Fuggire dall’Afghanistan
Dall’Afghanistan in guerra sono in fuga da decenni milioni di persone. La differenza tra profughi e migranti e il caso del paese centro-asiatico rispetto agli altri paesi della regione nell’analisi di Guido Bolaffi
Dall’Afghanistan, avrebbero detto i latini, surgit semper aliquid novi. Come ad esempio che in quel paese non ci sono più gli ebrei. Lo scorso agosto, infatti, anche Zablon Simintov, 62 anni, l’ultimo afghano di religione ebraica ancora rimasto in patria, ha deciso di scappare all’estero: “After our important festivals of Rosh Hashanah and Yom Kippur in September, - confessava ad Abubakar Siddique corrispondente di RFE/RL Radio Azadi - I will leave Afghanistan […] If you decided to leave then it is difficult to stay […] If the Taliban return they are going to push us out with a slap in the face”.
Ma quella di Simintov - commentava amaramente il giornalista concludendo il suo reportage - “is not the only one leaving his homeland, which in the mid-1990s boasted a 40.000-strong Jewish community. Afghanistan’s Hindu and Sikh minorities have also shrunk from more than 200.000 in the 1980s to just a few hundred families today”.
Dall’Afghanistan si scappa, non si emigra. Una distinzione che agli occhi di qualcuno potrebbe apparire pleonastica, ma non lo è, sicuramente per la stragrande maggioranza di coloro che a milioni hanno lasciato e tuttora lasciano questo infelice paese. L’emigrazione, per costoro, non è una scelta, ma un obbligo. Infatti andare all’estero per migliorare la propria condizione lavorativa è assai diverso dall’essere costretti a farlo con il fucile alla schiena.
La verità è che per tutti andare via dalla terra natia è dolorosamente difficile: ma una cosa è farlo per assicurare a sé stessi ed alla propria famiglia un’esistenza migliore rispetto a quella di partenza, altra per cercare di “salvare la pelle”. Come nell’emblematico caso di Zohra. Di cui ha narrato le vicende Guido Barbieri sul Manifesto dello scorso 17 novembre: “Zohra (nome dai mille significati: alba, fiore, aurora, bellezza, Venere, dea della musica) dal 15 agosto di quest’anno non c’è più, dissolta, volata via, dispersa ai quattro angoli del mondo. Zohra, l’orchestra composta solo da donne. Trenta musiciste tra i tredici e i vent’anni. Che quando le porte del loro istituto sono state sbarrate dai kalashnikov dei Talebani hanno provato, ma non tutte sono riuscite, a lasciare l’Afghanistan. Cercando rifugio all’estero. Alcune in Portogallo, altre a Doha: Negin Khpolwak, oggi appena ventenne, una delle due giovanissime direttrici dell’orchestra, probabilmente a New York”.
Non è da oggi, ma da decenni, che dall’Afghanistan si fugge. Come spiegava già nel lontano novembre del 2017 un rapporto stilato dal Migration Policy Institute di Washington, uno dei più accreditati think tank americani in tema di immigrazione, che a firma di Matthew Willner-Reid scriveva: “Few Countries in the world have witnessed the scale of population movements that Afghanistan has experienced […] Successive waves of conflict between rival internal and external powers and their proxies have made the country almost synonimous with insecurity and displacement […] Nearly 6 million Afghans - roughly two-fifths of the country’s population - fled to Iran or Pakistan from 1979 to 1989, and the number in each country has since fluctuated with each significant intensification or weakening of conflict, resulting in mass exodus followed by limited returns until 2001. Meanwhile, smaller numbers of Afghans have headed to the Gulf states, India, Turkey or Europe […] Only in January 2015, at the height of the Syrian crisis, did Afghans finally lose the status that they had held for 30 years as the world’s largest refugee population”.
L’espatrio dall’Afghanistan è dunque altro, eccezion fatta per alcuni limitati casi, dalla “normale” emigrazione economica. Tanto è vero che il numero dei fuoriusciti da questo paese risulta, rispetto alla sua popolazione, abnormemente superiore rispetto a quello di India, Pakistan e Bangladesh. Tre nazioni circonvicine che in fatto di emigrazione certo non scherzano. A dirlo sono i dati della Population Division 2020 dell’ONU. Secondo cui mentre la diaspora afghana è di circa 5,9 milioni rispetto ad una popolazione che non supera i 40 milioni, quella indiana (la più numerosa al mondo) è di 18 milioni rispetto a 1 miliardo e 400 milioni di abitanti; quella pakistana di 8,8 milioni rispetto a 227 milioni di abitanti; quella bengalese di 13 milioni rispetto ai 164 degli abitanti. Per di più, sottolinea un recente rapporto dell’UNHCR, gli afghani che vivono fuori dei confini patri sono generalmente assai più giovani di quelli originari delle nazioni del sud est asiatico circonvicine, perché hanno un’età media di 25 anni, che per tre quarti di quelli trasferitisi in Pakistan e in Iran è addirittura inferiore.
Prima di concludere, però, vale la pena richiamare l’attenzione anche su un altro aspetto per cui l’Afghanistan presenta una specifica, spiccata anomalia sull’emigrazione. A livello mondiale, infatti, le nazioni più povere nelle quali le donne hanno in media 4 o più figli a testa presentano tassi di emigrazione relativamente bassi. Comunque inferiori rispetto a quella dei paesi in via di sviluppo, dove la natalità ha raggiunto, per usare il linguaggio degli esperti, la soglia demografica di 3 figli. Una regola che però non vale per l’Afghanistan, che nonostante abbia un elevatissimo livello di natalità (di 5,3 figli per donna), occupa il nono posto nella classifica mondiale dei 10 paesi a più elevata emigrazione.