Il rompicapo dell’Indo-Pacifico
La competizione nell’Indo-Pacifico tra gli Stati Uniti e i loro alleati con la Cina si fa sempre più accesa. L’analisi di Guido Bolaffi
Contrastare l’espansionismo della Cina nell’Indo-Pacifico è più facile a dirsi che a farsi. Come, ad esempio, ha sperimentato a sue spese Scott Morrison ex Primo Ministro dell’Australia, il quale nelle elezioni dello scorso maggio ha perduto la premiership perché colpevole, a parere dei suoi concittadini, di essere stato preso in contropiede (off guard) dall’accordo di sicurezza siglato qualche settimana prima dalle Isole Salomone, da sempre sotto il protettorato del governo di Canberra, con la Cina.
Un accordo che, commentava Giorgio Cuscito nell’articolo di Limes intitolato La Cina strappa le isole Salomone agli Usa e all’Australia: “consente a Pechino di ampliare il proprio raggio di azione militare nel Pacifico. Inoltre rappresenta un passo avanti nel tentativo di ostacolare le rotte tra americani ed australiani”. Infatti, recita il testo dell’intesa: “the five-year pact allows Honiara to request Chinese police and armed forces to maintain social order, protect lives and property, and provide humanitarian assistance. China will also have the opportunity to make ship visits, carry out logistical replenishments, and have maritime stopovers and transitions across Solon Islands”.
Questa intesa, a guardare bene, oltre ai suoi contenuti presenta altri due aspetti a dir poco inquietanti.
Il primo rappresentato dal fatto che ad essere stato preso alla sprovvista dal patto delle Isole Salomone con la Cina sia stato il governo di uno dei quattro paesi fondatori del Quadrilateral Security Dialogue (QUAD): l’alleanza strategica informale tra Australia, Giappone, India e Stati Uniti nata proprio con l’obiettivo di contenere l’espansionismo di Pechino nell’Indo-Pacifico.
Il secondo è quello reso noto da Darshana M. Baruah, da anni impegnata come poche nello studio dell’Indo-Pacifico, nel paper pubblicato in vista dell’“Ocean Nations: An Indo-Pacific Island Dialogue” organizzato a New York il 18-19 settembre scorsi dalla Carnegie Foundation. Nel quale scriveva: “The arrival of Kurt Campbell, the U.S. Indo-Pacific coordinator, in Honiara after reports of the agreement reflects the deep discomfort within Washington. The United States considers the islands - and region - critical, but it has sidelined both for decades, and Campbell’s visit is a reflection of growing competition between Washington and Beijing as well as the impact of island agency on bigger powers across the region [...] Beijing has also been more present in the region in the last decades, from building a hospital in Papua New Guinea to dormitories for Solomon Islands National University to parks and roads across the region. In contrast, Antony Blinken’s visit to Fiji in February was the first in thirty-seven years from a U.S. Secretary of State, and the U.S. closed its Solomon Islands embassy in 1993 (although it now plans to reopen it). China has an embassy on the islands and has maintained regular senior officials visit across the region”.
Ritardi e difficoltà che lo stesso Kurt Campbell prendendo la parola sul tema dell’Indo-Pacifico nel corso del succitato meeting newyorkese ha cercato in qualche modo di stemperare, elencando le iniziative messe in atto negli ultimi anni dall’amministrazione Biden per migliorare, rispetto al passato, i rapporti degli USA con i governi delle isole che popolano le immense distese oceaniche dell’Indo-Pacifico. Culminate con “the first ever U.S.-Pacific Island Country Summit of September 28-29 [...] with an intimate and wonderful sustained dinner that the President host - a first of its kind - in the White House”.
Passi avanti necessari ma forse non sufficienti. Visto che lo stesso Campbell, quando il vice direttore della Carnegie Evan Feigenbaum gli ha fatto notare che “United States had not put out a specifically Indian Ocean strategy since something like 1971 or 1972”, ha onestamente ammesso il problema dicendo: “In many aspects, what happens in government is that there are certain lines of demarcation. And so sometimes one group of people that works on the Indian Ocean is different from the group of people that work on the Pacific Islands”. Come a dire: l’attenzione americana per il Pacifico è una cosa, quella per l’Indiano un’altra. Confermando, sia pur indirettamente, una significativa diversità di approccio al problema rispetto a quella anni addietro auspicata, in una delle prime riunioni del QUAD, dall’allora Primo Ministro giapponese Shinzo Abe: “The Indo-Pacific represents the confluence of two seas, a bridge in two of the world’s greatest oceans, the Indian and the Pacific”.
E potrebbe essere proprio questa visione “separata” dell’Indo dal Pacifico che preoccupa molte nazioni dell’area. In particolare l’India, come conferma un esperto di rango quale Ashley Townshend. Il quale, di ritorno da un lungo soggiorno di studio a Delhi, nel corso dei lavori del seminario “On Australia and India’s Convergence on the Indo-Pacific” organizzato dalla Carnegie-India, ha detto: “What really struck me is the Indian stance on US strategy and where the US sits in the Indo-Pacific. Just as there is concern in other parts of the region, in Australia, in Japan, in parts of Southeast Asia [...] There’s definitely a sense that the United States is distracted [...] more broadly in the sense of building out a more well-rounded Indo-Pacific strategy in the economic, diplomatic, and technological domains in Asia as well”.