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I rapporti tra religione e politica nella Libia divisa

In Libia evolve la simbiosi tra politica e Islam radicale. Un connubio già temuto da Gheddafi – la cui quarantennale leadership aveva perseguito movimenti islamisti di ogni ordine e grado – e fattosi sempre più stretto negli anni successivi al collasso del regime. Questione lasciata spesso a margine dei negoziati internazionali e – tuttavia – tra le forze motrici sottese ai fragili equilibri libici.

In Libia evolve la simbiosi tra politica e Islam radicale. Un connubio già temuto da Gheddafi – la cui quarantennale leadership aveva perseguito movimenti islamisti di ogni ordine e grado – e fattosi sempre più stretto negli anni successivi al collasso del regime. Questione lasciata spesso a margine dei negoziati internazionali e – tuttavia – tra le forze motrici sottese ai fragili equilibri libici.

Un esempio tra i più recenti: a fine aprile, la Casa della Fatwa di Tripoli (Dar al-Ifta) si è apertamente schierata contro la presenza russa in Cirenaica. Attraverso un comunicato rilasciato a fine aprile, l’istituzione – che nei paesi musulmani ha funzioni consultive per la risoluzione delle ambiguità teologiche – ha denunciato l’arrivo di “armi e truppe russe” in Libia, incoraggiando i fedeli a supportare l’espulsione degli occupanti “e di coloro che li hanno portati”. Un chiaro riferimento al feldmaresciallo Khalifa Haftar, che con il supporto dei mercenari Wagner (e dei suoi emergenti succedanei), ha in mano la parte orientale del paese.

In questo quadro, la fatwa anti-russa marca, nella Libia divisa, un tentativo di rafforzamento dell’autorità religiosa. La posizione del Dar al-Ifta rispecchia l’alleanza tra il suo presidente, Abdul Sadiq al-Ghariani, e Abdul Hamid Dbeibah, premier del governo occidentale di Tripoli e rivale diretto del filorusso Haftar. Dbeibah sfrutta l’autorità morale di al-Ghariani – chierico di scuola malechita, nominato nel 2014 Gran Mufti di Libia – per puntellare la legittimità del proprio mandato, che entrambi i parlamenti del paese (l’Alto Consiglio a Tripoli e la Camera dei Rappresentanti a Tobruk) auspicano ceda il passo a un nuovo governo ad interim. Non a caso al-Ghariani (che un parlamento libico ancora unito aveva tentato di destituire a pochi mesi dalla nomina, accusandolo di fare un uso politico della carica di Mufti) si è più volte scagliato contro i negoziati in corso al Cairo tra le due camere, bollandoli come esempi di collusione politica.

Beneficio più immediato – e tangibile – è il supporto che Dbeibah trae dalle milizie vicine al chierico e ostili ai gruppi salafiti impiegati da Haftar in Cirenaica. Nucleo centrale delle forze del feldmaresciallo, questi ultimi afferiscono in larga parte al salafismo madkhalita, che enfatizza la lealtà dei fedeli all’autorità temporale. Teorizzata dal chierico saudita Rabīʿ al-Madkhalī con il supporto saudita, la corrente ha goduto in passato del supporto di Gheddafi, che a inizio millennio ne favorì la diffusione in Libia per ricondurre le formazioni salafite all’autorità statale. Ma il madkhalismo è parimenti considerato uno strumento di Riad, interessata ad arginare i fautori dell’”Islam politico” entro e oltre i patri confini. Obiettivo che, nell’ultimo decennio, si è inserito nel solco del contrasto tra Haftar – il cui programma di “legge e ordine” è stato sostenuto anche dall’Arabia Saudita durante l’ultima guerra civile – e le eterogenee formazioni islamiste di Tripoli, spesso genericamente ascritte alla Fratellanza musulmana e più affini all’attivismo radicale. Su questo sfondo, Al-Ghariani (di base a Istanbul) è anche acceso sostenitore della Turchia di Erdogan, tra le principali sinecure finanziarie e militari del governo Dbeibah.

