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Filippine e Mar Cinese: un flahspoint incandescente

Le Filippine emergono come attore chiave nell’Indo-Pacifico, bilanciando diplomazia e rafforzamento militare per affrontare le crescenti pressioni della Cina nel Mar Cinese Meridionale

"Continuiamo ad opporci all’uso pericoloso che la Cina fa della guardia costiera e delle milizie marittime nel Mar Cinese Meridionale e alla sua ripetuta ostruzione della libertà di navigazione e di sorvolo […] Esprimiamo profonda preoccupazione per il crescente uso di manovre pericolose e cannoni ad acqua contro le navi filippine e vietnamite. Ribadiamo che il lodo reso dal Tribunale arbitrale il 12 luglio 2016 è una pietra miliare significativa, giuridicamente vincolante per le parti del procedimento e una base utile per risolvere pacificamente le controversie tra le parti”: il G7 Esteri è chiaro in merito alle condizioni di uno dei flahspoint più sensibili del momento. Le tensioni che coinvolgono Cina e Filippine (e in misura minore Vietnam e Indonesia) sono un elemento critico di carattere internazionale perché potrebbero generare incidenti e sfociare in uno scontro militare, in cui potrebbero finire coinvolti gli Stati Uniti e diversi attori regionali – con riflessi fino alla penisola coreana e all’arcipelago giapponese, con effetti che peserebbero sulle rotte geoeconomiche globali.

La base della diatriba storica è la rivendicazione di Pechino sulla sovranità in un’area che riguarda quasi tutto il Mar Cinese (è nota storicamente come “Linea dei nove trattini”, dal 2023 aggiornata a “shí duàn xiàn”, dove i trattini sono diventati dieci). Non esiste alcuna base giuridica per tali rivendicazioni marittime, ma il Partito/Stato sa che esse hanno un’importanza simbolica (perché una potenza che vuole essere percepita come globale non può permettersi di non dominare dispute in quello che potrebbe essere rappresentato come il suo “cortile domestico”), e tecnica. Il Mar Cinese Meridionale è infatti una delle rotte marittime più trafficate al mondo, con un valore di traffico marittimo annuo che supera i 3,37 trilioni di dollari, rappresentando circa il 30% degli scambi globali. Inoltre, più del 50% delle petroliere mondiali transita annualmente attraverso queste acque, evidenziando la sua importanza strategica per il commercio internazionale e l’approvvigionamento energetico.

Per tale dimensione, non è più da tempo un mero epicentro delle dispute territoriali tra le Filippine (e altri attori locali) e la Cina, ma rappresenta anche un nodo cruciale nella competizione strategica tra Washington e Pechino. La crescente militarizzazione cinese e le tensioni nelle rotte marittime evidenziano un chiaro tentativo di consolidare il controllo su quell’area vitale per il commercio internazionale e, in prospettiva, per eventuali operazioni militari legate a Taiwan, nonché dimostrano volontà di agire in forma egemonica nella regione. Gli Stati Uniti, dal canto loro, individuano nella regione un evidente fronte di contenimento della crescente influenza cinese, con le Filippine che giocano un ruolo chiave come alleato strategico.

Manila ne è altrettanto consapevole, e considera un ruolo all’interno di quelle rotte come un moltiplicatore della sua esistenza internazionale. Diventate ormai un attore chiave nell’Indo-Pacifico, le Filippine si stanno affacciando al resto del mondo, rivendicando un proprio ruolo (attore attivo nel Global South sud-est asiatico e cooperativo con i like-minded occidentali), che passa anche da quell’attività di contenimento della Cina, esistenziale per Manila. La partecipazione del ministro degli Esteri Enrique Manalo alla riunione ospitata a Fiuggi dalla presidenza italiana conferma questa nuova dimensione di Manila, che stringe accordi di vario genere con attori multidimensionali, dall’India agli Emirati Arabi Uniti, fino chiaramente alle partnership come quella storica con gli Stati Uniti.

È stato lo stesso ministro Manalo, in un recente articolo a sua firma, a rassicurare che Manila si sta impegnando a risolvere le controversie marittime attraverso la diplomazia e la cooperazione multilaterale, riaffermando l’importanza della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS) e della sentenza arbitrale del 2016, che ha invalidato le rivendicazioni cinesi sul Mar Cinese Meridionale. Ma questa posizione diplomatica non può che essere accompagnata da un’intensificazione della cooperazione militare con gli Stati Uniti, visto come la Cina sta affrontando la situazione, iniziando anche operazioni di law enforcement all’interno di territori non giuridicamente amministrati. Gli accordi più recenti con Washington prevedono un significativo aumento degli aiuti alla difesa, con l’obiettivo di modernizzare le forze armate filippine e garantire proprio la capacità di risposta alle cosiddette “tattiche della zona grigia” cinesi. Le tattiche della zona grigia, come l’uso delle milizie marittime e della guardia costiera cinese, rappresentano un’evoluzione sofisticata della coercizione marittima. Queste azioni, progettate per rimanere al di sotto della soglia di un conflitto armato, consentono a Pechino di esercitare pressione sugli altri Stati rivieraschi senza provocare direttamente un intervento militare internazionale.

