2020, tra Tripoli e Sirte. La mossa ha già profilato una possibile escalation militare nella capitale, dove l’edificio della Banca Centrale è stato fulcro dello stallo armato tra la milizia RADA, stretta alleata del governatore, e i gruppi armati affiliati a Dbeibah. Dopo giorni di tensione, un accordo mediato dal titolare degli Interni, Imad Trabelsi, ha prodotto, a fine agosto, la momentanea ritirata dei sostenitori di Kabir, costringendo quest’ultimo a riparare in Turchia con i codici di accesso ai conti dell’istituto. Il colpo di mano di Dbeibah, volto a rafforzare una presa sempre più incerta sul potere, ha invece alienato gruppi armati chiave e paralizzato l’azione delle istituzioni finanziarie libiche.

Ai contrasti intestini fa da sfondo il rapido deteriorarsi delle relazioni tra il governo di Tripoli e quello di Sirte. Nel tentativo di ricondurre Dbeibah e il CP a più miti consigli, il 13 agosto la Camera dei Rappresentanti aveva infatti tentato di prevenire la rimozione del governatore (nell’aria da diversi giorni) presentando una mozione per esautorare ufficialmente il Consiglio Presidenziale. La proposta, approvata all’unanimità, ha sancito per Sirte il disconoscimento politico del Consiglio e rivestito nello speaker della Camera le funzioni di comandante supremo delle forze armate. Mossa che non ha, però, dissuaso il CP dal pronunciarsi ufficialmente contro Kabir.

In risposta il GNS, nella persona del premier Osama Hammad, ha annunciato il blocco della produzione dei giacimenti di gas e petrolio della Cirenaica – presidiati dall’LNA al comando di Haftar – fino alla restaurazione di Kabir: mossa che paralizza la National Oil Corporation libica, di base a Tripoli, e mette a rischio – come già avvenuto durante la guerra civile – gli introiti di un paese dipendente dagli idrocarburi cirenaici per il 60% del PIL e oltre il 90% delle esportazioni.

La missione ONU in Libia (UNSMIL), che da aprile ha al timone la statunitense Stephanie Koury, ha quindi convocato trattative di emergenza, volte a prevenire il rischio di “collasso finanziario ed economico del paese”. Il simultaneo congelamento di Banca centrale e della National Oil Corporation occlude le due arterie economiche della Libia, minando alla base il funzionamento di ciò che resta dell’infrastruttura statale.

La speranza è – ora – che Tripoli e Sirte raggiungano una soluzione di compromesso, accordandosi per la nomina comune del successore di Kabir e di un consiglio direttivo che ne limiti il potere discrezionale. La Camera dei Rappresentanti e l’Alto Consiglio di Stato (organo parlamentare di base a Tripoli) hanno dichiarato a inizio settembre di aver raggiunto un accordo a tale proposito con il Consiglio Presidenziale, impegnandosi a nominare un governatore a trenta giorni dall’istituzione del nuovo board. Resta da chiedersi, però, se Dbeibah – sia disposto a seguire la linea conciliatoria promossa dalle consultazioni UNSMIL.

La crisi della Banca centrale non è, in questo quadro, che l’ultimo (ennesimo) capitolo della lotta per il controllo dei centri di potere vitali del paese, soggetti alla continua riconfigurazione degli accordi – più o meno formali – degli attori libici. Già nel 2022 lo scontro fra Tripoli e l’allora neonato governo di Sirte per il controllo della NOC (con relativo embargo degli idrocarburi) si era appianato con la nomina di un candidato di compromesso, Farhat Bengdara, tramite una mediazione gestita dagli Emirati Arabi. C’è da chiedersi se questa volta la Libia possa reggere l’attesa, mentre ciò che resta della macchina statale rischia di arrestarsi definitivamente: a fine agosto, il paese ha già registrato perdite di 120 milioni di dollari in tre giorni, mentre la produzione petrolifera è crollata alla soglia dei 591mila barili al giorno. Nel frattempo, la situazione appare volatile e bilanciata – ancora una volta – sul filo della reciproca brinkmanship.

