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Il fronte tra Israele e Hezbollah si surriscalda?

Lo scontro a media intensità al confine libanese rischia di risentire delle evoluzioni in corso, ma i diversi interessi in gioco potrebbero mantenere intatto l’equilibrio. Il punto di Emanuele Rossi

Mentre si è entrati nel quarto mese di guerra a Gaza, i fronti attorno a Israele continuano ad essere caldi. L’equilibrio – mantenuto su un livello di intensità controllata di scambi di colpi al confine libanese e siriano, in Iraq e nel Mar Rosso – rischia di saltare in ogni momento, passando così da livello di crisi a quello di guerra aperta.

Il punto di contatto più delicato, dove il rischio di esplosione di un (altro) conflitto è più concreto, è quello libanese, perché il gruppo che controlla soprattutto l’area meridionale del paese – il partito/milizia Hezbollah – è tecnicamente ancora in guerra con Israele dal 2006 e si è attivato immediatamente dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, che ha aperto la stagione militare in corso. L’uccisione (probabilmente con una loitering munition israeliana) del numero due di Hamas, Salah al-Arouri, mentre si trovava in un ufficio del gruppo palestinese a Beirut, ha impennato le acredini, tanto che i libanesi sono tornati a colpire con maggiore profondità e consistenza il territorio di Israele, adoperando anche un missile guidato e non più solo razzi artigianali.

Israele ha risposto al fuoco come al solito. Tra i bersagli sono recentemente finiti anche due ufficiali del gruppo libanese, uno dei quali, Wissam al-Tawil, è il leader dell’unità di élite Radwan Force; l’altro, Ali Hussein Burji, era un comandante delle unità con responsabilità per i droni. Il messaggio da Israele è chiaro: accettiamo lo scambio di colpi, ma sappiamo ricostruire la catena di comando e colpire dove possibile.

L’area è di particolare interesse anche per l’Italia, dato che circa un migliaio di soldati che portano le insegne tricolori sulla divisa sono attivi sotto il comando di Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) – la missione di interposizione onusiana creata proprio per costruire una buffer zone tra Israele e Libano. Non a caso, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha avuto lunedì 15 gennaio una conversazione telefonica con il primo ministro libanese, Najib Mikati, per comprendere come Roma possa aiutare Beirut a gestire la situazione.

Si deve a questo anche la presenza nella capitale libanese di Amos Hochstein, coordinatore speciale del presidente degli Stati Uniti per la Sicurezza delle Infrastrutture globali e dell’Energia, che sta dialogando con gli attori interni al paese dei cedri (e in forma indiretta probabilmente anche con Hezbollah stessa) per evitare una deflagrazione. Hochstein è riuscito nel 2022 a mediare un accordo storico tra Israele e Libano per risolvere la lunga disputa sui confini marittimi. Prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, Hochstein aveva avuto colloqui preliminari con le parti su 13 punti di confine terrestre in disputa tra Israele e Libano, in particolare l’area delle Fattorie di Shebaa. Prima di quella data, Hezbollah – che in Libano è un attore centrale in termini di rappresentanza politica, influenza e presa sul potere – non era contrario alle intese.

Il contesto è profondamente cambiato, come in parte anche gli scenari. Gli equilibri e gli interessi potrebbero però restare fermi. Dopo la morte di al-Arouri, la guida spirituale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, aveva parlato in una cerimonia di commemorazione per Qassem Soleimani – generale iraniano a capo delle Quds Force delle Guardie della Rivoluzione, ucciso da un drone statunitense il 3 gennaio 2020 – promettendo che il crimine non sarebbe passato “impunito e senza risposta”. Tuttavia, la reazione del gruppo per ora è rimasta nel solco di quanto visto in queste dodici settimane.

Il controllo dell’escalation sul piano regionale sembrerebbe la prerogativa tattico-strategica di molti attori in questo momento, sia nel piano immediato degli scontri, sia per il mantenimento di presenze e influenze in futuro. Nessuno ha interesse a entrare in un conflitto totale contro Israele, ma allo stesso tempo dà valore (anche per narrazione e dunque consenso interno) mantenere un ingaggio costante a media intensità. Fin quanto questa situazione potrà essere controllata è un’incognita e dipenderà dalla capacità degli attori in scena di resistere alle sollecitazioni, interne ed esterne.

Hezbollah ha pubblicamente applaudito l’attacco di Hamas, ma i suoi leader, così come i funzionari israeliani, hanno dichiarato di voler evitare il ripetersi del conflitto del 2006. Tutto si è retto finora secondo un tacito accordo per limitare i combattimenti agli scambi vicino al confine – dove dal 7 ottobre, secondo l’esercito israeliano, Hezbollah ha lanciato 1.700 razzi, uccidendo 15 israeliani, tra cui nove membri delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), mentre quasi 160 persone in Libano sono state uccise dagli attacchi aerei e dai bombardamenti di rappresaglia israeliani.

L’organizzazione politica armata di Beirut è il principale proxy iraniano, leader di quell’Asse della Resistenza costruito come arma di influenza regionale da Teheran e messa al servizio della teocrazia, con l’ideologia sciita che deve fare da collante. Hezbollah ha dirette relazioni con il Corpo dei Guardiani della Rivoluzione iraniana (IRGC). E però, come altri gruppi (per esempio gli Houthi in Yemen) segue anche – o soprattutto in questo momento – un’agenda di priorità e interessi propri. E sulla base di quella agisce.

I leader libanesi – pressati da attori regionali che hanno un peso nelle dinamiche interne del paese dei cedri – hanno avvertito Hezbollah di non trascinare tutto il Libano – che si trova al quarto anno di una crisi economica paralizzante – in un’altra guerra distruttiva contro Israele. Molti leader libanesi concordano sulla necessità di costringere Hezbollah a rispettare i termini della Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che ha posto fine alla guerra Israele-Hezbollah del 2006, e che sottolinea che il governo di Beirut “esercita la sua piena sovranità in modo che non vi siano armi senza il consenso del governo libanese e nessuna autorità diversa da esso”. Si chiede inoltre che Hezbollah non dispieghi le sue forze a sud del fiume Litani, che si trova a circa 30 chilometri a nord della frontiera concordata tra Israele e Libano.

Difficilmente Hezbollah accetterà certe pressioni. Ma informalmente potrebbe continuare a gestire la situazione attuale, tra narrazione e interessi: “Sono gli israeliani che hanno paura di farci la guerra. Noi siamo sempre pronti”, ha detto Nasrallah nel suo terzo intervento in pochi giorni (evento non comune).

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