Da Stoccolma a Baku: cambiamenti climatici e ambiente come campo di confronto internazionale
Si è conclusa da pochi giorni la Cop di Baku, ultima conferenza promossa dalle Nazioni Unite sul Clima. Dagli anni Settanta ad oggi, come il clima e le tematiche ambientali sono diventate terreno di confronto diplomatico e competizione geopolitica. L’analisi di Manfredi Martalò
L’aumento delle temperature globali, l’intensificazione di eventi meteorologici estremi e l’innalzamento del livello del mare sono solo alcuni dei fenomeni che stanno trasformando rapidamente l’ambiente naturale e umano. Conseguentemente, la comunità internazionale e i suoi principali attori – stati e organizzazioni internazionali – hanno adottato e stanno adottando, in base ai rispettivi interessi, approcci diversi, a volte similari altre volte contrastanti, trasformando il tema in una delle principali sfide dei nostri giorni. La complessità della questione emerge dai diversi interessi in gioco, da ultimo durante la COP29 tenutasi a Baku dall’11 al 22 novembre 2024. Dopo due settimane di negoziati difficili e forti tensioni, la Conference – in realtà terminata il 24 novembre a seguito delle difficoltà incontrate nel trovare un compromesso – si è conclusa con il raggiungimento di un accordo sulle regole per il mercato globale di acquisto e vendita di crediti di carbonio[1], sotto l’egida delle Nazioni Unite, e un accordo economico sulla finanza climatica, ritenuto insoddisfacente dai paesi in via di sviluppo. Noto come New Collective Quantified Goal, l’accordo prevede che i paesi industrializzati dovranno destinare almeno 300 miliardi di dollari all’anno entro il 2035 a quelli in via di sviluppo, per supportare i loro tentativi di far fronte ai cambiamenti climatici. Una cifra tre volte superiore a quella di 100 miliardi l’anno entro il 2025 contenuta nel vecchio obiettivo globale di finanza per il clima, ma nettamente inferiore ai 1.300 miliardi annui che secondo esperti indipendenti sarebbero necessari per far fronte alle più urgenti necessità imposte dalla crisi climatica. Il New Collective Quantified Goal prevede che i 300 miliardi arriveranno in quota crescente entro 11 anni (2025-2035) in forma di sovvenzioni a fondo perduto o in prestiti a basso tasso di interesse, in finanza pubblica e privata mobilitata, con i paesi sviluppati nel ruolo di leader. I paesi non ancora inseriti ufficialmente tra quelli sviluppati nella Convenzione ONU sul clima, ma che di fatto hanno ora un’elevata capacità contributiva e un peso rilevante nelle emissioni (Cina, Corea del Sud, paesi OPEC del Golfo), sono incoraggiati a contribuire, ma senza alcun obbligo. Inoltre, l’accordo auspica anche che, sempre entro il 2035, vengano mobilitati almeno 1.300 miliardi di dollari all’anno a livello globale da un’ampia varietà di fonti private e pubbliche ancora tutte da definire. Su questa seconda cifra, non c'è alcun vincolo giuridico.
L’accordo raggiunto a Baku – seppur significativo – non sembra essere sufficiente per colmare il gap inerente ai paesi più vulnerabili agli effetti della crisi climatica, i quali hanno urgente bisogno di ingenti investimenti per opere di adattamento urgenti e che non prevedono alcun ritorno economico. Dunque, i grandi punti deboli della Conference sembrano essere due. In primis, molti leader mondiali hanno scelto di non partecipare per mancanza di fiducia nell’efficacia delle azioni multilaterali contro il riscaldamento globale. In secundis, la conferenza è stata caratterizzata dalla classica spaccatura tra paesi sviluppati (stati membri OCSE) e in via di sviluppo (G77+Cina). Spaccatura che, come in passato, finisce per danneggiare la categoria degli stati meno sviluppati, ossia quelli infrastrutturalmente meno dotati per combattere il climate change. Al centro del dibattito il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”, con i paesi in via di sviluppo che continuano a chiedere sempre maggiori oneri per poter finanziare la lotta al cambiamento climatico e che rinunciano a prendere impegni vincolanti. Ancora una volta, dunque, sembrano prevalere approcci differenziati rispetto a un tema, che per sue caratteristiche, richiederebbe una strategia comune. Essendo, infatti, l’ambiente un tema “trasversale” che tocca tutti gli attori dell’arena internazionale in egual modo, un approccio multilaterale e una governance internazionale solida sembrano, dunque, essere le uniche opzioni possibili per affrontare questa sfida collettiva e promuovere una diplomazia climatica efficace, essenziale per le relazioni internazionali future.
