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Fattore Peul: come l’etnia ridefinisce gli equilibri del Sahel

Negletti dai governi del Sahel, i Peul trovano nella militanza jihadista uno strumento di protesta. Per ogni stato della regione la combinazione tra politiche e dinamiche del conflitto produce risultati diversi. Così l’etnia meno politica diventa quella geopoliticamente più rilevante

Il dibattito sulle origini dei Peul (noti anche con i nomi di Fulani o Fulbé) è quantomai ampio. Storici, etnografi, antropologi non concordano in merito alla provenienza di questa popolazione dell’Africa Occidentale e tuttavia le diverse analisi e ricostruzioni convergono su un punto: ci sono sempre stati. Sebbene in diversi paesi della subregione questo gruppo possa rivendicare diversi esempi storici di fondazione di soggetti (geo)politici particolarmente rilevanti (ad esempio l’emirato del Liptako in Burkina Faso o l’impero della Macina in Mali o quello teocratico del Fouta Djalon in Guinea) essi non hanno coltivato recentemente istanze separatiste o secessioni significative (come invece fatto da altre popolazioni della regione come per esempio i Tuareg); eppure, oggi più che mai, i Peul sono uno degli attori chiave per capire le dinamiche di potere e lo sviluppo dei conflitti nel Sahel e in Africa occidentale in maniera più generale. Al netto, infatti, delle discriminazioni subite, i Peul sono diventati parte integrante della classe dirigente di questo quadrante di Africa. È un Peul il presidente del Senegal, Macky Sall, è un Peul il presidente della Guinea Bissau Umaro Sissoco Embalò, è un Peul il presidente della Nigeria Muhammadu Buhari, così come lo sono importanti leader religiosi (come l’imam Mahmoud Dicko in Mali) e politici come Cellou Dalein Diallo in Guinea. Queste figure sono state capaci di coniugare un sentimento identitario, sempre presente tra i Peul, con dei programmi politici che fossero capaci di parlare anche al resto della popolazione, salendo così al vertice delle autorità dei rispettivi paesi e così riuscendo a gestire passaggi politici particolarmente complessi. In sintesi, seppur partendo da una condizione di svantaggio, i Peul si stanno occupando sempre più della politica regionale, ma non sempre la politica dei governi centrali tiene conto delle istanze dell’etnia in quanto tali. Questo cortocircuito produce esiti diversi da paese a paese.

Pastori, navigatori, nomadi

Sin dalle prime testimonianze storiche sulla loro presenza, il binomio Peul-nomadismo è rimasto indissolubile. Sebbene questo modus vivendi abbia una certa rilevanza anche oggi, il numero degli esponenti dell’etnia che optano per una vita sedentaria o semi-sedentaria è sempre maggiore. Secoli di vita nomade tra il Sahara e il Sahel hanno dotato questo gruppo etnico di una rara capacità di navigare attraverso i deserti e di intessere una rete di rapporti commerciali e politici con i principali gruppi di potere nelle regioni in cui sono presenti, tra queste il Sahel. Sebbene scontri violenti si siano spesso verificati tra i Peul e gli altri gruppi è altrettanto vero che forme di cooperazione, accordi e condivisioni delle risorse naturali con i Tuareg, i Serere e i Songhai sono esistiti anche fino ad epoche molto recenti. In questo senso tracciare una cartografia o una storia dei legami interetnici dei Peul è un esercizio estremamente complesso e che mal si presta a semplificazioni. Tuttavia, i Peul continuano spesso ad essere stigmatizzati dalle opinioni pubbliche locali, nonostante il ruolo rilevante giocato da alcuni loro esponenti a livello politico. I motivi insiti alla base dei pregiudizi nei confronti dei Peul sono spesso legati a fattori di tipo economico. I commercianti dell’etnia sono riusciti, partendo dal basso, a fare fortuna attirandosi le gelosie e la diffidenza di altri gruppi di potere. In altri casi, è stato il nomadismo e l’occupazione nella pastorizia caratteristiche insite nel loro stile di vita o a una presunta interpretazione radicale dell’Islam che li vedrebbe come più inclini di altri gruppi etnici all’adesione ai gruppi terroristici di stampo jihadista. Se a questo si aggiunge anche la rilevanza del gruppo etnico in ambito economico in virtù della pratica della pastorizia e del commercio, si evince come l’ostracismo nei confronti dei Peul non influenzi solo gli equilibri interetnici ma pregiudichi il potenziale economico e la resilienza in termini di food security di alcuni stati. Al netto di queste linee generali il coinvolgimento dei Peul nell’instabilità Saheliana (sia come soggetto che come oggetto in relazione ai centri di potere locali) disegna delle dinamiche a geometria variabile che da paese a paese portano a sviluppi ed esiti contraddittori e che perciò vanno prese singolarmente.