Sebbene le Filippine preferiscano evitare un’escalation diretta, la recente dichiarazione dell’ammiraglio Samuel Paparo sull’esistenza di opzioni militari pronte sottolinea la determinazione di Washington a sostenere Manila in caso di necessità. Sostegno che intanto si concretizza nella creazione di interoperabilità attraverso esercitazioni congiunte come le “Balikatan” di aprile, che hanno coinvolto qualcosa come 16mila soldati americani e filippini, e hanno visto lo schieramento di tecnologie militari avanzate. Tra questi, i sistemi missilistici a medio raggio Typhon, capaci di lanciare missili da crociera Tomahawk e antibalistici SM-6: erano stati schierati dagli americani durante Balikatan e secondo recenti informazioni di stampa potrebbero essere oggetto di un nuovo ordinativo militare (che forse Manila intende offrire già come dimostrazione di reciprocità davanti alla possibile visione più transazionale che Donald Trump porterà alla Casa Bianca).

La Cina ha protestato davanti alla notizia, accusando gli Stati Uniti di essere portatori di una militarizzazione della regione, ma da parte sua continua a intensificare le operazioni di “difesa attiva” delle sue rivendicazioni, danneggiando e intimidendo le navi filippine. Un esempio lampante della crescente aggressività cinese è stato lo scontro al Sabina Shoal nell’agosto 2024, quando navi cinesi e filippine sono entrate in collisione, un episodio che ha segnato il primo confronto diretto in quell’area. A questo si aggiungono manovre intimidatorie, come l’utilizzo di cannoni ad acqua contro navi filippine nei pressi delle Spratly. Tali episodi non solo minano la sicurezza regionale ma aumentano il rischio di incidenti non intenzionali con potenziali conseguenze su scala più ampia.

Si tratta di operazioni di guerra guerreggiata, seppure a bassa intensità, perché spesso sono indirizzate a navi militari, finora gestite evitando escalation. La reazione di Manila è stata infatti duplice: da un lato, rafforzare il coordinamento diplomatico con partner regionali come il Vietnam, anch’esso vittima di pressioni cinesi e, dall’altro, sviluppare una narrazione trasparente per contrastare le “false narrazioni” diffuse da Pechino, coinvolgendo attivamente i media internazionali (spesso imbarcati per osservare direttamente le azioni cinesi).

In questo contesto, l’ASEAN gioca un ruolo di sponda potenziale, ma con ambiguità. Sebbene l’organizzazione promuova meccanismi multilaterali come il Codice di Condotta nel Mar Cinese Meridionale, i progressi sono spesso rallentati dalla necessità di raggiungere un consenso tra i membri, alcuni dei quali mantengono stretti legami economici cruciali con Pechino. Per le Filippine, la sfida è quindi duplice: da un lato, sostenere i negoziati ASEAN per una gestione collettiva delle dispute, e dall’altro, rafforzare partnership bilaterali con attori regionali e globali per consolidare la propria posizione nel teatro indo-pacifico. L’accordo provvisorio tra Cina e Filippine per il rifornimento delle truppe filippine nelle Spratly rappresenta un raro esempio di dialogo bilaterale, ma ha un impatto limitato. La Cina ha già cercato di reinterpretare i termini dell’intesa, sollevando ulteriori dubbi sulla sua volontà di negoziare in buona fede e sull’impossibilità di una de-escalation.

Il rafforzamento militare delle Filippine si inserisce infatti in un trend regionale più ampio. Paesi come il Vietnam e l’Indonesia hanno incrementato rapidamente la spesa militare negli ultimi anni, puntando su tecnologie avanzate e collaborazioni con partner internazionali. La postura sempre più assertiva della Cina, combinata con una crescente militarizzazione da parte di Manila e dei suoi alleati, crea un ambiente ad alto rischio di incidenti o conflitti non intenzionali. In questo contesto, il ruolo degli Stati Uniti appare cruciale. Con il loro impegno a difendere le Filippine nel quadro del trattato di mutua difesa del 1951, Washington potrebbe svolgere un ruolo di deterrenza fondamentale, ma al contempo rischia di intensificare ulteriormente le tensioni con Pechino. E inoltre resta l’incertezza di come Trump affronterà il dossier.

Guardando al futuro, le Filippine si trovano davanti a una duplice sfida: rafforzare la propria autonomia strategica attraverso una modernizzazione militare sostenibile e continuare a promuovere un ordine marittimo basato sulle regole, bilanciando cooperazione regionale e alleanze globali. In questo contesto, il ruolo dell’Unione Europea e dell’Italia potrebbe rivelarsi cruciale. Oltre a offrire supporto diplomatico, l’Europa può contribuire a promuovere iniziative di capacity building nella regione, come programmi di formazione marittima e trasferimento tecnologico. L’Italia, in particolare, potrebbe sfruttare il proprio know-how nella gestione marittima e nella diplomazia multilaterale per costruire un ponte tra l’ASEAN e l’Occidente.

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