Prima degli anni Sessanta, il tema del climate change non rappresentava una priorità nell’agenda della comunità internazionale[2]. Tuttavia, sul finire del decennio, alcuni incidenti di inaudita gravità giocarono un ruolo fondamentale nel favorire la sensibilizzazione sul tema. È quanto avvenuto nel 1967 lungo le coste della Cornovaglia, nel Regno Unito, quando la petroliera Torrey Canyon[3] causò il primo rilevante disastro ambientale dovuto allo sversamento in mare di grandi quantità di petrolio e alla successiva contaminazione costiera da parte del greggio fuoriuscito. Numerosi stati decisero di riunirsi a Stoccolma, nel 1972, dando vita alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente umano, spartiacque storico, avendo segnato l’inizio del riconoscimento ufficiale della crisi ambientale a livello globale. Da essa scaturì la Dichiarazione di Stoccolma, con 26 principi fondamentali[4], tra cui il concetto di “diritto umano a un ambiente salubre” – ribadito poi nella risoluzione n. 76/300 adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 2022 – e la successiva istituzione dell’UNEP (Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente), i quali hanno rappresentato la base di una prima governance ambientale internazionale. Tuttavia, durante la conferenza emerse il contrasto, che ancora oggi caratterizza il teatro ambientale, tra la posizione dei developed e developing countries, in particolare con riferimento alla priorità che questi ultimi davano, e danno, alle tematiche di sviluppo rispetto a quelle ambientali. Negli anni successivi, dopo la Conferenza di Montego Bay del 1982 sul diritto del mare, la crescente consapevolezza dell’interconnessione tra sviluppo economico e impatti ambientali, portò alla definizione del concetto di “sviluppo sostenibile”, reso popolare dal Rapporto Brundtland nel 1987 – che sottolineava la necessità di uno sviluppo che soddisfacesse i bisogni presenti senza compromettere quelli delle generazioni future – e che ha trovato codificazione nel Vertice della Terra di Rio de Janeiro del 1992. La definizione del concetto di “sviluppo sostenibile” rappresenta un compromesso per mettere d’accordo il Global South, e il suo diritto a svilupparsi, e il Global North, già sviluppato. Stessa funzione svolge un altro dei principi cardini rinvenibili nella medesima Dichiarazione, ossia quello della “responsabilità comune ma differenziata[5]”. In altri termini, il principio stabilisce che gli stati debbano rispettare regole comuni, ma che queste incidano in maniera più intensa su chi si sia già sviluppato rispetto a chi non lo abbia fatto del tutto. Tuttavia, questa formula – che ha retto almeno per due decenni il diritto internazionale dell’ambiente – ha mostrato la sua inadeguatezza nel momento in cui paesi in come la Repubblica Popolare Cinese e l’India sono diventati motore dello sviluppo economico mondiale, pur continuando ad agire, in materia ambientale, come dei paesi in via di sviluppo. Successivamente, sull’onda del rinnovato interesse per la tematica ambientale, furono firmati importanti accordi internazionali, come il Protocollo di Kyoto[6], siglato nel 1997 ed in vigore dal 2005, avente l’obiettivo di contrastare il cambiamento climatico la riduzione collettiva delle loro emissioni di gas serra del 5% rispetto ai livelli del 1990. In seguito, negli anni 2000, nonostante i progressi normativi, emerse la necessità di una maggiore attuazione pratica degli impegni presi. Nel Vertice di Johannesburg del 2002 si ribadì l’urgenza di azioni concrete, soprattutto per affrontare il divario crescente tra paesi ricchi e paesi poveri in termini di capacità di far fronte alle sfide ambientali. Infine, il Vertice di Rio+20 del 2012 consolidò il percorso intrapreso, con la pubblicazione del documento “The Future We Want”, che riaffermava l’impegno globale verso lo sviluppo sostenibile e rafforzava gli strumenti giuridici e istituzionali per la loro attuazione. Venne sottolineata l’importanza della green economy e si tracciò la strada per i Sustainable Development Goals (SDGs), poi formalizzati con l’Accordo di Parigi del 2015. In sintesi, il percorso da Stoccolma a Rio+20 ha evidenziato una crescente consapevolezza e responsabilità globale verso la tutela dell’ambiente, ma anche la complessità e la lentezza nell’attuazione concreta delle politiche ambientali. Tuttavia – pur avendo posto le fondamenta per un approccio globale e integrato alle sfide ambientali che continuano a influenzare il diritto internazionale ambientale e le politiche degli stati – quanto fatto si è rivelato inefficace. Basta osservare alcuni dati. Dal 2000 al 2010 le emissioni globali di gas serra hanno continuato a crescere, con un aumento medio annuale del 2,2 %. Al contempo, nel 2014, le emissioni globali di anidride carbonica (CO2) avevano raggiunto un livello record di 36 miliardi di tonnellate. Inoltre, tra il 1993 e il 2010, i ghiacciai della Groenlandia e dell’Antartide hanno perso rispettivamente circa 34 e 135 gigatonnellate di ghiaccio all’anno. Ancora, l’estensione del ghiaccio marino artico è diminuita di circa il 40% rispetto ai livelli del 1980. Infine, le temperature globali sono aumentato di circa 0,85°C dal periodo pre-industriale sino al 2015. Da qui, la necessità di un nuovo trattato internazionale, inclusivo e ambizioso, per affrontare il climate change. L’Accordo di Parigi del 2015, mira, infatti, a limitare l’aumento della temperatura globale ben sotto i 2°C, cercando di limitarlo a 1,5°C. Al contempo, le Nazioni Unite procedevano con l’adozione della risoluzione A/RES/70/1, meglio nota come Agenda 2030, la quale ha formalizzato gli obiettivi – noti appunto come Sustainable Development Goals (SDGs)[7] – da raggiungere entro il 2030 con lo scopo di “ottenere un futuro migliore e più sostenibile per tutti”[8]. Se le Conference of Parties antecedenti Parigi, infatti, fissavano dei sistemi di quote di emissione – secondo uno schema top-down – che gli Stati, ad esempio ratificando il Protocollo di Kyoto, dovevano rispettare, l’Accordo di Parigi ha introdotto uno schema bottom-up tale per cui ogni parte contraente fissa in autonomia il proprio obiettivo da raggiungere, impegnandosi, entro una data prestabilita, a ridurre la quota di emissioni. Dunque, il vantaggio sembrerebbe risiedere nel fatto che, prendendo impegni a livello individuale, autodeterminati, le parti contraenti saranno in grado di rispettarli. L’implementazione dell’Accordo viene poi monitorata attraverso le suddette Conferences, nello specifico dalla COP22 del 2016, svoltasi a Marrakech, in Marocco, sino alla più recente, la COP28 tenutasi a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, nel 2023. Ed è proprio in queste conferenze, successive a Parigi, che è possibile rinvenire le differenti posizioni dei vari attori della comunità internazionale che, come già accennato, hanno radici profonde e sono manifestazione di una spaccatura che non sembra risolvibile nel medio periodo. Infatti, ciò che sta accadendo in campo ambientale sembrerebbe una riproposizione dei nuovi equilibri che si sono creati nella comunità internazionale nel corso degli ultimi due decenni, con la formazione di un multipolarismo nel quale, a seconda del settore, la contesa geopolitica finisce per riproporre alleanze o allineamenti dovuti alla convergenza di interessi, in questo caso specifico ambientali.
