Duecento anni dalla decifrazione della Stele di Rosetta
A duecento anni di distanza dalla decifrazione della Stele di Rosetta, custodita oggi al British Museum di Londra, Rossella Fabiani ne ripercorre la storia
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La scoperta di una stele con un testo in greco, geroglifico e demotico diede inizio alla corsa per decifrare l’antica scrittura egizia, che si concluse nel 1822 grazie alle intuizioni del francese Jean François Champollion. Ma facciamo un lungo passo indietro.
È il 196 a. C. quando a Menfi un sinodo di sacerdoti promulga un decreto che viene riportato su varie stele di pietra in tre scritture diverse. Poi, nel XV secolo, a Rosetta (in arabo Rashid) viene costruita una fortezza usando come materiale anche la stele con il decreto di Menfi. Finalmente, nel 1799, l’ufficiale francese Pierre-Francois Bouchard scopre la stele a Fort Julien, nei pressi di Rashid.
Nel 1802 gli inglesi confiscano la stele ai francesi e la trasferiscono al British Museum di Londra, dove proprio in questi giorni è giunta una petizione firmata da più di 2500 archeologi che chiede al museo londinese di “restituire la Stele di Rosetta al suo legittimo proprietario, l’Egitto”.
A guardarlo oggi, questo frammento di granodiorite alto 112 centimetri, largo 75 cm, profondo 28 cm e pesante 760 chili, suscita la stessa emozione di quando fu scoperto. Il dietro non è lavorato, forse perché in origine la lastra era inserita all’interno di una struttura più grande o appoggiata alla parete di un tempio. I lati sono lisci, mentre la parte davanti, dove ci sono le iscrizioni, è levigata. Ha due crepe: una nella parte in alto e un’altra nell’angolo in basso a destra. Il frammento arrivato fino a noi rappresenta circa il 50 per cento della stele originale che doveva avere la parte in alto arrotondata con i lati leggermente inclinati verso una base più ampia. La parte mancante conteneva probabilmente una scena raffigurante il re d’Egitto intento a trafiggere un nemico con una lancia al cospetto degli dèi, un simbolo del suo controllo sulle forze del caos e del ripristino dell’ordine in Egitto. La parte anteriore è divisa in tre fasce di testo. In alto compaiono 14 righe incomplete di iscrizioni in geroglifico, al centro 32 righe di scrittura demotica – le prime delle quali sono prive della parte iniziale – e in basso si conservano le 54 righe originali in greco.
Dopo la scoperta della stele di Rosetta sono state ritrovate in Egitto una ventina di stele simili, in frammenti o integre, e tutte contengono testi in due o tre scritture proprio come nel caso della stele di Rosetta. Di solito prendono il nome dei luoghi in cui sono state rinvenute come nel caso, per esempio, del decreto di Canopo o della grande stele di Mendes.
La stele di Rosetta presenta lo stesso testo scritto in geroglifico demotico e greco e contiene frasi come: “Nel Regno… del grande faraone… I sommi sacerdoti… riuniti nel tempio di Menfi in questo giorno, hanno dichiarato: da quando regna il faraone Tolomeo, l’eterno, il prediletto di Ptah… sia i templi che coloro che li abitano hanno ricevuto grandi benefici… (il faraone) ha destinato ai templi argento e grano, ha investito molte ricchezze per la prosperità dell’Egitto e ha consolidato i templi… Ogni anno si terrà una festa per il faraone Tolomeo… in tutti i templi del Paese a partire dal primo di tot per cinque giorni… affinché la magnificenza e l’onore del dio Epifane Eucaristo, il faraone, siano noti a tutti gli uomini di Egitto”.
