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Il ritorno della Russia nel Corno d’Africa

Sulla scia dell’URSS, verso un nuovo slancio militare della Russia tra Mediterraneo e Mar Rosso. Il punto di vista di Claudia De Martino.

Alla vigilia della sua prima elezione (2000), Putin annunciò al mondo la sua intenzione di restaurare il prestigio della Russia, e ventidue anni dopo, al suo quarto mandato, Mosca sembra determinata a realizzare la propria vocazione neoimperialistica dove un tempo l’URSS possedeva basi aeree e navali andate perdute nel 1991.

Ad ottobre 2019 il vertice russo-africano di Sochi ha infatti marcato il ritorno della Russia sul continente africano. Nel Corno d’Africa, l’URSS possedeva tre basi navali nello Yemen del Sud (Aden), in Somalia (Berbera) e sull’isola di Nokra Island, allora (1974-87) etiope e oggi eritrea. Esse rappresentavano, insieme alle due basi navali nel Mediterraneo e nel Mar Nero – Tartus in Siria e Sebastopoli in Crimea, non a caso entrambe recentemente (nel 2013 e nel 2014) riacquisite da Mosca -, il fulcro della strategia aero-navale sovietica nel Mediterraneo allargato. L’obiettivo sembra, dunque, quello di ricreare un’importante infrastruttura navale che, per quanto ancora minoritaria rispetto a EAU, Turchia e USA, possa rilanciare la presenza russa lungo il Canale di Suez e lo stretto di Bab al Mandab, dove transitano circa il 30% del commercio mondiale, e dove USA, Francia, India, Giappone e Cina (dal 2016) già dispongono di basi navali (a Djibouti).

La gara tra potenze per il controllo delle principali “gole” del commercio mondiale ha registrato un salto di scala a seguito dell’ingresso della Cina nella competizione globale, con i suoi obiettivi di creare la più grande infrastruttura commerciale integrata al mondo (la BRI) e proporsi come il nuovo “poliziotto delle acque (internazionali)” con la sua ampia flotta d’alto mare (Blue Water Navy). Il rinnovato interesse per l’Africa è anch’esso una tendenza globale, con la Turchia che vi ha aperto più di 40 consolati, Israele che ha annunciato il suo “ritorno” sul continente, l’Arabia Saudita che ha acquistato terreni agricoli in Etiopia e Sudan, gli EAU che dispongono di due basi navali nel Corno d’Africa (anche se in parziale dismissione) e l’UE, intenzionata a rilanciare la sua partnership con l’Africa nell’ultimo summit del febbraio 2022. In questa gara, Mosca, che ha risorse economiche più ridotte di Pechino, USA e UE, vorrebbe comunque tornare a giocare una partita globale puntando sull’hard power, rinnovando con la tradizione sovietica di cooperazione militare con Paesi poveri, internazionalmente isolati od oggetto di sanzioni occidentali, con l’obiettivo di rendere la sopravvivenza di tali regimi dipendente dall’importazione di armi russe. Tale tattica fa parte di una più ampia strategia di graduale rimpiazzo geopolitico delle potenze occidentali ovunque esse perdano terreno e influenza: un avvicendamento favorito dalla crescente disaffezione di molti Paesi africani verso l’Occidente per la carente assistenza militare di fronte a minacce interne ed esterne in un’area in cui sei Paesi (Burkina Faso, Sudan, Ciad, Guinea, Guinea Bissau e Mali) sono stati interessati da colpi di stato solo negli ultimi 18 mesi. Infine, un distacco dall’Occidente alimentato dai media russi, tra cui Russia Today e Sputnik, che dipingono Mosca come l’alternativa, scevra di eredità coloniali, all’ordine liberale ed unipolare made in USA.

La Russia può contare su alcuni vantaggi strategici nella sua cooperazione col continente africano, ed in primis sulla crescente necessità dei regimi africani di procurarsi armi: un fabbisogno che essa copre già per il 49% delle forniture militari continentali (stime SIPRI), con Algeria, Egitto ed Angola tra i maggiori acquirenti, e oltre 20 accordi di cooperazione militare siglati con altrettanti Paesi del continente. Le armi russe sono considerate economiche e interoperabili con i vecchi armamenti di produzione sovietica di cui molti Paesi già dispongono dal tempo di Chruščëv (1955-1964) e della sua assistenza ai regimi socialisti dell’allora Terzo Mondo. Un secondo vantaggio è quello di facilitare l’acquisto delle sue armi attraverso l’eventuale annullamento dei debiti pregressi (20 miliardi di dollari nel solo 2019) in cambio di concessioni minerarie per lo sfruttamento di risorse naturali, opzione attraverso la quale grandi imprese come la Gazprom, la Rostec, la Lukoil, la Lobaye Invest Sarlu, hanno ottenuto vantaggiosi contratti pluriennali.