Il Global North – storicamente responsabile delle maggiori emissioni di gas serra – si trova, soprattutto nei principali consessi internazionali, sotto pressione per sostenere finanziariamente i paesi del Global South nel contrasto al climate change. Inoltre, a completare il già difficile quadro, vi sono differenti strategie di lotta al cambiamento climatico. I due “blocchi”, difatti, sono profondamente diversi tra loro sia in relazione alle condizioni di partenza sia in relazione alle volontà dei rispettivi decisori politici. Il Nord del mondo, ad esempio, avendo già raggiunto uno dei punti più alti dello sviluppo economico, ha adottato un approccio in grado di garantire, se la road map verrà rispettata, la transizione energetica completa. Esempio significativo in tal senso è rappresentato dal Green Deal europeo, un insieme di iniziative politiche, adottato dalla Commissione europea l’11 dicembre 2019, con l’obiettivo generale di raggiungere le net zero emissions entro il 2050, rendendo il continente il primo a raggiungere la neutralità climatica. Al contrario, il Sud del mondo, la cui posizione comune è rinvenibile, ad esempio, all’interno del Gruppo dei 77[9], ha messo al centro della propria strategia temi come equità e giustizia climatica, sostenendo che i paesi sviluppati – sulla base del principio della “responsabilità comune ma differenziata” – debbano assumere maggiori oneri finanziari e tecnici, visto il loro storico contributo al riscaldamento globale. La ratio dietro questo posizionamento è semplice: essi vogliono assicurarsi che le loro esigenze di sviluppo economico non vengano ostacolate da obblighi climatici stringenti, richiedendo, al contempo, aiuti economici per adattarsi ai cambiamenti climatici già in atto. Rappresentando un importante blocco nei principali fora internazionali, i paesi del G77 sono riusciti ad ottenere, nell’ambito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), la creazione di un fondo che possa sostenerli nella loro lotta contro il cambiamento climatico. È il caso del Green Climate Fund[10] (GCF), tra i cui principali obiettivi vi è quello di finanziare progetti di mitigazione, in grado di ridurre o limitare le emissioni di gas serra attraverso l’uso di tecnologie pulite e lo sviluppo di energie rinnovabili. Il fondo, pur rappresentando, almeno secondo i dati[11], una importante novità nel panorama internazionale, non sembra in grado di condurre ad una strategia comune, trasversale, che possa essere adottata universalmente nella comunità internazionale. Ed è proprio questa diversità di approccio il punto fondamentale della contesa geopolitica.
Ciò, per una serie di ragioni, economiche e geopolitiche. Un esempio lampante è quanto sta accadendo tra l’UE e la Repubblica Popolare Cinese. In primis, molti paesi, seppur ormai pienamente considerabili come industrializzati, continuano a posporre la lotta al cambiamento climatico preferendo implementare politiche di sviluppo economico legate a logiche antiquate e, conseguentemente, pericolose. Pechino – pur presentandosi alla Conferenza di Parigi come un “partecipante attivo”[12] – continua ad affrontare il climate change dal punto di vista dell’equità climatica per giustificare i suoi obblighi limitati, definendosi, ancora oggi, il più grande paese in via di sviluppo. Maggior consumatore di carbone al mondo, responsabile di circa il 53% del consumo globale, il Dragone, nonostante gli sforzi per ridurre la sua dipendenza dal carbone e aumentare l’uso delle energie rinnovabili[13], non sembrerebbe in grado di raggiungere il picco delle emissioni di carbonio entro il 2030 per poi divenire carbon neutral entro il 2060. A conferma di ciò, oltre a numerosi studi[14], le parole del Presidente Xi Jinping, che sembrerebbero confermare l’ambiguità della RPC in merito alla lotta al climate change: “la Cina non smetterà di bruciare combustibili fossili finché non sarà certa che l’energia pulita possa sostituirli in modo affidabile[15]”. In secondo luogo, come affermato da Urpelainen[16], la politica ambientale globale è diventata più difficile, perché i negoziati ambientali internazionali nel ventunesimo secolo sono complicati da preferenze più eterogenee tra un numero crescente di attori. In precedenza, infatti, i negoziati erano dominati da un piccolo numero di attori chiave, come Stati Uniti, UE e Giappone, con preferenze relativamente omogenee incentrate sui problemi verdi. Oggi, invece, le economie del Global South – portatrici di istanze che scuotono la politica ambientale globale – chiedono maggiore attenzione e aiuti per le loro problematiche, dando vita, indirettamente, ad una contesa geopolitica all’interno della quale vi è una riproposizione di alleanze e partnership già presenti in altri settori, da quello economico a quello militare. In questo contesto, i paesi con il maggiore know-how tecnologico cercano di ottenere influenza nei paesi sopra menzionati che, per questioni endogene, non sono in grado di accedere agli strumenti multilaterali predisposti a tal fine. È il caso di numerosi paesi del continente africano, dove la competizione geopolitica ha finito per riversarsi anche nel settore della environmental security. Se l’UE, ad esempio, cerca di aiutare questi paesi attraverso una cooperazione multilaterale incentrata su policies trasparenti, molto spesso legate ad altri temi, come lo sviluppo economico o i diritti umani, altri