Il fronte siriano è il rischio maggiore per Israele?
La presenza di formazioni eterogenee, con agende differenti e interessi da proteggere, potrebbe rendere la Siria il punto di escalation più rischioso. Il punto di Daniele Ruvinetti
Se il fronte libanese è ormai oggetto delle osservazioni mainstream perché si teme che Hezbollah possa essere coinvolto nell'allargamento del conflitto tra Israele e Hamas, quello siriano è altrettanto surriscaldato e potenzialmente oggetto di escalation, potenzialmente più violente. Dinamiche simili sono in atto: Israele ha con la Siria la contesa del Golan, ma soprattutto – dopo la guerra civile contro il regime assadista – la Siria è diventata una piattaforma militare per le milizie sciite coordinate dai Pasdaran. Le formazioni che compongono l'Asse della Resistenza con la più famosa Hezbollah e l'ormai nota per le atrocità del 7 ottobre Hamas, sono piazzate sul territorio siriano. Ricevono armi e coordinamento iraniano, hanno ottenuto un peso per aver salvato Bashar el Assad dalla rivoluzione – Assad che è ormai riqualificato a livello diplomatico regionale, e protetto da quelle milizie (tra esse c'è anche Hezbollah, senior partner iraniano nell'Asse, ma non solo).
Combattimenti sporadici e attacchi missilistici isolati hanno finora caratterizzato il fronte siriano, anche in modo meno intenso di quello libanese, ma si sta intensificando una "guerra ombra" più profonda. La Siria da anni è bersaglio di una campagna di attacchi aerei israeliani che mirano a disarticolare lo scambio di armi e assistenza varia che dall'Iran arriva a Damasco. Le missioni durano dal 2013 sotto un convincimento chiaro dell'intelligence israeliana: prima o poi quelle armi iraniane saranno usate contro lo stato ebraico. Altrettanto tipici sono gli attacchi contro alcune postazioni statunitensi nel territorio siriano, rimaste ancora attive da quando la Coalizione internazionale le usava per combattere lo Stato islamico – che aveva infestato col Califfato il Siraq. Alcune di queste milizie sciite – violente, jihadiste, fortemente ideologizzate e esistenzialmente nemiche di Israele e dell'Occidente – sono irachene, e negli anni sia sporadici raid israeliani, che attacchi contro le basi statunitensi, sono avvenuti anche in Iraq.
Nell'arco di questo mese di scontri, anche l'esercito statunitense ha condotto tre serie di attacchi aerei in Siria in risposta a provocazioni – leggasi attacchi missilistici e di droni armati – da parte di proxy legati all'Iran. Senza precedenti, Israele ha reso inutilizzabili, già per quattro volte, gli aeroporti internazionali di Damasco e di Aleppo, grazie a estesi raid aerei. Dall'attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre, gli aeroporti siriani sono stati sottoposti a vari round di bombardamenti, che hanno avuto un grave impatto sull'industria aeronautica del Paese con danni pesanti alle piste. Tutto avviene sotto l'occhio attento russo, che dal 2015 controlla i cieli siriani avendo strutturato – con l'intervento a difesa del rais Assad – il guscio A2/AD sul Paese. Mosca ha sempre concesso a Israele di operare liberamente, nonostante sia alleata iraniana, perché intende mantenere l'equilibrio con Gerusalemme (e forse perché non vuole che l'Iran ottenga spazio dominante nel Paese). Anche adesso le cose non sembrano cambiare, sebbene gli aerei israeliani (e saltuariamente quelli americani) si muovono anche con capacità stealth in grado di ingannare i radar russi e con tattiche di attacco a distanza, ossia senza entrare nello spazio aereo siriano.
Il fronte siriano comporta più rischi per Israele rispetto al Libano a causa del numero di proxy coinvolti. Come accennato, non c'è solo Hezbollah, ma un amalgama di forze duramente testate e abituate al combattimento da anni di guerra civile che si possono combinare per minacciare Israele. In Siria c'è la Wagner, o il suo nuovo modello post-Prigozhin, ci sono le milizie sciite irachene che sono iper-collegate con i Pasdaran, c'è la Liwa Fatemiyoun afghana e la Liwa Zainebiyoun pakistan (per anni carne da cannone usata dai Pasdaran nei contesti più rischiosi), ci sono i guerriglieri Basij e truppe regolari dei Pasdaran stessi. Infine, c'è ciò che resta delle forze armate siriane, in molti casi ricomposte con parti dei miliziani – e guidate da figure discutibili come Maher Assad, fratello di Bashar, membro del Comitato centrale baathista di Damasco e capo della Quarta Divisione Corazzata, esercito parallelo che ha la lotta a Israele nel suo statuto.
Le numerose complessità e i diversi schieramenti presenti in Siria potrebbero continuare a scaldare il fronte, aggiungendo un ulteriore livello di pericolo e di minaccia per Israele e per la presenza statunitense nel Paese, mentre la guerra a Gaza continua a infuriare. Ognuno ha i propri interessi. Prendendo di mira le forze statunitensi dispiegate in Siria (e Iraq), le milizie sostenute dall'Iran cercano di portare avanti gli obiettivi di Teheran di fare pressione sui leader americani affinché rimuovano le forze di terra statunitensi dai Paesi vicini ai confini dell'Iran. Il fatto che gli attacchi delle milizie siriane siano diretti contro le basi e il personale statunitense, piuttosto che contro Israele, indica non solo che le milizie potrebbero non avere la capacità di proiettare potenza in Israele, ma anche che cercano principalmente di portare avanti obiettivi anti-statunitensi piuttosto che sostenere direttamente il conflitto di Hamas.
Gli attacchi delle milizie dalla Siria potrebbero dunque avere uno scopo strategico – costringere gli Stati Uniti a ritirarsi dalla regione – con politica nettamente differente dal caos di Gaza. Il conflitto palestinese, e ancora di più la questione che riguarda il popolo palestinese, diventa nuovamente un mero proxy a sua volta, utile per la narrazione e per coprire desiderata di altro genere. In questo, l'equilibrio politico è solo parzialmente in mano a Bashar el Assad. Il presidente/rais ha un debito di sangue con l'Iran (e con la Russia, che potrebbe avere interesse a complicare e caoticizzare la situazione). Assad è costretto ad accettare certe dinamiche. Il suo tentativo di riqualificarsi pubblicamente – con la partecipazione a summit come quello della Lega Araba di Raid – non sembra abbinarsi a certe dinamiche guerresche. Ma è una necessità per i suoi protettori (attuali e passati): l'Iran, come ha affermato la stessa Guida suprema Ali Khamenei, non intende entrare direttamente in guerra, ma si vuole proteggere e per farlo ha la necessità di tenere vivi i suoi fronti. Se al Nord Hezbollah vuole altrettanto evitare coinvolgimenti diretti, la Siria diventa il punto caldo la cui intensità di scontro può essere sensibilizzata al bisogno. Il rischio, enorme, è che in questo gioco delicatissimo qualcosa sfugga di mano. Anche perché i singoli attori hanno agende parzialmente differenti, e sono composti da elementi spregiudicati disposti a tutto per proteggere i propri interessi.