Dalle bioscienze al magnetismo terrestre, il ruolo della ricerca ambientale in area Mediterranea
Come le collaborazioni scientifiche internazionali possono aiutarci nella lotta al cambiamento climatico, in particolare nel Mediterraneo allargato. L’analisi di Silvia Camisasca
Non lasciano spazio ad interpretazione i numeri contenuti nel rapporto RED 2020 dell’Agenzia per l’Ambiente delle Nazioni Unite relativo al bacino mediterraneo: il 15% dei decessi è dovuto a fattori ambientali, con oltre 228.000 vittime del solo inquinamento atmosferico, responsabile anche della riduzione di biodiversità, della deforestazione e dell’impoverimento delle colture agricole. Entro il 2080, infatti, la produttività di tutta la regione Mediterranea potrebbe diminuire di oltre il 20% con punte di quasi il 40% in Paesi come Algeria e Marocco. “Gli alberi, specialmente in ambiente urbano, rappresentano una componente importante nelle strategie di riduzione dell’inquinamento atmosferico, grazie, tra l’altro, alla loro azione di ritenzione dei particolati atmosferici inquinanti. Inoltre, in un contesto in cui la temperatura media è aumentata di 1,54°C rispetto ai valori preindustriali, con effetti tanto più evidenti nei mesi estivi, gli alberi, specialmente nelle città, più soggette alla formazione delle isole di calore, possono abbattere le temperature fino a 7 °C nelle aree circostanti, contribuendo così anche al contenimento del consumo energetico dovuto ai condizionatori, ulteriore causa di emissioni inquinanti” spiega Aldo Winkler, responsabile del laboratorio di paleomagnetismo dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV). Alberi e foreste urbane garantiscono poi al genere umano un’ampia gamma di benefici; sono veri e propri erogatori di servizi, detti, in termini scientifici, ‘ecosistemici’: “Tra i ‘servizi ecosistemici’ sono inclusi la regolazione di gas atmosferici e del clima, la prevenzione del dissesto idrogeologico, nonché la costituzione di habitat idonei per la biodiversità - continua Winkler - Inoltre, i sistemi naturali, di cui il paesaggio e il territorio costituiscono elementi essenziali, forniscono anche i ‘servizi ecosistemici culturali’, quali valori estetici, ricreativi, educativi, spirituali, artistici e, soprattutto, identitari”.
Così identitari che nella cabala, ossia il complesso delle dottrine mistiche ed esoteriche ebraiche, la sintesi dei più importanti insegnamenti è rappresentata dall’Albero della Vita, non a caso scelto come simbolo del progetto di ricerca CHIOMA (Cultural Heritage Investigations and Observations: a Multidisciplinary Approach), teso allo studio degli effetti nocivi antropici sugli ambienti urbani e sui beni culturali. In nome della multidisciplinarietà, al progetto di ricerca stanno lavorando fianco a fianco brillanti ricercatori dei più prestigiosi istituti del Paese: oltre a Winkler, coordinatore del progetto, Antonio Sgamellotti dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Virginia Lapenta di Villa Farnesina, Alfonsina Russo, Francesca Boldrighini e Gabriella Strano del Parco Archeologico del Colosseo, Luciano Pensabene Buemi della Collezione Peggy Guggenheim di Venezia e Stefano Loppi dell’Università di Siena. CHIOMA, fin dall’inizio, ha assunto una connotazione assai peculiare: indagare la funzione di foglie e licheni nel processo di controllo e mitigazione dell'impatto del particolato atmosferico inquinante sui beni culturali in contesti urbani.
“La ricerca ha avuto inizio da uno dei simboli del Rinascimento Romano, Villa Farnesina, che ha consentito di approfondire il ruolo degli alberi nella tutela dei beni culturali esposti a traffico veicolare e attività antropiche limitrofe - sottolinea lo scienziato - Il particolato atmosferico, noto come PM, comprende una componente magnetica, che principalmente deriva dalle emissioni metalliche dei freni veicolari. Oltre a rappresentare una causa di degrado del nostro patrimonio storico e culturale, queste particelle sono nocive alla salute: infatti, accumulandosi nel cervello e nel cuore, sono associate a malattie neurodegenerative, quali il morbo di Alzheimer, e a cardiopatie infantili”.