La rinnovata intesa con il continente africano passa per i due Paesi chiave del Maghreb, Egitto ed Algeria, a cui si è aggiunta il sostegno al generale Haftar in Libia, e con i Paesi dislocati lungo il Corno d’Africa, tra cui Eritrea e Sudan. Se in Egitto Mosca è impegnata a costruire la prima centrale nucleare, in Eritrea ha promesso la costruzione di un importante hub logistico nel porto di Assab. Tuttavia, è il Sudan, il Paese più vasto del continente, che Mosca ha identificato come la “chiave di volta” di penetrazione in Africa: non solo perché i legami con la Russia sono storici, ma perché da ottobre 2021, a seguito dell’ultimo colpo di stato militare, è in atto un progressivo recupero delle figure del deposto regime di al-Bashir. Figura emblematica di questo ritorno al passato è il Generale Dogalo, attuale vicepresidente del Consiglio di Sovranità delle forze armate, che ha recentemente compiuto una visita di Stato a Mosca (marzo 2022), a guerra ucraina in corso, per confermare il sostegno del suo Paese alla Russia attraverso la volontà di ospitare una base navale russa a Port Sudan e fornire a Mosca quantità ingenti di oro, alimentando le riserve auree della sua Banca centrale nell’attuale difficile congiuntura di sanzioni internazionali. La base navale di Port Sudan alleggerirebbe il carico merci verso il porto siriano di Tartus e faciliterebbe il compito delle fregate russe impegnate in missioni antipirateria nel Golfo di Aden, oltre a contenere le attività di Turchia e Qatar in Sudan.

Nel 2017 il regime islamista di Omar al-Bashir aveva dichiarato il Sudan la “porta dell’Africa per la Russia, concedendo al gruppo militare Wagner il compito di addestrare la polizia sudanese in cambio di concessioni per l’estrazione di oro da parte delle società M Invest e Meroe Gold, che fanno capo a Prigožin, un oligarca vicino a Putin, e firmando un accordo con la Rosatom per la costruzione di un impianto nucleare galleggiante. Se l’impianto non è stato mai realizzato, il gruppo Wagner si è impegnato a sostenere il regime al potere con ogni mezzo, tramite l’addestramento delle truppe sudanesi ad operazioni contro-insurrezionali, nonché la fornitura dell’80% del suo fabbisogno di armi. Dopo una breve parentesi di governo civile di Abdallah Hamdok, in cui sembrava che il Sudan intendesse riavvicinarsi ad USA ed UE, dall’ottobre 2021 la giunta militare ha ripreso le redini del Paese e riavviato stretti rapporti con Mosca.

Dal Sudan il gruppo Wagner -insieme a quello Sewa Security Services (SSS)- è poi passato nel 2017 nella Repubblica centroafricana, che ha accolto il suo aiuto per la riconquista dei circa due terzi del territorio nazionale occupati da gruppi guerriglieri ribelli e il cui intervento è risultato decisivo per evitare il rovesciamento del governo. Nel dicembre 2021 l’EUTM (European Union Training Mission), contrariata dalla linea politica pro-russa adottata dal governo, ha stabilito il ritiro della propria missione in polemica con la presenza sempre più diffusa di truppe Wagner nel Paese.

Dal 2015 la Russia è anche in Mozambico, alle prese con un’insurrezione islamista guidata dal gruppo al-Sunna wa al-Jama’a affiliato allo Stato islamico e attivo nella regione di Cabo Delgado, ricca di rubini e giacimenti di gas. I Russi non sono gli unici contractors nel Paese, ma, in cambio del loro aiuto, hanno ottenuto l’accesso a tutti i porti del Paese. In Mali, Paese povero di risorse naturali ma snodo fondamentale per il controllo dei traffici nel Sahel, la Russia avrebbe atteso la progressiva ritirata delle truppe francesi a febbraio 2022 per penetrare con circa 600-1000 agenti Wagner. Timbuktu ha siglato un contratto da 10 milioni di dollari al mese con la Wagner, ma non è chiaro come intenda far fronte a questo impegno economico, non potendo contare sullo scambio con lo sfruttamento di miniere, concentrate nel nord del Paese e controllate da gruppi armati locali contrari alla presenza russa. Nel caso del Mali si evince come la penetrazione russa in Africa segua un’agenda politica, più che economica, che non tiene conto della logica costi-benefici.

I Paesi africani accolgono positivamente l’influenza russa, che si presenta come un’ingerenza limitata al settore militare e un’agenda politica orientata al ristabilimento di un mondo multipolare in linea con il programma africano (Consenso Ezulwini, 2005) di riforma istituzionale del Consiglio di Sicurezza ONU. Molti leader africani vedono ancora nella Russia il campione della rivincita di un Terzo Mondo che fatica a trovare il proprio spazio nel nuovo ordine globale. Un’opinione condensata nelle parole del leader partitico sudafricano Malema: “I Russi non ci sostengono a parole, ma ci forniscono armi. La Russia ha finanziato la nostra battaglia contro l’apartheid” (SABC News, 21/3/2022). Mosca non ha i mezzi per ricostruire l’influenza sovietica in Africa, né può più contare sul soft power rappresentato dal collante dell’ideologia socialista, ma può sfruttare il risentimento per un Occidente distratto e ripiegato su sé stesso, ed un’UE ancora troppo concentrata sull’Africa esclusivamente come problema migratorio.

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