attori preferiscono agire in maniera più ambigua, non chiedendo ai paesi beneficiari degli aiuti, al contrario di Bruxelles, condionality clauses stringenti per poter accedere ai finanziamenti. In tal senso, ad esempio, per cercare di competere con la Belt and Road Initiative (BRI) cinese, l’UE ha lanciato nel 2021 il Global Gateway. L’idea è quella di promuovere uno sviluppo verde che sia più inclusivo e rispettoso dell’ambiente, concentrandosi su trasferimenti tecnologici, capacità di adattamento e mitigazione del cambiamento climatico. In terzo luogo, più specificatamente, la competizione geopolitica ambientale si ripercuote anche nelle relazioni commerciali. Ad esempio, la tensione tra Pechino e Bruxelles è rinvenibile soprattutto nel settore automotive[17], ormai da anni direzionato verso una transizione che conduca alla nascita di un mercato totalmente incentrato sull’elettrico. Attraverso una combinazione di strategie economiche, tecnologiche e commerciali la Cina è diventata – grazie a una produzione su vasta scala e a costi più bassi rispetto ai concorrenti occidentali – il principale produttore mondiale di veicoli elettrici[18]. Pechino sta sostenendo le esportazioni cinesi stringendo accordi commerciali con partner globali, facilitando l’ingresso delle case automobilistiche nei mercati esteri. In risposta a questa politica economica aggressiva, nel settembre 2023 la Commissione Europea ha avviato dapprima un’indagine anti-dumping sulle auto elettriche cinesi, accusando i produttori di queste ultime di vendere i propri veicoli elettrici in Europa a prezzi inferiori rispetto al costo di produzione, grazie ai sussidi del governo cinese. Poi, il 20 agosto 2024, Bruxelles ha confermato l’intenzione di imporre dei dazi sulle importazioni di veicoli elettrici made in China, in aggiunta alla già esistente tariffa del 10% su tutti i veicoli importati in Europa. Decisione confermata il 29 ottobre 2024, quando la Commissione europea ha deciso di imporre in via definitiva i dazi aggiuntivi fino al 35,3% sulle importazioni delle auto elettriche cinesi in risposta ai maxi sussidi sleali elargiti da Pechino[19]. Dalla prospettiva geopolitica è significativo riflettere su quanto sta accadendo. Dal punto di vista cinese, si potrebbe dire che la politica del divide et impera stia funzionando. Il Dragone, infatti, sta riuscendo nel suo obiettivo di estendere la propria influenza, attraverso lo strumento commerciale, anche in quei paesi che, per infrastrutture economiche, dovrebbero proteggere saldamente i propri interessi, nazionali ed europei. Dalla prospettiva europea, invece, la spaccatura[20] dimostra chiaramente come, ancora una volta, su questioni sensibili e di un certo rilievo, spesso inerenti alla politica estera, l’UE non riesca mai a stabilirsi su una posizione comune, in grado di trasformarla da un gigante economico a uno politico.
In questo scenario, è necessario soffermarsi sul ruolo e sul posizionamento di altri importanti attori della comunità internazionale, come ad esempio gli Stati Uniti d’America. Dopo una breve titubanza durante l’amministrazione Trump, manifestatasi anche attraverso l’uscita dall’Accordo di Parigi del 2015, l’amministrazione Biden sta tentando di riportare la Casa Bianca ad avere un ruolo centrale nei negoziati climatici internazionali. Il climate change, è uno dei pochi ambiti in cui Washington e Pechino hanno cercato di cooperare negli ultimi anni. Tuttavia, le azioni che entrambi i paesi mettono in atto per affrontarlo non sono indifferenti alle rivalità geopolitiche che si manifestano in altri settori[21]; al contrario, esse finiscono per essere inevitabilmente influenzate da quella stessa rivalità. Conseguentemente, la collaborazione rimane fragile, poiché entrambi i paesi sono rivali sistemici e vedono la transizione verde anche come una corsa per la supremazia economica e tecnologica. Sul piano interno, Washington ha approvato, nel 2022, l’Inflation Reduction Act[22] (IRA), una legge storica che destina circa 370 miliardi di dollari per la lotta al cambiamento climatico e la transizione energetica. Tuttavia, l’adozione di un approccio proattivo in tema climate change ha creato forti divisioni interne[23] che, a lungo termine, potrebbero sia compromettere l’impegno degli Stati Uniti nel raggiungere i loro obiettivi climatici sia far percepire Washington molto debole nei negoziati internazionali, in quanto la propria volontà di essere protagonista nello scenario globale sembrerebbe più dipendere da questioni di natura politica. A riprova di ciò, pur avendo più volte dichiarato, nei vari fora internazionali, la propria volontà di giocare un ruolo chiave, la strategia di Washington sembra essere più una diretta risposta a quella di Pechino, che dettata da una visione indipendente e autonoma, che possa proiettare la Casa Bianca a leader mondiale nel settore ambientale. L’adozione dell’iniziativa Build Back Better World[24] (B3W) e la relativa Partnership for Global Infrastructure and Investment[25] (PGII), che si lega al Global Gateway europeo, si configurano in tal senso, cosi come l’adozione di altre iniziative, tra cui l’India–Middle East–Europe Economic Corridor[26] (IMEC), il Trans-African Corridor e una piattaforma di investimento per infrastrutture sostenibili nelle Americhe che sarà istituita dalla US International Development Finance Corporation e dall’Inter-American Development Bank.
