Dopo il SuperTuesday come potrebbe cambiare la corsa presidenziale
Quali sviluppi potrebbe avere la corsa per la Presidenza, dopo i risultati del SuperTuesday? Il punto di vista di Stefano Marroni
È finita come era largamente previsto da mesi, con la valanga MAGA a trasformare il SuperTuesday, martedì scorso, nella sostanziale investitura di Donald Trump come candidato repubblicano. Cosicché - a meno di sorprese clamorose e al momento davvero improbabili - a novembre gli americani si troveranno di fronte a una scelta che la maggior parte di loro non avrebbe mai voluto fare: “Tutti i sondaggi – disse a Breibart già a novembre, una vecchia volpe repubblicana di Washington come Carl Rowe – ci dicono che il popolo americano non vuole la sfida tra un uomo di settantotto anni e uno di 82 che già è andata in scena quattro anni fa. Vorrebbe che passassero il testimone a una nuova generazione di leader, perché considera troppo vecchi per fare il presidente degli Stati Uniti sia Trump (che lo è per la maggioranza degli elettori) che Biden, che è considerato troppo anziano quasi da tre elettori su quattro”.
Lo staff di Biden sa da tempo che il presidente è nei guai su più fronti, nonostante le sfavillanti note in arrivo dall’economia americana, con l’inflazione che scende, l’occupazione che sale, l’industria che cresce e Wall Street in grandissima forma. E alla Casa Bianca lavorano duro per ridare smalto – come con il discorso sullo Stato dell’Unione - all’immagine appannata di un leader che a tutti appare stanco e in difficoltà dinnanzi a un’opinione percorsa dai fremiti dell’isolazionismo e preoccupata dall’immigrazione clandestina. Ma la novità delle ultime settimane è che anche sul cammino di Trump si nascondono insidie. Soprattutto perché – in una battaglia che si annuncia ancora una volta giocata su poche migliaia di voti negli swing states – Trump potrebbe doversi guardare da qualche crepaccio aperto in casa repubblicana.
Da mesi, la nomina del nuovo speaker della Camera e gli stop a ripetizione a tutte le possibili intese bipartisan hanno certificato la sua presa di ferro sul Gop a livello parlamentare. E nei giorni scorsi – con la nomina tra l’altro anche di sua nuora Lara a co-presidente – Trump ha formalmente preso il controllo anche della Republican National Committee. Eppure la destra legata al vecchio partito repubblicano plasmato su Ronald Reagan e George H. Bush – una destra pragmatica, fiscalmente responsabile, duramente anti-russa in politica estera, non isolazionista, lontana anni luce nello stile dagli eccessi del nuovo capo – non dà segni di resa. Al punto che anche nella inevitabile sconfitta di Nikki Haley – l’unica ad aver comunque battuto Trump in due Stati, e aver superato il 30 per cento in altri quattro - si legge in controluce una tale preoccupazione per i possibili esiti di una vittoria di Trump da lasciar pensare che per una parte almeno dell’élite repubblicana possa mettersi al lavoro per far vincere Biden a novembre e preparare la rivincita nel 2028: “Ci sono dei conservatori – ha detto Sarah Matthews, che lavorò come portavoce di Trump alla Casa Bianca - che provano a sostenere che Biden rappresenti in qualche modo un rischio maggiore di Trump. Io non la penso così. Sono in disaccordo con moltissime idee di Biden. Ma credo un paese possa sopravvivere a cattive politiche. Mentre non sopravvive se manda al rogo la Costituzione”.
Non sono, voci come quelle di Matthews, le voci della maggioranza del popolo repubblicano, che messo sotto pressione dal movimento MAGA al 70 per cento sostiene Trump pur pensando magari - come il governatore del New Hampshire, Chris Sununu – che “Trump non rappresenta il partito repubblicano o il movimento conservatore: Trump rappresenta Trump e basta”. Ma sono quelle inquietudini la spiegazione del perché - a differenza degli altri candidati sconfitti uno dopo l’altro, e a dispetto della previsione trumpiana che “alla fine ci verrà a baciare il culo” - Haley ha annunciato buon’ultima di ritirarsi dalla corsa ma si è rifiutata di dare il suo appoggio a Trump. Insistendo che la sua corsa era per dire agli elettori che “l’America si merita di meglio”. E dando un segnale ai suoi finanziatori – l’ex ambasciatrice all’Onu aveva raccolto oltre 110 milioni di dollari per la sua campagna – che in molti hanno raccolto, aprendo subito un fronte di discussione con i superPac di Biden.