Mali: la vendetta della Macina

Guardando in retrospettiva, è stato l’ingresso del fattore Peul nella guerra civile in Mali a riaccendere l’insurrezione nel paese. La nascita del Fronte per la Liberazione della Macina nel 2015, infatti, ha modificato l’inerzia del conflitto innescando la ripresa delle ostilità a una più alta intensità dopo che l’intervento francese del 2013 aveva ridimensionato le attività dei gruppi estremisti. Sotto la guida del predicatore Amadou Kouffa, l’ideologia jihadista è riuscita a penetrare al centro della questione Peul riuscendo a capitalizzare sulle molte crepe caratterizzanti il rapporto tra governo e popolazioni del centro del paese. Sono diversi i motivi degli attriti tra i Peul maliani e il governo di Bamako, da una parte legati a crisi strutturali come quella del cambiamento climatico dall’altra a fattori di natura squisitamente politica (sottorappresentazione ed estraniamento rispetto alle politiche governative). Al tempo stesso, è difficile comprendere dove e quando finisca un fattore e cominci l’altro. Il caso delle politiche di mitigazione del cambiamento climatico, ad esempio, è un chiaro caso di mescolanza tra crisi strutturale, incapacità governativa e stigmatizzazione. Il nomadismo pastorale dei Peul mal si concilia con le politiche che, negli ultimi sessant’anni, hanno caratterizzato la vita politica del Mali, basate sulla predilezione per lo sviluppo del settore agricolo su cui si concentra il grosso delle risorse finanziarie e naturali. Il perdurare di queste scelte, unito all’espansione demografica e alla crisi climatica, non ha fatto altro che accrescere il malcontento dei Peul nei confronti del governo centrale. Si aggiunga come il progressivo concentramento delle risorse idriche per lo sviluppo dell’agricoltura intensiva nei paesi del Sahel ha fatto aumentare la pressione del cambiamento climatico sui Peul che si sono ritrovati così sprovvisti di quelle risorse essenziali per il mantenimento delle greggi. In quest’ambito, il jihad, inteso come ideologia politica militante, non è stato altro che la miccia per dare fuoco alle polveri. La risposta delle autorità maliane, puramente militare e spesso contraddistinta dal supporto a milizie identitarie contrapposte ai Peul come i Gand Iso non ha fatto che aggravare la situazione grazie a una retorica politica che ha flirtato con i pregiudizi presenti nella società maliana nei confronti dei Peul e ad una repressione indiscriminata verso le comunità locali. Entrambi i fattori sono stati esacerbati dall’arrivo del Wagner Group russo a Bamako ed è in questo contesto che vanno letti anche fatti gravi della storia recente del paese come il massacro di Moura, nel centro del Mali, dove nel Marzo del 2022 membri delle forze armate maliane e del gruppo Wagner hanno ucciso più di 300 civili (in maggioranza Peul) nell’ambito di un’operazione antiterrorismo. Nel caso del Mali il fattore Peul punta quindi verso l’erosione delle strutture statali in una dinamica centrifuga che allontana le regioni centrali del paese dalla capitale e le salda alla zona delle tre frontiere, dove l’insurrezione si propaga, in Burkina Faso e Niger dove il fattore Peul prende altre forme ed esiti.

Burkina Faso: jihadisti, miliziani e fattore russo

Se nel caso del Mali i Peul sono vittime e creatori dell’instabilità, in quello del Burkina Faso l’etnia rischia di assurgere esclusivamente al secondo ruolo. A partire dal 2019 i gruppi jihadisti hanno lanciato una campagna quantomai penetrante nelle regioni del Nord e del Sahel, dimostrando tutte le debolezze delle forze di sicurezza locali e le contraddizioni del governo di Ouagadougou. In questo senso, l’offensiva jihadista è stata fondamentale per gettare le basi del primo colpo di stato del 2021 e per l’arrivo al potere del generale Paul-Henry Sandaogo Damiba. Si è già scritto molto su come l’avanza jihadista abbia creato i presupposti per il ritorno dei militari al potere ma ciò che è interessante notare è come la percezione della relazione tra Peul e insurrezione in Burkina Faso sia mutata enormemente, influenzando le politiche del governo di Ouagadougou. L’arrivo dei militari al potere è coinciso con lo sdoganamento di una retorica a tratti fortemente razzista nei confronti dell’etnia da parte delle autorità burkinabé. Un fatto che si pone in aperta contraddizione con la storia del paese, se si considera come il padre fondatore del Burkina Faso moderno, Thomas Sankara, si vantasse del superamento delle divisioni etniche da parte della società e delle istituzioni del suo paese. Durante il governo Damiba, questa postura a tratti discriminatoria era spesso smussata anche in virtù di un atteggiamento più filofrancese che caratterizzava la precedente giunta. In termini semplici, il governo di Damiba era conscio del fatto che un atteggiamento oltranzista nella gestione delle relazioni interetniche mal si conciliava con la volontà di mantenere buoni rapporti con Parigi e il resto dei partners occidentali. Questo atteggiamento è mutato con l’arrivo al potere della giunta Traoré dopo il golpe dell’ottobre 2022, una mutazione politica che però stabilisce due criteri di proporzionalità nella politica interna del paese. In primo luogo, la conciliazione con i Peul è direttamente proporzionale all’ancoraggio dei paesi Saheliani all’asse europeo. Secondo poi la conciliazione con i Peul è inversamente proporzionale all’utilizzo delle milizie dei Volontari per la Difesa della Patria (VDP). Questi, sono i gruppi paramilitari addestrati e legittimati dal governo civile di Roch Marc Christian Kaboré, ma rafforzati in termini di dotazioni e reclutamento dalle successive giunte militari. Questa seconda relazione è stata particolarmente visibile a poche settimane dall’insediamento della nuova giunta, cioè quando il governo guidato da Traoré ha varato un piano di reclutamento per 30.000 miliziani e il primo ministro de Tambelà ha esplicitamente incitato i partner internazionali del Burkina Faso ad armare i VDP per salvare il paese dalla morsa jihadista.