La strategia statunitense, insieme a quella europea, mira a contrastare l'influenza cinese a livello globale, intensificando le tensioni geopolitiche. Infatti, questa competizione multipolare potrebbe avere effetti positivi per i paesi in via di sviluppo, i quali, come durante la Guerra Fredda, potrebbero sfruttare la rivalità tra le grandi potenze per colmare le proprie carenze infrastrutturali, soprattutto nel settore energetico. Questi paesi potrebbero diventare terreno di confronto strategico, scegliendo di oscillare tra i “blocchi” in competizione e negoziando sostanziosi finanziamenti e investimenti in cambio della loro alleanza. Tuttavia, la vittoria del partito repubblicano guidato da Donald Trump, nelle elezioni presidenziali tenutesi il 6 novembre 2024, apre un nuovo scenario in relazione alla politica ambientale che Washington vorrà perseguire. Se l’approccio sarà il medesimo della prima amministrazione Trump, sarà difficile che Washington voglia giocare un ruolo di primo piano nella lotta al climate change.
Tuttavia, se per alcuni paesi del Global South la scelta di legarsi ad uno più che all’altro blocco sembra essere inevitabile, al contrario, all’interno di tale categoria ve ne sono alcuni le cui strategie in materia di climate change sono caratterizzate da una visione specifica – impermeabile alle sensibilità dei big player internazionali – legata a questioni di carattere endogeno: India, Arabia Saudita, Marocco e Brasile su tutti.
Con la popolazione più numerosa al mondo[27] e un’economia che dovrebbe valere 7 trilioni di dollari entro il 2030, il potenziale di crescita dell’India è sostanziale. Ciò porterà inevitabilmente ad aumenti nella domanda di risorse del paese che, inevitabilmente, si ripercuoteranno sul piano ambientale. L’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) prevede, nel suo ultimo World Energy Outlook, che il consumo energetico dell’India[28] aumenterà del 30% entro il 2030 e del 90% entro il 2050, con emissioni di carbonio derivanti dall'uso di energia in aumento del 32% e del 72% nello stesso periodo. Nei principali consessi internazionali Nuova Delhi ha affermato di voler raggiungere una capacità di energia non fossile di 500 GW, di voler coprire, al contempo, il 50% del fabbisogno energetico nazionale con fonti rinnovabili entro il 2030, con l’obiettivo finale di raggiungere la neutralità carbonica entro il 2070. Se sul piano internazionale il paese guidato da Modi si posiziona come uno strenuo difensore del principio della “responsabilità comune ma differenziata”, agendo, pur non essendolo economicamente, come un paese in via di sviluppo e sostenendo che i paesi industrializzati debbano essere fautori di maggiori sforzi economici, considerate le loro maggiori responsabilità, è sul piano regionale che Nuova Delhi potrebbe ritagliarsi un ruolo chiave nella lotta al climate change. Il cambiamento climatico, infatti, potrebbe avere un impatto significativamente dannoso per l’economia indiana[29] e regionale, una delle più importanti al mondo. Nuova Delhi, leader nell’industria dei servizi IT e del business outsourcing (BPO), potrebbe mettere al servizio della diplomazia regionale sia la sua potenza economica sia il proprio know-how, divenendo un modello di riferimento. Questa strategia sembra essere stata già intrapresa, come sembra indicare l’iniziativa IMEC – il corridoio che, come già visto, permette a India ed Europa di connettersi in modo più diretto, bypassando la Cina. Se così fosse, l’India si configurerebbe, anche nel settore energetico, come principale rivale della Cina, andando potenzialmente a cambiare la balance of power che caratterizza la regione[30].
Un altro caso peculiare è rappresentato dall’Arabia Saudita, uno dei maggiori produttori di petrolio – con una produzione giornaliera media che varia tra i 9 e i 12 milioni di barili al giorno – e primo esportatore al mondo. Riyadh, tradizionalmente fautrice di una posizione conservatrice nei negoziati climatici, ha lanciato, nel 2016, il progetto Saudi Vision 2030, il cui principale obiettivo è quello di trasformare l’economia del paese, ridurre la dipendenza dal petrolio e raggiungere, entro il 2060, la neutralità carbonica. In quest’ottica si inseriscono la Saudi Green Initiative[31], la Middle East Green Initiative[32] e il progetto NEOM[33], inerente alla realizzazione di varie città smart sostenibili, completamente alimentate da energia pulita, tra cui il famoso progetto The Line[34]. Indipendentemente se le difficoltà di realizzazione della Saudi Vision 2030 verranno superate o se essa resterà solo un utopico programma, la scelta saudita dimostra come Riyadh voglia assumere la leadership ambientale nella regione. Inoltre, a differenza di altre regioni meno omogenee in termini di ricchezza, come l’Asia, il Golfo ha visto emergere una competizione regionale che lo sta trasformando in un centro di innovazione per le iniziative sul cambiamento climatico. La ricchezza dei paesi del Golfo, infatti, ha posto il Medio Oriente al centro della diplomazia climatica. Stati come gli Emirati Arabi Uniti[35] (EAU) e il Qatar, stanno implementando progetti simili, contribuendo all’ascesa della Middle East come attore di rilievo nel Sud del Mondo, riflettendo il cambiamento negli equilibri di potere del XXI secolo.
Da monitorare con attenzione, vi sono due altri importanti attori del Global South che hanno il potenziale di guidare la lotta al climate change nelle rispettive aree geografiche: Marocco e Brasile.
