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Il viaggio di Putin nel Golfo. Gli archi di crisi e il ritorno diplomatico di Mosca

Il viaggio di Putin nel Golfo è servito al presidente russo come palcoscenico per un ritorno scenografico ai vertici della diplomazia internazionale. Il punto di Giorgio Cella

Il futuro del conflitto in Ucraina, il destino di Vladimir Putin e le evoluzioni del sistema internazionale (con al centro il nuovo conflitto a Gaza e il Medioriente) sono tre elementi che, come nel mirabile nodo borromeo, formano una concatenazione di elementi tra loro fortemente vincolati e intrecciati. In tale meccanismo, gli sviluppi di una di queste tre traiettorie possono provocare inaspettate ripercussioni sulle altre, creando effetti a catena e conseguenze difficilmente ponderabili. Una triangolazione di elementi che - sia presi singolarmente che ancor più nella loro concatenazione sinergica - influiscono in modo significativo sull’andamento degli affari internazionali correnti.

In una fase nella quale gli ucraini appaiono militarmente in un momento politico-mediatico e militare meno favorevole rispetto a quello di cui hanno goduto durante il primo anno e mezzo di resistenza all’offensiva russa, Vladimir Putin - nonostante le pesanti perdite in termini di soldati caduti al fronte e tutte le problematiche diplomatiche ed economiche incontrate dal 24 febbraio 2022 in poi - sembra esprimere segnali di ottimismo, a partire dall’annuncio di volersi ricandidare alle presidenziali dell’anno prossimo. Segnali di ottimismo dovuti in primis alla (per ora) riuscita difesa militare contro la controffensiva ucraina e al sostanziale mantenimento delle regioni sotto occupazione, a fronte di una controffensiva ucraina entrata in una fase di crisi, o quantomeno di stallo, come descritto anche da un recente articolo del Washington Post. Una lotta che si sta trasformando in una sfida di resilienza sul medio-lungo termine: qualcosa che il leader russo aveva evidentemente messo in conto sin dall’inizio, contando evidentemente sul favore del Dio Kronos. Un conflitto divenuto ormai un lungo braccio di ferro giocato sulla dimensione della resilienza, dicevamo, che passa da una continua ricerca di munizionamenti (dai missili agli obici, dai proiettili ai droni) sino alla disponibilità a sacrificare un numero sempre maggiore di soldati. Un Vladimir Putin che, nei suoi calcoli strategici di lungo periodo, nella convinzione di essersi assicurato i favori del Dio del tempo, attende ora il kairos, ossia quel momento opportuno, per giungere a una qualche conclusione per lui positiva del conflitto. Ma, attenzione, questa opzione non è senz’altro qualcosa di immediato né di certo: l’opzione di una guerra protratta a media intensità potrebbe infatti costituire una valida alternativa lungo gran parte del 2024, quantomeno sino ai due grandi eventi elettorali a Bruxelles e a Washington.

Fatte tali propedeutiche quanto significative premesse, è il caso di analizzare il recente viaggio di Vladimir Putin nel Golfo Persico, che si inserisce a pieno nel groviglio di questioni diplomatico-militari sin qui analizzate. Un evento che si ricollega al terzo anello di quella triangolazione diplomatico-geopolitica globale inizialmente delineata, ossia a quei mutamenti in corso degli assetti globali e a quei nuovi macro allineamenti in fieri in un contesto globale progressivamente più multipolare e frammentato. Un evento diplomatico attuato inoltre in barba al mandato di cattura internazionale spiccato dalla Corte Penale Internazionale nei confronti di Putin marzo scorso. Una visita in Medioriente con prima tappa negli Emirati Arabi Uniti dove Putin è stato accolto con tutti gli onori. Quegli stessi Emirati in questi giorni in grande spolvero internazionale in quanto Dubai è sede del vertice globale sul clima (COP28); quegli stessi Emirati che negli ultimi anni hanno costruito relazioni solide con il Cremlino, relazioni ora definite da Putin “a un livello senza precedenti”; quegli stessi Emirati che nei primi giorni di quel fatidico febbraio 2022 a invasione appena iniziata si astennero riguardo la risoluzione che deplorò l’offensiva russa. Si è parlato di varie questioni nel vertice di Dubai tra Putin e lo sceicco Sheikh Mohamed bin Zayed Al Nahyan, con un occhio sui vari archi di crisi ma soprattutto si è trattato di rapporti bilaterali economico-commerciali: dalla vendita di diamanti russi ora riorientati sulle rotte mediorientali fino alle questioni petrolifere legate ai prezzi del greggio, tenendo in considerazione che Mosca è altresì parte dell’OPEC+.

La tappa emiratina è però soprattutto servita al presidente russo come importante palcoscenico per un ritorno scenografico ai vertici della diplomazia internazionale, per di più fisicamente presente sullo stesso territorio in contemporanea ai leader mondiali ospiti del vertice COP28. A tutto ciò si aggiungano le naturali ambizioni diplomatiche russe nel volersi inserire in modo concreto nel nuovo contesto bellico tra Israele e Hamas, forte del ruolo che il Cremlino può ancora giocare nelle dinamiche regionali. Su tale questione si pensi ad esempio al controllo politico-militare sulla Siria e all’influenza su Teheran. Il tour diplomatico del leader russo è poi proseguito a Riad dal potente principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman, per poi rientrare a Mosca dove ad attenderlo c’era il presidente iraniano Raisi: due ulteriori eventi diplomatici che indicano come gli ingranaggi di quella diplomazia globale alternativa appaiano decisamente attivi. Due incontri diplomatici e due riflessi dei mutevoli equilibri globali sui quali torneremo a breve.

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