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Egitto e non solo

Perché la crisi di Gaza potrebbe destabilizzare le diverse aree africane. Il punto di Emanuele Rossi

“Siamo molto preoccupati che si possa scivolare in un conflitto religioso e in un’espansione del confronto”, ha dichiarato sabato 21 ottobre il capo della Lega Araba ed ex ministro degli Esteri egiziano, Ahmed Aboul Gheit. Parlava in occasione del vertice di pace del Cairo, convocato dal presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, per far fronte alle destabilizzazioni in corso come (attesa) conseguenza dell’attacco sanguinario di Hamas contro Israele del 7 ottobre. Al vertice hanno partecipato nove leader e cinque premier di paesi arabi ed europei (tra cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni), oltre a rappresentanti di alto livello delle Nazioni Unite, dell’Unione Europea e dell’Unione Africana.

Come nei precedenti conflitti palestinese-israeliani, l’Egitto – che ha governato Gaza per quasi due decenni dopo la creazione di Israele nel 1948 e continua a controllare l’attraversamento di Rafah (attualmente l’unico collegamento esterno per la Striscia assediata da Israele) – è visto come l’attore più adatto nel preparare un tavolo dei negoziati. L’Egitto ha mantenuto le distanze da Hamas, essendo il gruppo palestinese ideologicamente connesso ai Fratelli musulmani, e inoltre Il Cairo esercita più influenza sui gruppi palestinesi in generale in quanto è visto come un mediatore affidabile.

Mentre la guerra tra Israele e Hamas continua, i leader del Medio Oriente e dell’Africa sono sempre più preoccupati che la violenza e l’instabilità possano riversarsi in tutta la regione. Si teme che la rabbia dell’opinione pubblica contro i bombardamenti regolari di Israele sulla Striscia di Gaza, serva a, secondo le parole del coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, “riaccendere le rimostranze e rianimare le alleanze” in Medio Oriente e Nord Africa.

In effetti, oltre a quelle in Medio Oriente, ci sono state proteste di massa antisraeliane in Egitto, Libia, Tunisia e perfino in Marocco — paese che ha normalizzato le relazioni con Israele attraverso gli Accordi di Abramo. Ma l’Egitto non è a rischio di destabilizzazione solo a causa del confine condiviso con Gaza e del peso storico della questione palestinese nel contesto socioculturale locale. Al-Sisi governa un paese che non brilla dal punto di vista economico, e il timore è legato a possibili reazioni popolari. Come far fronte al potenziale deteriorarsi del contesto securitario? Come gestire gli eventuali tanti profughi? A quali costi?

Al-Sisi ha sostenuto che un’evacuazione di massa potrebbe far diventare il Sinai “una base per operazioni terroristiche contro Israele” e ha proposto che i rifugiati possano invece essere ospitati nel deserto israeliano del Negev (con una complicata operazione di assistenza umanitaria che per ora non è in discussione).

Vale la pena notare che le condizioni della penisola che collega Nord Africa e Medio Oriente sono già delicatissime, con l’insorgenza di un gruppo terroristico locale che già anni fa ha fatto la bay’ah allo Stato islamico istituendo la Wilayat al Sinai. I miliziani baghdadisti della provincia del Sinai sono da anni attivi in una campagna di attacchi terroristici costanti contro le forze armate e di sicurezza egiziane e hanno creato in passato problemi ai flussi turistici nel Mar Rosso. L’idea di una possibile promiscuità con i guerriglieri di Hamas o altri gruppi della Striscia, nonché con tanti palestinesi rifugiati e sconfortati è una comprensibile preoccupazione per Il Cairo.

In generale, le nazioni arabe temono anche che un esodo di palestinesi da Gaza consentirebbe a Israele di rioccupare il territorio e sfollare permanentemente la popolazione — una nuova Nakba. Al vertice di pace che ha organizzato, Al-Sisi ha ribadito che “la liquidazione della causa palestinese senza una giusta soluzione” non avverrà “mai a spese dell'Egitto”.

La crisi economica e i potenziali riflessi securitari, nonché i pesi culturali e ideologici, si abbinano in combinato disposto al contesto pre-elettorale. A dicembre ci saranno le presidenziali, e la situazione a Gaza è un elemento in grado di alterare pesantemente il quadro politico egiziano e le sue dinamiche. Come il governo, anche l’opposizione potrebbe cercare di strutturare l’opinione pubblica createsi sulla crisi mediorientale in ottica del consenso elettorale.

Il problema è esteso, e se l’Egitto è sicuramente il più interessato dei paesi africani, qualcosa di simile sta succedendo anche in altre realtà del continente. Riflessi si sono già visti in Libia, con alcune fazioni interne che potrebbero essere anche sollecitate da player esterni nel tentativo di sfruttare la situazione per spingere narrazioni anti-occidentali — come quelle pretestuose contro gli ambasciatori europei. Lo stesso vale per il Sudan, un paese che era indirizzato sulla via della normalizzazione con Israele. “Come Sudafrica, siamo fermamente convinti che l’attacco ai civili in Israele, l’assedio in corso di Gaza e la decisione di spostare con la forza la popolazione di Gaza, insieme all’uso indiscriminato della forza attraverso i bombardamenti, costituiscano violazioni del diritto internazionale. Oltre a ciò, questi atti sono un affronto alla nostra comune umanità”, ha detto il leader sudafricano Cyril Ramaphosa. I vescovi cattolici in Etiopia stanno sollevando preoccupazioni per una nuova ondata di violenza nel paese, in mezzo all’attenzione globale magnetizzata dal conflitto tra Hamas e Israele. Il 22 ottobre, trentacinque giornali in Algeria hanno pubblicato lo stesso titolo a sostegno di Gaza: hanno scelto il titolo “Gaza... I media che uccidono la verità” con una foto della città per attirare l’attenzione sulla parzialità dei media occidentali e sulla loro ignoranza dell’orrore degli attacchi israeliani.

La grande preoccupazione riguarda un piano duplice. Da un lato c’è quello della penetrazione e dell’attecchimento della narrazione strategica anti-israeliana declinata nel macro-tema anti-occidentale. Aree come il Sahel sono contaminate da queste attività, portate avanti anche attraverso operazioni guidate da attori statali esterni (in primis russi, e poi cinesi e iraniani). Dall’altro la saldatura di questo contesto con le destabilizzazioni regionali legate ai gruppi jihadisti presenti nel continente africano.

Il rischio è che il sommarsi, in modo simile al contesto ristretto del Sinai, di propaganda anti-occidentale e anti-israeliana, problemi locali e predicazione opportunistica jihadista possa motivare i gruppi militanti islamici in Africa e possa indurli a provare a capitalizzare la rabbia dell’opinione pubblica per la crisi e a raccogliere sostegno e legittimità: in una parola, proseliti.

In Somalia, ad esempio, il gruppo al-Shabab, affiliato ad al-Qaeda, ha organizzato manifestazioni a favore della Palestina, dimostrando che l’ampio impatto degli attacchi di Hamas, anche prima di una possibile escalation regionale del conflitto, risiede nella possibilità che questi gruppi armati in tutto il mondo possano cercare di emulare la devastante violenza perpetrata da Hamas all’inizio di questo mese. E in questo momento l’attenzione sull’Africa è alta perché è lì che stazionano i nuovi centri del radicalismo, tra la fascia saheliana, la regione dei Grandi Laghi e il Corno.

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