Fa certamente male alla candidatura di Trump che i giudizi più duri su “The Donald” arrivino spesso da chi aveva responsabilità importanti nella sua Casa Bianca fino al 6 gennaio del ’21, quando il suo atteggiamento durante l’assalto a Capitol Hill ha segnato “una linea rossa che non è possibile rivalicare”. C’è chi lo definisce “un aspirante dittatore”, come l’ex capo di Stato Maggiore della Difesa Mark. H. Miller. Chi dice che affidargli di nuovo gli stati Uniti “sarebbe come far giocare il paese alla roulette russa”, come l’ex ministro della Giustizia William P. Barr. Per non dire di John Bolton, che di Trump fu consigliere per la Sicurezza nazionale, capace di dargli apertamente del bugiardo e di garantire che - data la sua “totale impreparazione” sulle questioni strategiche e la politica internazionale - le sue sparate contro la Nato “vanno assolutamente prese sul serio”.
A gettare però più di un dubbio su quella che oggi appare la cavalcata di Trump verso la Casa Bianca è soprattutto l’analisi del voto di Nikky Haley: un voto che molti analisti considerano - più che un voto “per” lei - un voto “contro” Trump. Gli exit poll hanno rivelato che più del 50 per cento degli elettori dell’ex governatrice della South Carolina considerano “buono” il lavoro di Biden come presidente. E secondo l’ex deputato repubblicano del Maine David Emery “il 30 per cento dei repubblicani non vuole votare Donald. Che alla fine vadano a votare Biden o stiano a casa ce lo dirà il tempo”.
Più in generale, al sostegno fortissimo a Trump delle aree rurali e di larghi settori della classe operai bianca corrisponde una seria difficoltà del tycoon nelle aree urbane e tra le persone di orientamento moderato, e con qualche titolo di studio. Nelle dodici contee in cui Haley ha vinto – tra cui persino quelle ad alto reddito dell’area di Nashville, Tennessee – almeno il quaranta per cento della popolazione ha come minimo un diploma di scuola superiore. Non è di oggi la repulsione per Trump della comunità LGBT+. E soprattutto la diffidenza delle donne, che - benestanti o no, e spesso con un background repubblicano - hanno già rovesciato i pronostici votando democratico in molte elezioni locali. A maggior ragione – ragionano gli analisti - potrebbero farlo a novembre, di fronte all’offensiva teocon sui temi dell’aborto e della contraccezione che Trump non può permettersi di contrastare, anche se - dopo il sostanziale stop alle interruzioni di gravidanza nella maggior patte degli Stati “rossi” - di recente in Alabama una sentenza della Corte Suprema ha di fatto messo al bando persino l’inseminazione artificiale, spiegando che “non è questa la volontà di Dio”.
Niente di strano, allora, che all’indomani di un SuperTuesday celebrato da Trump come il giorno in cui “ho massacrato Nikky Haley”, gli atteggiamenti dei due campi verso le truppe della donna di 42 anni che ha provato a far saltare la “sfida degli ottantenni” siano radicalmente diversi. “Questi cosiddetti moderati, quelli che sono andati al college, si sono autoesclusi dal partito repubblicano”, per dirla con Matt Gaetz, il superfalco trumpiano della Florida. “In un certo senso, i repubblicani alla Nikky Haley non sono nemmeno più repubblicani…”. Biden e i suoi sperano esattamente questo: “Donald Trump ha detto che non vuole i sostenitori di Nikky Haley”, ha dichiarato il presidente: “Io invece voglio dirlo con chiarezza: per loro c’è un posto, nella mia campagna”.