Gli Stati Uniti e l’Asia-Pacifico: quale futura architettura di sicurezza?
Con l’avvio della Presidenza Trump come potrebbero cambiare i rapporti tra Stati Uniti e alleati asiatici? Il punto di vista di Beatrice Arborio Mella

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, nel 2022, l’allora Primo Ministro giapponese Kishida Fumio commentò “Oggi l’Ucraina, domani l’Asia Orientale”, riferendosi al rischio che la Cina potesse invadere Taiwan e alla necessità di sostenere l’ordine internazionale fondato sulle regole del diritto.
Quella stessa frase potrebbe oggi assumere un significato diverso. Ove gli Stati Uniti rivisitassero i rapporti con l’Europa, anche i legami gli alleati asiatici subirebbero un’analoga riconsiderazione? Un’eventuale intesa con Putin sull’Ucraina potrebbe essere da molti in Asia interpretata come un segnale inquietante per il destino di decenni di partenariato USA con Taiwan, Giappone e Corea del Sud.
I legami tra l’amministrazione statunitense e gli alleati asiatici sono molto solidi. Ci sono circa 60.000 militari americani in Giappone e 30.000 in Corea del Sud; il Primo Ministro giapponese Shigeru Ishiba è stato ricevuto il mese scorso alla Casa Bianca e ha parlato di “età dell’oro” nelle relazioni tra gli Stati Uniti e il paese del Sol Levante. Lo stesso Presidente Trump si è espresso contro qualsiasi ipotesi di uso della forza per cambiare lo status quo nel Mare Cinese Meridionale. Tuttavia, la postura “transattiva” della diplomazia di Donald Trump è emersa con evidenza anche nella regione: in specie contro il surplus commerciale di Corea del Sud e Giappone e contro la posizione dominante nella manifattura di microprocessori a Taiwan. Ciò rende inquieti e apprensivi molti osservatori nei paesi che per decenni hanno fondato la loro sicurezza nel Pacifico su una chiara politica estera e militare filo-americana. Un eventuale disimpegno statunitense avrebbe costi molto alti per i suoi alleati asiatici: la spesa militare cumulativa dei paesi dell’Asia-Pacifico alleati per trattato con gli americani, cioè Australia, Giappone, Filippine, Thailandia e Corea del Sud (l’unica nazione nell’area a raggiungere una spesa militare superiore al 2% del PIL) è meno della metà di quella cinese, e nessuno dispone di un deterrente nucleare autonomo (tanto meno regionale). Solo in Corea del Sud (in specifico tra le forze politiche conservatrici) si è talora discusso di possibili opzioni per una strategia nucleare nazionale. I progetti per la difesa convenzionale esistente in questi paesi sono stati concepiti essenzialmente come subordinati a quelli americani. Non esiste ad oggi un’alleanza per la sicurezza asiatica autonoma dagli Stati Uniti, e per immaginare un “QUAD asiatico” – che potrebbe includere la Corea del Sud o l’Indonesia - occorrerebbero investimenti e alleanze politiche difficili da realizzare. “Difendersi da soli” comporterebbe un aumento della spesa militare di oltre il 3.5% del PIL, solo per allinearsi agli investimenti cinesi.
Più o meno nei giorni dell’incontro a Washington tra Trump e Zelensky, una flottiglia della Marina cinese, composta da una fregata, un incrociatore e una nave di rifornimento, è stata avvistata a circa 150 miglia nautiche (circa 280 chilometri) a est di Sydney, in acque internazionali[1]. Questa presenza ha mostrato la nuova capacità di Pechino di proiettare il proprio potere marittimo fino alla costa orientale australiana.
Di fronte all’eventualità di una visione statunitense arroccata sul principio dell’”America First”, in Asia potrebbe radicarsi il convincimento della necessità di trovare in via bilaterale un modus vivendi con Pechino. L’India ha da tempo sostenuto la “multipolarità” e ha nei mesi scorsi concluso un accordo sulle modalità di pattugliamento lungo la linea di controllo effettivo (LAC) in Ladakh tra India e Cina, passo importante verso la risoluzione delle gravi controversie sorte nel 2020. La portavoce del Ministero degli Esteri cinese nei giorni scorsi si è spinta a dichiarare che “I due paesi dovrebbero essere giustamente partner che contribuiscono al successo rispettivo. Un pas de deux cooperativo del drago e dell'elefante è l'unica scelta giusta per entrambe le parti[2]”. Ma se l’India ha per anni tessuto una tela di relazioni multipolari che le garantiscono, fino a un certo punto, la capacità di bilanciare interessi e spinte contrastanti, le scelte future di altre nazioni nell’Indo-Pacifico restano piene di incognite. La Thailandia a fine febbraio ha trasferito in Cina una quarantina di profughi Uiguri da oltre 10 anni detenuti nel paese, nonostante la condanna di numerose associazioni per i diritti umani e dello stesso Dipartimento di Stato USA. La giustificazione non ufficiale ma diffusamente accreditata è stata l’esigenza di non irritare Pechino.
Gli sviluppi delle relazioni tra il Presidente Trump e Xi Jinping si chiariranno nelle prossime settimane e mesi. Molti sono i fattori che le influenzeranno, tra cui l’approccio molto critico verso Pechino del Segretario di Stato Rubio e del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Waltz, ma anche gli interessi in Cina delle aziende tecnologiche americane. Resta da capire il peso che avranno tra tali fattori anche i decenni di alleanza USA con i partner dell’area.
[1] Commercial flights diverted as Chinese warships undertake apparent live-fire drill between Australia and New Zealand | Australia news | The Guardian
[2] 'Pas de Deux of Dragon and Elephant the Only Choice': China on Modi's Remarks About Bilateral Ties - The Wire