Il referendum costituzionale nella Tunisia “laica” di Saïed, fra tensioni sociali e negoziati con l’FMI
Entra nel vivo la campagna referendaria tunisina in vista del voto sul nuovo progetto di Costituzione. Il punto sulla situazione politica in Tunisia nell’analisi di Alessandro Giuli
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Entra nel vivo la campagna referendaria tunisina in vista del voto sul nuovo progetto di Costituzione fissato per il 25 luglio. La principale criticità, come prevedibile, sta nell’ambiguità insita in un testo che ricalca lo status quo innescato dal presidente Kaïs Saïed attraverso il congelamento delle prerogative del Parlamento stabilito esattamente un anno fa e poi culminato nel suo scioglimento nel marzo scorso. L’accusa principale mossa dai blocchi politici e sociali d’opposizione, a cominciare dal più importante sindacato (UGTT), è appunto quella di aver confezionato, senza un sufficiente e adeguato confronto preliminare, una cornice istituzionale sulle misure di Saïed, dotando tra l’altro il capo di Stato del diritto di nomina e revoca sia del premier sia dei suoi ministri. Per contro, la novità essenziale della nuova Carta sta nel fatto che, a differenza di quella risalente al 2014, non contiene alcun esplicito riferimento confessionale relativo all’Islam all’interno del patto fondativo d’una nazione prevalentemente arabo-musulmana (come già in Libano). Il giurista Saïed mette dunque entro parentesi il secondo assioma contenuto nell’articolo 1 della Costituzione del 1959, in base alla quale “La Tunisia è uno Stato libero, indipendente e sovrano. La sua religione è l’Islam, la sua lingua l’arabo e il suo sistema la Repubblica”; ma s’impegnerà – ha assicurato – a non recidere il legame con la “umma” coranica. Ciononostante, la svolta laica, all’interno del Paese “rivoluzionato” nel 2011 dagli islamisti di Ennahda, è destinata ad avere ripercussioni ancora insondabili nelle frange della popolazione ancora molto sensibili al monopolio organizzato della legge religiosa. Secondo il decano dei giuristi che ha presieduto la Commissione nazionale incaricata di modellare la Carta in questione, Sadok Belaïd, il testo non ha nulla a che vedere la proposta offerta a Palazzo Cartagine dopo un lungo lavoro: “Il progetto di Saïed mina il potere legislativo, accresce in modo demagogico i poteri presidenziali e sottomette il sistema giudiziario alla sua volontà”. Il che, ha ammonito Belaïd sul quotidiano Assabah, prefigura (o convalida di fatto, date le circostanze) il rischio di “un regime dittatoriale”. Saïed contrappone un discorso pubblico fortemente retorico ma non poi troppo impopolare, visto il livello d’instabilità e corruzione delle classi dirigenti nazionali sopraggiunte dopo la Rivoluzione del 2011: “Dobbiamo evitare il declino dello Stato, perché si realizzino gli obiettivi della rivoluzione e si metta fine alla miseria, al terrorismo, alla fame, all'ingiustizia e alla sofferenza”.
A tale riguardo, non è di secondaria importanza ricordare che la sfida referendaria avviene mentre la Tunisia, attraversata da ondate di scioperi generali, affronta un fondamentale round di negoziati con il Fondo monetario internazionale per arginare una crisi endemica aggravata dalle conseguenze del conflitto russo-ucraino. Il quadro macroeconomico restituisce l’immagine di un Paese afflitto da una disoccupazione crescente (16 per cento, che s’impenna fino al 42% nelle fasce giovanili) e da un’inflazione che tocca l’8 per cento. Lunedì scorso, una delegazione del FMI si è recata a Tunisi per una serie di colloqui che dureranno due settimane. In gioco c’è un programma di aiuti vincolati a una serie di riforme strutturali profonde finalizzate a “razionalizzare” il costo di una pubblica amministrazione che nelle sue svariate diramazioni pesa sul 16 per cento del Pil e rappresenta soltanto una minima parte d’un sistema carente di concorrenza, caratterizzato da sussidi pubblici su beni di prima necessità e dagli oligopoli delle imprese di Stato. A fronte d’un maxi-prestito da 4 miliardi di dollari, il programma di liberalizzazione del FMI si pone come obiettivo di ridurre drasticamente un debito che ha toccato il 100% del Pil nel 2022 e si accompagna a uno scostamento di bilancio da 6 miliardi di euro per il 2022. Nelle premesse, l’accordo garantirebbe finanziamenti bilaterali e renderebbe più solido l’accesso ai mercati finanziari internazionali. L’incognita sugli effetti di tale “cura” incombe minacciosa su una popolazione percorsa da insofferenze, pulsioni populistiche e focolai di revanchismo fanatista. Ma l’assenza di un’alternativa organizzata e credibile alla svolta politica di Saïed, a quanto pare, rende il suo ruolo ancora strategico sia in Patria sia nel quadrante maghrebino, dove peraltro l’Algeria ha appena deciso di riaprire le frontiere con la Tunisia (dal 15 luglio) a beneficio delle rispettive industrie del turismo.