Resta spazio per la mediazione internazionale. La spaccatura interna rafforza l’interesse degli attori regionali ad appianare, almeno temporaneamente, le reciproche divergenze. La Turchia – principale sinecura militare di Tripoli durante e dopo la guerra civile – avrebbe accumulato oltre 8 miliardi di dollari in depositi dalla Banca centrale libica ed è ad oggi impegnata nel recupero di circa 19 miliardi di contratti edili sul territorio, tra i centri nevralgici dell’influenza turca in Nord Africa. Il presidente Erdogan coltiva strette relazioni con Kabir, che negli scorsi giorni avrebbe trovato rifugio a Istanbul. Nelle more di una prolungata crisi economica, negli ultimi due anni la Turchia ha inoltre operato per ricucire i rapporti con l’Egitto e gli Emirati Arabi (sostenitori di Khalifa Haftar durante il conflitto civile) ed estendere la cooperazione industriale con Sirte e Bengasi.

Una détente cautamente favorita dal Cairo, che guarda alle milizie di Haftar, alleato di Kabir, per la sicurezza del proprio poroso confine occidentale. Mentre Abu Dhabi, che attraverso la nomina di Bengdara al timone della NOC si è assicurata generose concessioni sugli idrocarburi libici – tra cui il controverso accordo per lo sfruttamento del giacimento di Hamada NC7 – ha ragione di temere gli effetti di un nuovo embargo su gas e petrolio in Cirenaica. Più ambigua la posizione dello spoiler russo: Mosca beneficerebbe di una recrudescenza militare ai cancelli meridionali della NATO, ma i recenti rovesci militari subiti dall’ex-Wagner nel Sahel potrebbero sconsigliare la contestuale riapertura del fronte libico, che attraverso Haftar costituisce il principale anello di congiunzione per il contrabbando di minerali, armi ed esseri umani tra Russia e Africa subsahariana.

Chiare, in ogni caso, le priorità dell’Europa. La possibilità – sempre più concreta – di un nuovo crollo sistemico nel Mediterraneo centrale minaccia direttamente Spagna, Francia, Italia e Germania, esposte alla recrudescenza delle crisi migratorie e destinatarie di quasi il 90% delle esportazioni di idrocarburi dalla Libia. Dossier che riguardano soprattutto Roma, sostenitrice del mandato onusiano del governo Dbeibah e intenzionata, al tempo stesso, a riguadagnare spazio di manovra in Cirenaica. Di qui l’incontro a Bengasi, questo maggio, tra il premier italiano Giorgia Meloni e Haftar. L’incontro ha in qualche modo rappresentato il primo (discusso) riconoscimento ufficiale del maresciallo quale interlocutore politico di Palazzo Chigi.

Manovre delicate anche a seguito del mandato di cattura spiccato dalla Spagna, a inizio agosto, contro Saddam Haftar, a cui Madrid avrebbe tracciato un carico di armi di contrabbando dirottate dagli Emirati. Braccio destro e successore accreditato dell’anziano Khalifa, Saddam – che avrebbe ricevuto notizia del mandato a Napoli – aveva già reagito sospendendo le attività nel giacimento di Sharara, gestito da un consorzio a partecipazione spagnola. Un eventuale intervento italiano – che punti, sul modello Emirati, a favorire la ridistribuzione in tempo utile degli equilibri istituzionali – dovrà tenere in considerazione la possibilità che Haftar e Sirte richiedano assicurazioni anche su questo tema.

Nel frattempo, lo stallo su NOC e Banca centrale prosegue. A rischio di esclusione dai mercati internazionali e alle prese con crescenti livelli di frustrazione pubblica, la Libia rischia – ancora una volta – di scivolare in una violenta spirale di instabilità e insicurezza.

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