Il ruolo iraniano in Iraq vent’anni dopo la caduta di Saddam Hussein
A vent’anni dalla caduta di Saddam Hussein, l’Iraq non trova ancora una propria stabilità, anche a causa della presenza di attori statuali e non-statuali che hanno influito sulle dinamiche politiche, economiche e di sicurezza del paese. L’analisi di Giorgia Perletta
Ricorre questo marzo il ventennale della caduta del regime baatista di Saddam Hussein e del successivo smantellamento del suo sistema politico-militare. Dopo due decenni, l’Iraq ancora fatica a trovare una propria stabilità, non solo a causa della frammentazione politico-identitaria interna, ma anche per la presenza di attori statuali e non-statuali che in questi anni hanno giocato un ruolo tutt’altro secondario nel plasmare le dinamiche politiche, economiche e di sicurezza del paese. Tra gli attori statuali esterni che maggiormente hanno influenzato l’Iraq nel corso di questo ventennio vi è sicuramente la Repubblica Islamica dell’Iran che, sfruttando l’iniziale vuoto di potere, è riuscita in poco tempo a proiettare la sua potenza nel paese vicino e interferire negli affari politico-militari iracheni. Con la caduta di Saddam Hussein, l’Iran ha visto venir meno uno dei suoi principali antagonisti regionali. Fin dalla nascita della repubblica iraniana nel 1979, l’Iraq ha costituito una minaccia “esistenziale” per Teheran, sia dal punto di vista ideologico che geopolitico. Saddam ambiva a imporre la guida irachena in Medio Oriente attraverso un discorso basato sul nazionalismo arabo e di stampo secolare. Dall’altra parte, a seguito della rivoluzione del 1979, Teheran offrì ai paesi della regione un modello essenzialmente speculare, quello dell’Islam politico promosso da un paese sciita e persiano. L’Iran aspirava a creare e guidare un nuovo ordine mondiale basato sui principi islamici, e lo faceva ricorrendo a slogan come quello di “esportare la rivoluzione”. Il fervore rivoluzionario iraniano fu visto come una minaccia per i paesi arabi della regione, soprattutto per quelli caratterizzati da ampie comunità sciite, come l’Iraq, dove gli sciiti costituiscono il 60% della popolazione. Saddam Hussein temeva che l’afflato rivoluzionario iraniano provocasse un effetto domino e persuadesse la sollevazione delle comunità sciite irachene. Durante la sua presidenza, infatti, le comunità sciite irachene e i suoi leader religiosi erano stati discriminati e perseguitati.
A questa competizione ideologica, si affiancò una sfida geopolitica di non minore importanza. Iran e Iraq si contesero per decenni il controllo sul fiume Shatt al-Arab (Arvand Rud), che definisce la linea confinaria tra i due stati moderni. Nel settembre del 1980, Saddam Hussein invase la regione sudoccidentale iraniana del Khuzestan per “combattere il nemico persiano”. L’obiettivo era quello di indebolire la neonata repubblica, impedire la sollevazione delle comunità sciite e ristabilire una linea confinaria maggiormente favorevole a Baghdad. Diversamente da quanto immaginato da Saddam Hussein, arabi iracheni e arabi iraniani non si unirono mai durante il conflitto, dimostrando la primazia del sentimento di identità nazionale su quello etnico-religioso, così come il forte legame con il proprio territorio di appartenenza. La guerra Iran-Iraq (1980-1988) fu il conflitto convenzionale più lungo dello scorso secolo e segnò profondamente le coscienze iraniane, tanto da diventare un forte collante identitario. Con la dipartita di Saddam Hussein e lo smantellamento del suo apparato burocratico-militare, si verificò un vuoto di potere che permise alla maggioranza sciita di conquistare il potere politico. L’emergere di questa nuova realtà politica si rivelò particolarmente favorevole a Teheran.