Si tratta del decreto di un sinodo di sacerdoti tenutosi a Menfi e fa riferimento al faraone Tolomeo V Epifane che nel 196 a.C., quando fu emesso il decreto, aveva solo 13 o 14 anni. Era stato incoronato l’anno precedente, dopo che l’Egitto aveva attraversato un periodo di crisi segnato da lotte di potere, rivolte degli egizi autoctoni contro gli amministratori greci e pressioni esterne dell’impero seleucide. È proprio la preesistente situazione di crisi a spiegare il significato del decreto. Dopo avere represso le rivolte, il governo di Tolomeo decise di investire nei templi per guadagnarsi il sostegno degli alti sacerdoti e degli amministratori regionali del Paese. Nel decreto veniva così ordinata la costruzione di statue degli dèi in nome del sovrano, si stabiliva il mantenimento delle offerte e delle donazioni ai templi e si concedevano esenzioni fiscali ai sacerdoti. L’iscrizione aveva anche una funzione propagandistica: secondo il testo, l’accordo doveva essere approvato nei sinodi sacerdotali e se ne dovevano collocare copie in tutti i templi di Egitto. L’uso di tre scritture non era causale perché era destinato ad annunciare il ripristino dell’ordine universale del governo di Tolomeo V Epifane a tre diversi destinatari: i greci, gli egizi autoctoni (tramite la scrittura demotica) e gli dèi dell’Egitto in quanto i geroglifici considerati “parola degli dei” erano riservati al mondo della religione. Non è un caso quindi che il testo in geroglifico, la lingua della divinità, appaia nella parte in alto della stele: il posto che gli corrispondeva e che indicava una dominazione simbolica sull’origine dell’universo.
Rosetta, come i francesi chiamarono la cittadina, era a circa otto chilometri dalla foce del Nilo. Dato che anticamente quest’area era sommersa dalle acque del mare, si pensa che la pietra provenisse da un edificio di epoca faraonica situato nell’entroterra. Il testo della stele non dice dove fosse collocata in origine, ma soltanto che dovevano esserne realizzate diverse copie da esporre “in tutti i templi” d’Egitto. Oggi gli studiosi ritengono che la pietra provenisse da Said, una città a una sessantina di chilometri più a sud. A Rosetta sono stati ritrovati blocchi di pietra del periodo faraonico della XXVI dinastia (664-525 a.C.) con iscrizioni che ne indicano la provenienza dalla città e dai templi di Sais. In epoca faraonica Sais era una città importante, con un tempio in onore della dea creatrice Neith e una grande struttura dedicata al dio dei morti Osiride. Fu la capitale dell’Egitto sotto la XXVI dinastia e in quel periodo divenne un importante centro intellettuale. Ma nel V secolo d.C. la situazione cambiò completamente. In seguito all’ordine di chiusura dei santuari egizi, emanato dalle autorità cristiane, i templi di Sais furono smantellati. Le pietre con cui erano stati edificati vennero impiegate nelle nuove costruzioni dell’area del delta, visto che le cave erano troppo lontane dalla costa mediterranea. In epoca tardo-antica e islamica, invece, i blocchi dei templi e dei monumenti funerari di Sais venivano caricati su chiatte e trasportati lungo il Nilo fino a località come Fuwah e Rashid, dove erano usati per costruire edifici come i forti difensivi innalzati lungo le coste. Tuttavia, non si può escludere che la stele di Rosetta provenga da altre località come Menfi, Eliopoli o le città di Canopo e Heracleion nel cosiddetto ramo canopico del delta del Nilo. I frammenti mancanti della stele di Rosetta potrebbero essere ancora sepolti in una di queste antiche città. Quando la stele di Rosetta fu scoperta, Champollion aveva solo nove anni, ma era già uno studente dotato di una passione per le lingue che lo portò a imparare il latino, il greco e alcune lingue orientali come l’arabo, il siriaco, l’aramaico, il caldeo, l’etiopico e il copto. Aveva appena terminato il liceo quando tentò di decifrare i geroglifici usando come base le incisioni disponibili fino a quel momento e come già avevano fatto altri studiosi prima di lui. Anche Champollion si era concentrato sulla decifrazione dei nomi greci che comparivano nei testi scritti con geroglifici che avevano valore alfabetico. E, a parte questi termini, anche lui riteneva che la scrittura geroglifica fosse puramente ideografica. In realtà, in seguito, scoprì che la scrittura geroglifica non era né esclusivamente ideografica né esclusivamente alfabetica, ma era un sistema decisamente più complesso che comprendeva segni che rappresentavano due o tre lettere per volta e che svolgevano diverse funzioni se impiegate nella struttura di una parola o di una frase. E sebbene avesse ancora molto lavoro da fare, la decifrazione del cartiglio di Ramses sulla stele bastò per fargli dire “Je tiens l’affaire”, “Ci sono”.