Quello tra Dbeibah e Al-Ghariani è dunque un patto a mutuo vantaggio, che ha fatto del Dar al-Ifta tripolino il recipiente di massicci fondi pubblici e ha consolidato il controllo di al-Ghariani su scuole, università e istituti di formazione della capitale. Mezzi che il Mufti usa per contendere terreno anche ai gruppi madkhaliti affiliati a Tripoli e radicatisi nella capitale sotto il governo del predecessore di Dbeibah, Fayez al-Serraj. La milizia RADA, tra le più potenti di Tripoli e a maggioranza madkhalita, agisce ad esempio quale autonomo corpo di sicurezza e controlla vasti settori della città, dopo aver assunto un atteggiamento marcatamente neutrale durante l’attacco sferrato da Haftar nel 2019. Sullo sfondo del confronto Haftar-Dbeibah, il conflitto ideologico tra islamisti e madkhaliti (e in seno ai madkhaliti stessi) ruota attorno al ruolo dell’Islam nel plasmare il milieu politico post-Gheddafi.

Obiettivo, questo, perseguito sul doppio binario dell’influenza dottrinaria e del controllo dei gangli vitali dello Stato. Ne è esempio la rivalità tra i seguaci di Al-Ghariani e quelli di Mohamed al-Abbani, che il governo al-Serraj aveva posto a capo dell’Awqaf nazionale (con sede a Bengasi) per corteggiare i madkhaliti di est e ovest. Si tratta di una competizione squisitamente politica, perché l’istituto dell’Awqaf – che il Mufti ha più volte accusato di favorire le correnti madkhalite affiliate a Haftar – controlla l’assegnazione di prebende, sovvenzioni e donativi protetti dalla legge islamica e non soggetti a confisca statale. E simboleggiata in superficie dalla disputa sulla festa dell’Eid al-Fitr, che segna la fine del Ramadan e nel 2023 ha visto i due leader religiosi indicare due date differenti per il termine del digiuno rituale.

Per ora il risultato più evidente della faida è, su entrambi i versanti, l’ulteriore stretta sulla società civile. L’Agenzia di sicurezza interna dell’intelligence di Tripoli, controllata da esponenti di rango delle milizie cittadine, agisce spesso come braccio operativo dei contendenti e ai danni di attivisti, avversari politici e minoranze etnico-religiose (cristiani, sufi, componenti berbere di credo ibadita). Nell’estate 2023, inoltre, l’Awqaf di Bengasi ha creato un corpo di sicurezza alle proprie dirette dipendenze, incaricato di “preservare la virtù” del paese e accusato da alcune fonti di agire quale autonoma “polizia morale” dell’istituzione. Nel 2022, la corte d’appello di Misurata ha ufficializzato una condanna a morte per apostasia, mentre altri sei cittadini libici sono in attesa di giudizio per analoghi capi d’accusa.

Sotto questa luce, l’invocazione al jihad contro il nemico russo (corredata, per altro, da un invito a diffidare di USA, Europa o qualunque altra “potenza occupante”) riflette la crescente compenetrazione tra il potere del trono e quello dell’altare, che i recenti sviluppi minacciano di rinsaldare, su entrambi i versanti, a danno del dialogo politico. A dispetto della propria propaganda anti-estremista, Haftar troverà sempre più difficile prescindere dall’appoggio dell’elemento madkhalita, radicato anche nelle formazioni militari guidate dai figli – e potenziali successori – Saddam e Khaled. Mentre Dbeibah, di fronte a una pronunciata ostilità parlamentare, dipenderà sempre più dalle conflittuali lealtà al fronte pro-Ghariani e agli affiliati madkhaliti, la cui rivalità si è pericolosamente acuita. Sviluppi preoccupanti, sullo sfondo di una sempre fragile tregua armata.

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