Al fine di neutralizzare possibili minacce e avere un governo “amico” a Baghdad, l’Iran ha iniziato a sostenere diversi partiti politici sciiti iracheni, soprattutto al Dawa e il Supremo Consiglio Islamico Iracheno, i cui principali esponenti erano rientrati in Iraq nel 2003 dopo l’esilio iraniano negli anni Ottanta. Furono proprio i partiti islamisti sciiti ad emergere come attori principali nell’Iraq post-Saddam. Dal 2005 al 2018, tre dei leader di al Dawa hanno ricoperto la carica di primo ministro. Oltre al sostegno diplomatico e politico dei gruppi sciiti iracheni, l’Iran si è altresì adoperato anche nel sostenere le relative ali militari attraverso il rifornimento, l’addestramento e la formazione di gruppi come la Brigata Badr, Kataib Hezbollah, Asaib Ahl al Haq, Kataib Imam Ali (raggruppati nel 2014 sotto la guida politica dell’Alleanza Fatha). Il sostegno iraniano è avvenuto attraverso le milizie Qods, una componente delle Guardie della Rivoluzione Islamica impegnata in missioni extraterritoriali. Le Qods Force, guidate dal celebre Generale Qassem Soleimani, hanno giocato un ruolo fondamentale nella lotta al sedicente Stato Islamico, affermando di conseguenza e in via definitiva l’ingerenza dell’Iran negli affari iracheni, ma rafforzando anche il legame tra Teheran e le milizie sciite irachene filo-iraniane. Nel 2014 e con l’obiettivo di combattere IS, nacquero le Forze di Mobilitazione Popolare (note con l’acronimo inglese PMU), una coalizione di milizie paramilitari sciite addestrate e finanziate da Teheran. Al termine dello scontro con IS, le PMU sono state integrate tra gli apparati di sicurezza iracheni e i suoi rappresentanti sono entrati in politica in occasione delle elezioni parlamentari del 2018. Questo a dimostrazione della crescente influenza iraniana anche all’interno dei circoli politici a Baghdad.
Durante questo ventennio, i due paesi hanno rafforzato i loro legami anche sotto il profilo economico. Nel 2013, l’Iraq era il terzo mercato di esportazione per merci iraniane dopo Cina e India. L’export iraniano (combustibili minerali, greggio, prodotti agricoli) ha registrato un aumento del 31,1% su base annua, passando da 30,5 milioni di dollari nel 1998 a 8,95 miliardi di dollari nel 2018, mentre le esportazioni irachene verso l’Iran (soprattutto macchinari, metalli e petrolio raffinato) sono cresciute da 30,3 milioni di dollari nel 1997 a 57,4 milioni di dollari nel 2018.
Proprio l’ingerenza iraniana è considerata tra le principali cause della corruzione di governo, delle lotte tra le varie fazioni politiche irachene, e di aver accentuato il divario esistente tra sunniti e sciiti, trascinando la loro dialettica verso scontri sempre più accentuati. Le elezioni parlamentari del 2021 hanno però affermato la disfatta del Fatah con la vittoria del partito nazionalista guidato dal religioso Muqtada al Sadr, che pur non è riuscito a formare un governo. In questa situazione di costante instabilità istituzionale si iscrive il malcontento popolare che accusa l’Iran di forte ingerenza negli affari iracheni. Nel 2019, infatti, sono scoppiate una serie di manifestazioni antigovernative che hanno messo a nudo lo scontento della popolazione irachena, sia per questioni sociali quali l’assenza di servizi, la disoccupazione, la corruzione, e l’inquinamento idrico, sia a causa dell’ingerenza straniera, tra cui quella della Repubblica islamica. Le milizie paramilitari vicine all’Iran sono intervenute per sedare le proteste con violenza, esacerbando ulteriormente il sentimento anti-iraniano.
In ultimo, Teheran ha cercato di conquistare i cuori della popolazione sciita irachena attraverso ampi finanziamenti alle associazioni caritatevoli e alle fondazioni religiose. Ha però dimenticato una lezione storica, quella che deriva dalla guerra degli anni Ottanta, commettendo lo stesso errore di valutazione di Saddam Hussein. Seppur accomunati dal culto sciita, gli iracheni guardano con sospetto il modello politico iraniano e soprattutto soffrono le ingerenze politiche e militari di Teheran, accusata di destabilizzare ulteriormente un paese che, vent’anni dopo Saddam Hussein, ancora si regge su delicati equilibri.