In particolare, il Regno sta dimostrando come sia possibile una transizione ecologica anche con risorse limitate, puntando sulle rinnovabili – come dimostra la creazione della più grande centrale solare del mondo, nota come Centrale Solare di Noor Ouarzazate[36] – e ambendo a coprire il 52% del fabbisogno energetico nazionale con fonti rinnovabili entro il 2030. Inoltre, attraverso la South-South Cooperation[37], una delle principali direttive della politica estera marocchina, Rabat mira alla promozione di alleanze climatiche tra paesi in via di sviluppo, soprattutto africani. Banche marocchine come Attijariwafa Bank e BMCE Bank sono tra i principali investitori in Africa occidentale e centrale, con investimenti significativi in materia di climate change, oltre a quelli nel settore delle infrastrutture, delle telecomunicazioni, della finanza e dell’agricoltura[38]. In altri termini, ingenti capitali e condivisione del know-how sembrano essere i principali pilastri di Rabat nella lotta regionale al cambiamento climatico.
Se il Marocco rappresenta già un punto di riferimento per il continente africano, la stessa cosa non si può dire del Brasile, il quale – dopo un andamento altalenante durante la presidenza di Jair Bolsonaro[39] – con il ritorno di Lula, nel gennaio 2023, sembrerebbe orientato a rilanciare il proprio ruolo nelle negoziazioni ambientali internazionali. In tale direzione sembrano andare sia la riattuazione dell’Amazzonia Deforestation Control Plan[40], sia il Patto per l’Amazzonia, noto come Dichiarazione di Belém, siglato nel 2023, attraverso il quale il Brasile – insieme ai paesi membri dell’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica[41] (OTCA) – mira a promuovere la cooperazione, rafforzare le misure contro la deforestazione e sviluppare un modello di sviluppo sostenibile. Nonostante sul piano pratico queste policies abbiano dato i loro frutti[42], sul piano diplomatico, la politica di Brasilia sembra caratterizzata da una certa ambiguità. Da un lato, infatti, il paese ambisce ad avere un ruolo di leader nei negoziati climatici. Ospiterà, ad esempio, la COP 30 (2025) nella città di Belem in Amazzonia. Dall’altro, tuttavia, adotta una strategia improntata al principio della “responsabilità comune ma differenziata”, pretendendo finanziamenti da parte dei paesi industrializzati ma continuando ad agire come un paese in via di sviluppo.
In conclusione, si evince facilmente come anche nella sfida al climate change sia emerso un nuovo ordine multipolare – come dimostrato, nuovamente, dalla COP 29 tenutasi a Baku dall’11 al 22 novembre 2024 – che si riflette nel crescente peso del Global South nelle relazioni internazionali. La crescente influenza di questo “schieramento” e la complessità dei meccanismi che regolano le organizzazioni internazionali di vecchio stampo, come le Nazioni Unite – nelle quali il Global South fa fatica a ottenere consensus attorno alle proprie posizioni – ha causato la creazione di nuove forme di cooperazione internazionale. È stata questa la ratio dietro la creazione, ad esempio, dei BRICS[43] o dei BASIC[44]. Questo nuovo multipolarismo, infatti, riflette uno spostamento verso una governance climatica in cui il Global South reclama una posizione centrale, chiedendo giustizia climatica, finanziamenti e autonomia nello sviluppo sostenibile. Tuttavia, questo nuovo modello si presta a delle critiche. In primis, una multipolarizzazione dell’agenda climatica certamente non contribuisce al raggiungimento di quelli che sono gli obiettivi internazionali che la comunità internazionale si è data, nel corso degli anni, nei principali fora internazionali come le NU. Inoltre, l’applicazione di modelli e schemi differenti, da regione a regione, fa sì che ogni polo vada nella propria direzione, migliorando potenzialmente il proprio status ma, contestualmente, peggiorando quello di altre regioni del mondo. In secundis, il multipolarismo promuove la sovranità dei blocchi regionali, e pur spingendo verso una maggiore inclusività tra paesi dello stesso polo, evidenzia le divergenze economiche e storiche tra paesi di blocchi differenti, complicando la cooperazione globale. Infatti, senza un coordinamento efficace, il rischio è che il cambiamento climatico venga affrontato con misure frammentate, ritardando le soluzioni necessarie e aggravando le disuguaglianze globali. Ancora, come espresso dal noto economista, premio Nobel per l’economia nel 2024, Daren Acemoglu[45], in “Why Nations Fail”, il ruolo delle istituzioni è cruciale nella lotta contro il climate change. Solo istituzioni solide, inclusive e orientate a lungo termine possono creare le condizioni per politiche climatiche efficaci e sostenibili. Infatti, se le istituzioni favoriscono settori ad alto impatto ambientale o ritardano nell’introduzione di regolamenti sulle emissioni, è difficile che l’innovazione vada nella direzione necessaria. Infine, data la “trasversalità” del tema ambiente, sarebbe auspicabile la nascita di una organizzazione internazionale in materia esclusivamente ambientale, dove i vari poli della comunità internazionale possano dibattere su un tema così cruciale per l’umanità senza dover considerare, in relazione ad esso, altre tematiche – economiche o securitarie – che vadano ad inficiare negativamente su una valutazione che, in linea teorica, dovrebbe essere “di fatto”. Tale evoluzione potrebbe segnare un cambiamento duraturo nel panorama geopolitico internazionale, ponendo sfide e nuove possibilità di collaborazione nella lotta contro il cambiamento climatico.
[1] Maria Enza Giannetto e Patrizia Riso, Crediti di carbonio: come funzionano e quali criticità hanno. Wise Society 2024 https://wisesociety.it/economia-e-impresa/crediti-di-carbonio-per-le-aziende-cosa-sono-e-quali-vantaggi-hanno/#:~:text=CO2%20dall'atmosfera Il%20mercato%20dei%20crediti%20di%20carbonio,lotta%20contro%20il%20surriscaldamento%20globale.