La svolta anti-Peul impressa dal governo di Ouagadougou non deve sorprendere, soprattutto in virtù del fatto che l’avanzare dell’insorgenza jihadista unita ad una forte ed efficace campagna di reclutamento degli estremisti tra i Peul, sta conquistando porzioni crescenti di territorio. L’offensiva jihadista sul versante burkinabé sta anche colpendo in maniera sostanziale le miniere d’oro artigianali nella zona del Liptako-Gourma, compromettendo un asset importante per lo sviluppo del paese.

In merito agli equilibri interetnici, lo status dei Peul in Burkina Faso è di gran lunga il più preoccupante della regione, specie considerando gli ultimissimi sviluppi nel paese. A gennaio sono state scoperte delle fosse comuni nella città di Niouna, nella regione del Boucle de Mouhoun, contenenti i cadaveri di decine di Peul. Secondo alcune testimonianze locali, i VDP avrebbero compiuto una vera e propria spedizione punitiva nei confronti dei Peul presenti nel centro abitato. Il governo del Burkina Faso ha fatto attendere per settimane la propria risposta, giunta per bocca del presidente Traoré in persona, che ha accusato alcuni “apolidi” (letterale) di “etnicizzare” la lotta contro il terrorismo. Insomma, non una dichiarazione di supporto ai fatti di Niouna ma sicuramente un tentativo di minimizzare l’accaduto. Il rischio è che la deriva del Burkina Faso possa portare, oltre che a un avvicinamento progressivo di Ouagadougou all’orbita d’influenza russa, anche ad un progressivo sdoganamento della repressione violenta su base etnica. In questo contesto, un eventuale dispiegamento dei mercenari russi nel paese potrebbe diventare funzionale a questo disegno considerando la necessità dei soldati Wagner di dimostrarsi efficienti in tempi rapidi.

Niger: Fermezza e integrazione

La gestione della questione Peul in Niger si pone in controtendenza rispetto alle dinamiche regionali. Come avviene per gli altri stati del Sahel, storicamente anche in Niger esiste una retorica anti Peul basata puramente sui pregiudizi e, anche in Niger, le comunità pastorali sono state spesso neglette a favore dell’implementazione di colture intensive funzionali all’eradicazione della malnutrizione e alle politiche di sviluppo. In questo senso, analogamente a quanto successo in Mali e Burkina Faso, anche in Niger si è assistito a un proselitismo crescente da parte dei gruppi jihadisti che hanno speculato sulle rimostranze dei Peul.

Ciò che è pone Niamey in controtendenza rispetto ad altri stati del Sahel è la strategia attuata dal governo per far fronte alla progressiva instabilità legata in parte alla questione Peul. Occorre in questo senso sgombrare il campo d’analisi da un equivoco: la strategia del Niger in relazione al gruppo etnico si basa anche su una ferma opzione militare in merito all’insurrezione. In questo contesto va letto l’approccio deciso e muscolare utilizzato da Niamey per reprimere l’insurrezione nel bacino del Lago Ciad e nella zona delle tre frontiere dove i Peul sono maggiormente attivi nelle file jihadiste. Come sottolineato dal presidente del Niger, Mohammed Bazoum, in occasione della Conferenza dei Quadri del febbraio 2022, il senso della presenza dell’esercito e del suo potenziamento in aree di crisi assolve a questa funzione: far sentire la presenza dello stato. In questo senso, la strategia militare del Niger per arginare la crisi sta funzionando, anche in virtù del supporto garantito dai paesi europei alle politiche del governo, specialmente dopo lo sbraco della Russia in Mali. Insieme allo strumento militare, il governo di Niamey ha adottato un approccio squisitamente politico alla questione dei Peul, favorendone l’ingresso nelle più alte sfere dell’amministrazione pubblica. In questo senso è presto per dire se e quanto l’integrazione degli esponenti di questa etnia possa favorire una risoluzione di lungo termine del problema della radicalizzazione. Tuttavia, resta evidente come uno stato con i Peul al suo interno sia difficilmente stigmatizzabile dalla propaganda jihadista e ne guadagni complessivamente in termini di legittimità. In questo senso la ricetta nigerina alla questione dei Peul, per il momento, è riuscita a prevenire le derive che si sono verificate in Mali e Burkina Faso, ma, come spesso avviene nella geopolitica recente del Sahel è ancora presto per parlare di soluzione definitiva.

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