Incognita Tunisia
Lo scioglimento del parlamento tunisino potrebbe aprire una nuova crisi istituzionale nel paese nordafricano? Quali potrebbero essere le prossime scelte del Presidente Saïed? Il punto di vista di Alessandro Giuli
C’è da domandarsi se sulla Tunisia stia per abbattersi una tempesta perfetta, ovvero se il presidente Kaïs Saïed abbia una strategia (al momento bene occultata) per far fronte alle possibili conseguenze dello scioglimento dell’assemblea parlamentare che ha decretato il 30 marzo scorso. Con il Paese sospeso sul piano inclinato di una spaventosa crisi economica appesantita dagli effetti della guerra russo-ucraina sull’approvvigionamento dei beni di prima necessità, ma al tempo stesso sul limitare di incoraggianti accordi con le istituzioni internazionali per sbloccare alcune indispensabili linee di credito, Saïed ha scelto di arroccarsi e d’ingaggiare battaglia con un Parlamento che di fatto aveva già posto in stato di sonno costituzionale dal 25 luglio scorso, quando ne aveva sospeso le attività. E’ stata sufficiente una riunione (da remoto) di 120 eletti in dissenso con Palazzo Cartagine per provocare una reazione che potrebbe rimettere in questione il percorso di riforme in cambio del quale Tunisi accederà ai 400 milioni di dollari che la Banca mondiale si prepara a distillare in favore delle 900mila famiglie tunisine disagiate, colpite dagli effetti del Covid-19 e dalla montante inflazione; più i 4 miliardi di euro promessi dal Fondo monetario internazionale e altrettanti dall’Ue (di cui 200 milioni per colmare il deficit di bilancio e almeno 3 miliardi per un piano d’investimento lungo periodo nella transizione verso energie alternative), oltre a 300 milioni di euro già accantonati ai quali dovrebbero aggiungersi 55 milioni per lo sviluppo sostenibile, altri 150 per il bilancio e 20 per attutire la crisi alimentare. Sebbene il ministro delle Finanze, Sihem Namsia, abbia dichiarato che proseguirà comunque nei prossimi giorni il confronto con il FMI – comunemente definito “fruttuoso” – al momento numerose incognite politiche e sociali gravano sulla decisione presidenziale.
Un primo effetto è stato quello di ridare fiato all’opposizione islamista di Ennahda il cui leader ottantenne Rached Ghannouci, che presiede formalmente l’assemblea, è stato accusato dal ministro della Giustizia, Leila Jaffel, di “complotto contro la sicurezza dello Stato” poiché i suoi deputati hanno votato (lui assente) l’annullamento delle misure restrittive di Saïed. Per quanto flebile e lontana sia divenuta l’eco della Rivoluzione dei Gelsomini del 2011, a questo punto rischia di finire in una bolla di evanescenza anche la road map affidata a una commissione di esperti che avrebbe dovuto sfociare a luglio in un referendum sul nuovo modello costituzionale e preludere quindi a nuove elezioni in dicembre.
Di qui la domanda di partenza: quali carte potrebbe avere in serbo Kaïs Saïed? Al momento s’indovina più che altro un pervicace sostegno da parte del commissario europeo per l’Allargamento e la Politica di vicinato, l’ungherese Olivér Várhelyi, il quale procede in senso contrario alle minacce sanzionatorie declamate dal capo dell’eurodiplomazia Joseph Borrel. Ma c’è evidentemente di più. Alla sostanziale “lentezza” e bassa intensità delle proteste di piazza contro il presidente, fa da controparte positiva una rinnovata centralità tunisina sullo scacchiere internazionale. Già alla vigilia dell’invasione in Ucraina da parte di Putin, l’Europa sembrava aver preso le misure di una necessaria Realpolitik protesa alla ricostituzione di una nuova agenda per il Mediterraneo tale da contenere l’espansione dei paesi asiatici nel quadrante maghrebino; in modo particolare il crescente protagonismo sino-russo in Libia e nell’Africa subsahariana. Lungi dal questionare in materia di diritti civili, la Cina ha appena “esportato” a Tunisi un notevole piano di cooperazione per realizzare una rete di infrastrutture ferroviarie intestato alla China State Construction Engrg.Corp (CSCEC).
A ciò si aggiunge il dinamismo commerciale delle grandi democrazie asiatiche come la Corea del Sud e il Giappone. Seul è pronta ad aumentare le importazioni di olio d’oliva, vino e datteri nel quadro del neonato Partenariato economico globale varato il 1° gennaio scorso con l’ambizione di creare la più ampia zona di libero scambio al mondo sorretta da valute alternative al dollaro. Tokio punta a un ulteriore allargamento dei propri investimenti da concretizzare nella prossima Conferenza internazionale sullo Sviluppo dell’Africa prevista ad agosto nella capitale nipponica. Un approccio sfidante, insomma, che mette Bruxelles nelle condizioni di dover stabilizzare per quanto possibile gli interlocutori di un quadrante geo-strategico sempre più sensibile alla sfera d’influenza orientale. In assenza di un’alternativa nazionale credibile, è dunque questo l’atout principale che incoraggia le iniziative di Saïed?