Negli ambienti urbani, il particolato metallico atmosferico si deposita sulle foglie e sui licheni che, con le tecniche del biomonitoraggio magnetico e chimico, vengono analizzati come preziosi bioindicatori dell’inquinamento atmosferico, permettendo così di distinguere il PM dovuto a sorgenti naturali - come le polveri di provenienza sahariana, trasportate dal vento di scirocco - da quello delle nostre città, di origine antropica e inquinante. Inoltre, con questi metodi, si può delineare l’azione di mitigazione dell’inquinamento di cui le piante sono capaci, accumulando il PM, fino a classificare quali siano le specie più predisposte a fornire servizi ecosistemici di protezione ambientale. Eppure, in questo periodo storico, gli ecosistemi si stanno modificando con una rapidità che non ha eguali in nessun'altra epoca della storia umana, con la conseguente grave perdita di biodiversità su scala globale. Proprio attorno a questo ‘dramma ambientale’ si stringono i destini, in particolare, delle popolazioni del Mediterraneo: dalla consapevolezza, dunque, che unire gli sforzi, confrontare idee e proposte e condividere singole esperienze faranno la differenza tra il preservare le civiltà fiorite attorno al Mare Nostrum o l’abbandonarle al loro declino, è cresciuta la volontà di proseguire le ricerche, sulla scorta delle reciproche conoscenze, sull’asse internazionale italo-israeliano: “Il Medio Oriente, e Israele in particolare, stanno affrontando grandi sfide nell’era del cambiamento globale: non a caso, tale regione, considerata un hotspot di biodiversità - di cui i licheni sono noti bioindicatori - si sta riscaldando a un tasso accelerato rispetto al resto del pianeta”: così spiega Marcelo Sternberg della School of Plant Sciences and Food Security dell’Università di Tel Aviv, dove coordina gli studi relativi a come la siccità estrema e i cambiamenti nella distribuzione delle precipitazioni stiano influenzando la biodiversità di arbusti e piante annuali mediterranee. “Comprendere come il cambiamento climatico influenzerà questi ecosistemi è fondamentale per garantire le migliori pratiche di gestione delle risorse naturali della regione” - continua Sternberg, responsabile anche di una delle stazioni di ricerca sperimentale più antiche del mondo, vicino a Gerusalemme - Il nostro approccio si basa sulla simulazione di una forte riduzione delle precipitazioni atmosferiche, così come previsto dai modelli di cambiamento climatico relativi a questa regione”. L’idea di fondo, quindi, è proiettare nel presente, nell’oggi, le condizioni ambientali attese per l’immediato futuro. Si tratta di ‘anticipazioni’ assai preziose e, purtroppo, coerenti con gli scenari ipotizzati dalla comunità scientifica. “I numeri indicano una significativa riduzione della biomassa vegetale e della varietà di specie, con importanti ripercussioni sulla produzione di foraggi. Per mitigare il cambiamento climatico e adattarsi alle condizioni future è fondamentale disporre ora di queste informazioni, così da assicurare fin da subito una gestione sostenibile delle risorse naturali” conclude Sternberg. Il legame tra brillanti ricercatori italiani e israeliani in questi mesi si è rafforzato attorno al ‘comune sentire’ della causa ambientale, ma non è limitato ad essa: ha radici profonde e, anche per questo, si è naturalmente tradotto in comunanza di intenti.
Sternberg, infatti, membro del Comitato Scientifico di AISSI - che raggruppa i ricercatori italiani che operano in Israele - collabora con Winkler nell’Italian Council for a Beautiful Israel, rappresentanza italiana dell’associazione fondata da Shimon Peres nel 1968 con la missione di diffondere una crescente sensibilità sulle tematiche ecologiche, così da orientare attorno ad esse l’azione politica, economica, culturale e scientifica. L’impegno di AISSI si estende al piano storico, affrontando, in particolare, il tema del valore della memoria e patrocinando, attraverso l’impegno della presidente Cristina Bettin, della Ben Gurion University of the Negev, uno specifico progetto dell’INGV, rivolto allo studio dell’impatto delle leggi e delle persecuzioni razziali sulla comunità scientifica e accademica in Italia: ricerca a cui partecipano, tra gli altri, Accademia Nazionale dei Lincei, CNR, INAPP, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Comunità Ebraica di Roma, e a cui è stato dedicato un portale.
E, ancora, il sodalizio scientifico italo-israeliano si rafforza in nome di una disciplina specifica come il paleomagnetismo che, oltre a fornire preziosi indicatori climatico-ambientali, è teso alla ricostruzione delle caratteristiche del campo magnetico terrestre del passato. Recentemente, infatti, team di ricercatori dell’INGV, dell’Università di Tel Aviv, del Council for British Research in the Levant e dell’Università di San Diego, hanno ricostruito il campo magnetico terrestre tra 10.000 e 8.000 anni fa, grazie all’analisi di ceramiche e selci provenienti da quattro siti archeologici in Giordania. “Il campo magnetico terrestre - spiega Anita Di Chiara, ricercatrice INGV - è cambiato in modo significativo nel passato: questo studio ci aiuta a comprendere il comportamento del campo magnetico attuale, caratterizzato anch’esso da un marcato indebolimento. Tale aspetto è particolarmente utile ai ricercatori del clima e dell’ambiente, perché la sua ridotta intensità riduce l’effetto di schermatura dalle radiazioni solari, con una maggiore penetrazione di particelle energetiche solari e di raggi cosmici sulla superficie terrestre”. È un’ulteriore prova, se fosse necessaria, di quanto le collaborazioni scientifiche internazionali arricchiscano il nostro sapere su scala globale: aspetto a cui, specialmente con la crisi energetico-ambientale in corso, non possiamo permetterci di rinunciare. A partire dal Mediterraneo, ancora una volta, cuore di civiltà.