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Il Maghreb in prima fila per l’Agenzia africana dei medicinali – tra sovranismo continentale e rivalità interne

L’assegnazione della sede permanente dell’Agenzia africana dei medicinali rappresenta un ulteriore passaggio del confronto geostrategico tra Marocco, Algeria e Tunisia. L’analisi di Alessandro Giuli

La crisi globale provocata dalla pandemia di Covid-19 ha messo il Continente africano di fronte alla necessità urgente di dotarsi d’una struttura adeguata che sovrintenda ai collegamenti inter-statuali per livellarne il divario e riesca ad interfacciarsi con il resto del mondo. Di qui il progetto dell’Agenzia africana dei medicinali (AMA), ideato in realtà sin dal 2009 d’intesa con l’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) e divenuto oggetto di un accordo siglato da 28 Paesi membri dell’Unione nel novembre 2021. Posti gli obiettivi principali – predisporre un “controllo della salute” e metterlo al riparo dalla dipendenza straniera fino al punto di farsi produttori di vaccini a largo raggio e di strumenti diagnostico-terapeutici –, ora sta entrando nel vivo la parte più “divisiva” del dossier. Vale a dire l’assegnazione della sede permanente, che vede come principali pretendenti gli Stati maghrebini e le loro rispettive sfere d’influenza: Marocco, Algeria e Tunisia. Ma in lizza ci sono anche altri outsider. Non esiste ancora una data precisa per l’assegnazione definitiva, ma nel luglio prossimo, in occasione del Consiglio esecutivo che riunisce i ministri degli Esteri dell’Unione Africana, dovrebbe uscire la prima short list su cui effettuare la valutazione conclusiva. La cornice di riferimento ci restituisce attualmente l’immagine di un’ecumene in cui Sudafrica, Marocco, Egitto e Tunisia concentrano il 70 per cento delle produzioni medicinali, nel quadro di un fabbisogno complessivo che per l’80 per cento dipende dalle importazioni.

Rabat si è offerta per prima, incoraggiata dalla sua fiorente industria farmaceutica, fra le più importanti del Continente, con un giro d’affari miliardario sostenuto dalla produzione di oltre 400 milioni di dosi vaccinali (11-12 per cento delle quali esportate in Africa) e un laboratorio (Sothema) che ha lavorato in partnership con la Cina per la realizzazione mensile di 5 milioni di sieri Sinopharm con l’obiettivo di raggiungere una “autosufficienza vaccinale” e fornire aiuto anche agli altri Stati africani. Il 5 aprile scorso ad Addis-Abeba, nella sede etiope dell’UA, nel corso della ratifica ufficiale dell’accordo, il Marocco si è detto disponibile a sviluppare un partenariato “Sud-Sud” con il Centro Africano di controllo e prevenzione delle malattie (CDC) attraverso un piano infrastrutturale e di trasferimento tecnologico del quale dovrebbero beneficiare anzitutto le nazioni subsahariane. Per contro, la tradizionale e crescente rivalità con l’Algeria ha attivato una candidatura concorrente formalizzata dal ministro dell’Industria farmaceutica di Algeri, Abderrahmane Djamel Lotfi Benbahmed; e parallelamente si è mosso l’omologo tunisino Ali Maret. L’Algeria, fortemente radicata nel principio di una sovranità sanitaria continentale, oltre a un’Agenzia nazionale di un certo riguardo rivendica un primato scientifico e regolatorio riconosciuto dalle commissioni competenti rispetto – in ordine decrescente – a Tunisia, Marocco, Zimbabwe, Uganda, Tanzania ed Egitto. Da Palazzo Cartagine si è mosso anche il presidente Kaïs Saïed: Tunisi vanta “risorse umane e logistiche” adeguate alle aspettative dell’AMA.

Dietro a una sfida che alcuni media internazionali definiscono sin troppo enfaticamente come una “battaglia fratricida” si configura un evidente confronto geostrategico di portata transcontinentale. Sullo sfondo, campeggia l’obiettivo comune di “rafforzare la resilienza economica e le linee di rifornimento finanziario dell’Unione africana al di là della pandemia di Covid-19”, come ribadito il 13 e 14 giugno a Rabat, nella riunione dei 15 ministri delle Finanze dell’UA (F-15). Il titolo scelto per l’appuntamento riflette la necessità di stabilizzare i fondamentali dell’organizzazione nata nel 1963 per liberare il Continente dal giogo del colonialismo, dotata di un budget ancora largamente vincolato alle donazioni estere e che oggi vale appena il 2 per cento di quello di cui dispone l’Unione europea.

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