[2] Salvo in alcuni casi come nei paesi nordici – ad esempio in Finlandia, Svezia e Norvegia – che, a livello nazionale, implementarono l’adozione di politiche nazionali volte a proteggere l’ambiente, era totale l’assenza di norme a tutela dell’ambiente
[3] Battente bandiera liberiana e diretta al porto inglese di Milford Haven, si incagliò nella secca delle Sette Rocce. Per maggiori dettagli: Bethan Bell e Maria Cacciottolo, Torrey Canyon Oil spill: Yhe day the sea turned black, BBC, 2017 https://www.bbc.com/news/uk-england-39223308
[4] Alcuni dei quali si sono consolidati come principi del Diritto Internazionale Ambientale, acquisendo natura consuetudinaria. Si tratta del principio di “prevenzione”, di “precauzione” e del “chi inquina paga”. Per maggiori dettagli: https://www.mase.gov.it/sites/default/files/archivio/allegati/educazione_ambientale/stoccolma.pdf
[5] Il principio numero 7 della Dichiarazione afferma: “[…] In considerazione del differente contributo al degrado ambientale globale, gli stati hanno responsabilità comuni ma differenziate. I paesi sviluppati riconoscono la responsabilità che incombe loro nel perseguimento internazionale dello sviluppo sostenibile date le pressioni che le loro società esercitano sull’ambiente globale e le tecnologie e risorse finanziarie di cui dispongono”.
[6] Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC)
[7] Per maggiori dettagli: https://sdgs.un.org/goals
[8] https://www.un.org/sustainabledevelopment/sustainable-development-goals/
[9] G77, un’organizzazione intergovernativa delle Nazioni Unite, formata da 134 paesi del mondo, principalmente da Paesi in via di sviluppo.
[10] Creato nel 2010 durante la COP 16 di Cancun, in Messico, ma operativo solo dal 2015 – con una dotazione di 100 miliardi di dollari. Per maggiori dettagli: https://www.greenclimate.fund/about
[11] Nel 2023, il fondo ha approvato 34 nuovi progetti per un valore di 2,1 miliardi di dollari, portando il suo portafoglio complessivo a 243 progetti in 129 paesi, con un valore complessivo di 13,5 miliardi di dollari (51,8 miliardi inclusi i cofinanziamenti). Per maggiori dettagli, Annual Report 2023, Green Climate Fund: https://www.greenclimate.fund/sites/default/files/document/gcf-annual-report-2023-040919.pdf, pag. 8.
[12] Full text of President XI’s speech at opening ceremony of Paris climate summit, China Daily, 2015. https://www.chinadaily.com.cn/world/XiattendsParisclimateconference/2015-12/01/content_22592469.htm
[13] Attraverso, ad esempio, il South–South Climate Change Cooperation Fund, creato nel 2015 con una dotazione di 2.8 miliardi di dollari.
[14] Nicholas Stern and Chunping Xie, “China’s new growth story: linking the 14th Five-Year Plan with the 2060 carbon neutrality”, Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment, London School of Economics (LSE) https://www.tandfonline.com/doi/epdf/10.1080/14765284.2022.2073172?needAccess=true
[15] Gu Bin Joyce, Understanding China’s changing climate change rhetoric, East Asia Forum , 2024 https://eastasiaforum.org/2024/04/05/understanding-chinas-changing-climate-change-rhetoric/
[16] Johannes Urpelainen è un esperto di politica energetica e ambientale, noto per il suo lavoro accademico e la sua attività di consulenza in tema di cambiamento climatico, energia e sostenibilità. Attualmente, è professore alla Johns Hopkins University, presso la School of Advanced International Studies (SAIS), e fondatore e direttore dell’Initiative for Sustainable Energy Policy (ISEP), un’organizzazione che si occupa di ricerca su politiche energetiche sostenibili, principalmente nei paesi in via di sviluppo.
[17] Lisa O’Carrol, Is China cannibalising the EU car industry? The Guardian, 2024. https://www.theguardian.com/business/2024/oct/20/is-china-cannibalising-the-eu-car-industry
[18] Le case automobilistiche cinesi come BYD, Nio, XPeng e Great Wall Motors – grazie anche ad importanti sussidi statali e incentivi fiscali – sono in grado di offrire veicoli elettrici a prezzi più competitivi rispetto alle case automobilistiche europee.
[19] Le tariffe stabilite da Bruxelles si attestano al 17% per il gruppo Byd, al 18,8% per Geely e al 35,3% per Saic. Per maggiori dettagli: L’UE impone in via definitiva i dazi sulle auto elettriche cinesi. Il Sole 24 Ore. https://www.ilsole24oe.com/art/l-ue-impone-dazi-auto-elettriche-cinesi-AGjGaBp
[20] Non tutti gli Stati membri erano d’accordo sull’adozione dei dazi. Per maggiori dettagli: Vincenzo Genovese e Jorge Liboreiro, Dazi alle auto elettriche cinesi: i Paesi UE si dividono, decide la Commissione. Euronews. https://it.euronews.com/my-europe/2024/10/04/dazi-alle-auto-elettriche-cinesi-i-paesi-ue-non-trovano-laccordo-decide-la-commissione
[21] Jiayi Zhou e Zha Daojiong, Climate finance and geopolitics: The China-US factor. Sipri. 2023. https://www.sipri.org/commentary/essay/2023/climate-finance-and-geopolitics-china-us-factor
[22] Questa legge prevede sussidi e incentivi fiscali per accelerare l’adozione delle energie rinnovabili, dei veicoli elettrici e delle tecnologie a basse emissioni di carbonio, come l’idrogeno verde e la cattura del carbonio.
[23] L’industria dei combustibili fossili, in particolare quella del petrolio e del gas, ha ancora una grande influenza politica, soprattutto in stati come il Texas, la Louisiana e il Wyoming. Conseguentemente, il Congresso americano è polarizzato sulla questione climatica, con i repubblicani generalmente contrari a regolamentazioni ambientali troppo rigide, che secondo loro danneggerebbero l’occupazione e l’economia, e i democratici invece sostenitori di una transizione più rapida verso l’energia pulita.
[24] FACT SHEET: President Biden and G7 leaders Launch Build Back Better World (B3W) Partnership, 2021. https://www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2021/06/12/fact-sheet-president-biden-and-g7-leaders-launch-build-back-better-world-b3w-partnership/
[25] FACT SHEET: Partnership for Global Infrastructure and Investment at the G7 Summit. 2023. https://www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2023/05/20/fact-sheet-partnership-for-global-infrastructure-and-investment-at-the-g7-summit/
[26] FACT SHEET: World Leaders Launch a Landmark India-Middle East-Europe Economic Corridor. 2023. https://www.whitehouse.gov/briefing-room/statements-releases/2023/09/09/fact-sheet-world-leaders-launch-a-landmark-india-middle-east-europe-economic-corridor/
[27] https://www.un.org/development/desa/dpad/publication/un-desa-policy-brief-no-153-india-overtakes-china-as-the-worlds-most-populous-country/
[28]World Energy Look 2023, International Energy Agency. https://iea.blob.core.windows.net/assets/42b23c45-78bc-4482-b0f9-eb826ae2da3d/WorldEnergyOutlook2023.pdf
[29] Alcuni analisti, come quelli di Goldman Sachs, prevedono che entro la metà del secolo l’India potrebbe avvicinarsi a diventare la prima economia mondiale, anche se la Cina dovrebbe rimanere la principale economia per buona parte del secolo. L’India potrebbe superare gli Stati Uniti entro il 2075, portando il suo PIL a circa 52 trilioni di dollari, ma raggiungere la Cina sarà più complesso. Per maggiori dettagli: Kaushik Deb e Noyna Roy, COP28: Assessing India’s Progress Against Climate Change Goals. Center on Global Energy Policy. https://www.energypolicy.columbia.edu/cop28-assessing-indias-progress-against-climate-goals/
[30] Gli stati regionali avrebbero un’alternativa rispetto al modello cinese, senz’altro funzionale in termini di capitali ma spesso legato a dinamiche predatorie, attraverso le quali Pechino cerca di estendere la propria influenza. In tal senso, la partita sembrerebbe già iniziata.
[31] Lanciata nel 2021, questa iniziativa punta a ridurre le emissioni di carbonio del paese, investendo in energie rinnovabili, come il solare e l’eolico, e piantando 10 miliardi di alberi entro i prossimi decenni per contrastare la desertificazione e migliorare la biodiversità. Vedi https://www.greeninitiatives.gov.sa/about-sgi/
[32] Lanciata parallelamente alla Saudi Green Initiative, questa ha un obiettivo più ampio a livello regionale, con l’intenzione di collaborare con altri paesi mediorientali per piantare 50 miliardi di alberi e sviluppare strategie comuni di mitigazione del cambiamento climatico. Vedi https://www.greeninitiatives.gov.sa/about-mgi/
[33] https://www.neom.com/en-us/about
[35] Con progetti come Masdar City e il Mohammed bin Rashid Al Maktoum Solar Park, gli Emirati sono tra i principali competitor dell’Arabia Saudita nel settore delle energie rinnovabili. Vedi https://www.masdarcity.ae/about-masdar-city
[36] Noor Ouarzazate: the world’s largest concentrated solar power plant built in Morocco, ESFC Investment Group. https://esfccompany.com/en/articles/solar-energy/noor-ouarzazate-the-world-s-largest-concentrated-solar-power-plant-csp-built-in-morocco/
[37] Maha Regragui. Morocco’s Approach to South-South Cooperation: An Overview of the Moroccan Experience in the African Continent. 2023. https://ris.org.in/newsletter/RIS%20Latest%20Publications/2023/arti-2.pdf
[38] Attraverso il Green Morocco Plan, il Marocco fornisce supporto tecnico a numerosi paesi africani nel miglioramento della produzione agricola e nella gestione delle risorse naturali, mettendo a disposizione di alcune nazioni africane tecnologie per migliorare la resa dei terreni aridi e ottimizzare il consumo d’acqua, come l’irrigazione efficiente e la gestione del suolo.
[39] In cui, ad esempio, il tasso di deforestazione della foresta amazzonica era aumentato del 60 %
[40]Action Plan for the Prevention and Control of Deforestation in the Legal Amazon (PPCDAm). https://www.gov.br/mma/pt-br/assuntos/combate-ao-desmatamento-queimadas-e-ordenamento-ambiental-territorial/controle-do-desmatamento-1/amazonia-ppcdam-1/ppcdam_5_en.pdf
[41] Brasile, Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela.
[42] Come dimostra, ad esempio, il fatto che, nel 2023, la deforestazione dell’Amazzonia è diminuita del 22% e si prevede un’ulteriore riduzione per il 2024.
[43]I BRICS creano un altro fondo per il clima. Rinnovabili.it. 2015. https://www.rinnovabili.it/clima-e-ambiente/brics-fondo-clima-333/
[44] BASIC, Brasile, Sudafrica, India e Cina.
[45] Assegnato a Daron Acemoglu e Simon Johnson del Massachusetts Institute of Technology e James A. Robinson dell'Università di Chicago, per i loro studi sulla formazione delle istituzioni e la loro influenza sulla prosperità delle nazioni, ricerca che ha anche contribuito a dimostrare l'importanza delle istituzioni sociali nel determinare le enormi e persistenti differenze di reddito tra i vari Paesi del mondo