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India-Cina. Passi positivi, ma non reset strategico

L’accordo sul confine segna un momento di contatto unico negli ultimi cinque anni, ma non è la risoluzione né delle diatribe per i territori contesi, né della più ampia competizione strategica tra India e Cina. L’analisi di Emanuele Rossi

L’incontro tra il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente cinese Xi Jinping, avvenuto durante il recente vertice BRICS, ha segnato un nuovo capitolo nelle relazioni tra India e Cina – quanto meno perché un incontro diretto tra i leader delle due potenze, rispettivamente seconda e terza economia del mondo, di cui sono i due paesi più popolosi, non avveniva da cinque anni. La notizia di un accordo di ripresa delle attività di pattugliamento lungo il confine conteso in Ladakh ha inoltre prodotto riflessioni sulla possibile stabilizzazione delle relazioni, spingendo a parlare di una distensione tra le due potenze asiatiche con la questione dei confini “risolta”, come scrive l’Economist. Tuttavia, sebbene questo sia uno sviluppo significativo, è necessario analizzare con attenzione quale sia il reale impatto dello stesso. E dunque, se questo che stiamo vedendo possa rappresentare davvero un cambio di rotta nelle relazioni indo-cinesi, o è piuttosto un gesto di scongelamento dei rapporti per evitare rischiose escalation.

Da alcuni mesi, segnali di un possibile accordo al confine sino-indiano erano emersi con maggiore solidità, con funzionari militari e diplomatici impegnati a discutere di possibili soluzioni al lungo stallo al confine – seguendo per altro un percorso di meeting iniziato dopo gli scontri del 2020, che già in passato aveva fatto pensare al raggiungimento di un’intesa. Tuttavia, la soluzione attuale difficilmente sarà definitiva, con possibili conseguenze più sul versante tattico che su quello strategico. Tant’è che il momento della apparente svolta non sembra casuale. Pechino affronta complicazioni economiche interne, legate sostanzialmente al blocco dei consumi, e pressioni strategiche crescenti, anche in vista delle incertezze legate alle elezioni negli Stati Uniti. New Delhi potrebbe aver colto una finestra di opportunità per evitare rischi di destabilizzazione sul confine, e per evitare di inasprire pubblicamente i rapporti con la Cina, mentre anche’essa si prepara alla nuova presidenza statunitense e procede con la propria riorganizzazione strategica (e dunque militare).

L’accordo di disengagement segna il ritorno delle comunicazioni di vario livello (fino agli incontri ministeriali, forse), comprese quelle military-to-military in merito al pattugliamento nel Ladakh, e rappresenta comunque un passo importante per “abbassare la temperatura” lungo la Linea di Controllo Effettivo (LAC). Il segretario degli Affari Esteri indiano, Vikram Misri, ha annunciato che India e Cina hanno raggiunto un’intesa per riprendere le attività sospese dal 2020 a seguito di un violento scontro, con diverse vittime, tra le forze dei due paesi (che non possono portare armi sulla LAC, ma avevano provveduto a scontrarsi con bastoni, sassi e mani nude).

Non si tratta di un ritorno allo status quo ante. Sebbene siano stati raggiunti nuovi termini per il pattugliamento e altre attività in punti come Depsang e Demchok (a ovest) o Yangtse (a est), il potenziale per future tensioni rimane alto. L’India mantiene una forte diffidenza verso la Cina, considerata violatrice degli accordi precedenti sul confine attraverso l’acquartieramento di nuove truppe. Sarà difficile smantellare l’infrastruttura militare creata, consequenzialmente agli ultimi scontri, da entrambi i paesi e ridurre in modo significativo – e non momentaneo – le truppe schierate lungo il confine negli ultimi quattro anni. Dunque, la domanda da porsi è: quelle truppe che sembra si stiano ritirando resteranno lontane dalle postazioni sensibili a lungo (o addirittura per sempre)? Anche perché sia indiani che cinesi vogliono garantirsi facile ri-acceso e logistica pronta all’uso se le cose dovessero nuovamente precipitare. Inoltre, vicende come il cambio di nome in cinese per una trentina di villaggi nel conteso Arunachal Pradesh, deciso da Pechino non troppi mesi fa, e il tit-for-tat indiano, sono più che indicative sulle volontà generali – spinte in varie occasioni dalla prima mossa del Partito/Stato.

Il pessimismo emerge chiaramente dalle distanze di interpretazione pubblica dell’accordo da parte dei due paesi. Nelle sue comunicazioni ufficiali, l’India ha sostenuto che la pace lungo il confine è un prerequisito per relazioni più ampie e cooperative. Al contrario, la Cina ha preferito un approccio più ampio, suggerendo che i disaccordi specifici (al confine per esempio) non dovrebbero ostacolare una cooperazione più ampia. Pechino menziona anche la disponibilità indiana a procedere su nuove intese di carattere economico-commerciale. New Delhi, al contrario, non ne fa menzione, e anzi sembra che l’India continuerà a tenere un punto di vista molto selettivo su cosa rendere possibile (come, quando, quanto) nelle relazioni business con la Cina. In sostanza, saranno possibili esenzioni, ma il quadro degli scambi e degli investimenti resterà comunque altamente attenzionato.

L’aspetto economico rappresenta un possibile punto di contatto e di comune vantaggio tra India e Cina, ma anche una questione controversa. Nonostante le tensioni politiche, i legami economici bilaterali sono rimasti solidi, con la Cina che ha recentemente superato gli Stati Uniti come primo partner commerciale dell’India. Tuttavia, il rallentamento degli investimenti diretti cinesi dal 2020 e le rigide restrizioni indiane sulle importazioni suggeriscono che New Delhi intenda rimanere cauta. In sostanza, la possibilità di un riavvicinamento economico sarà probabilmente limitata a settori meno sensibili o verrà realizzata attraverso collaborazioni vincolate a partnership locali. Resta poi da vedere se queste aperture saranno politicamente sostenibili.

In definitiva, è vero che l’accordo rappresenta un passo necessario per evitare nuove crisi, ma non indica un cambiamento strategico nelle priorità delle due nazioni. Anche al di là della disputa di confine in corso, ci sono infatti molte altre differenze, regionali e globali, tra India e Cina. E Pechino non sembra intenzionata ad adottare posizioni concilianti su tali differenze, che spesso alimentano le tensioni. L’India, a sua volta, continua a considerare la Cina come una “pacing challenge” strategica, mantenendo viva la diffidenza verso le intenzioni di Pechino. Il rafforzamento delle capacità difensive e l’espansione delle alleanze regionali e globali rimangono centrali nella politica estera indiana, la cui ricerca dell’autonomia strategica vede due elementi centrali nel contenimento cinese e nel proporsi come polo alternativo alla Cina nel sistema della governance multipolare globale che si sta costruendo.

In ultima analisi, l’accordo Modi-Xi non segna l’inizio di una “grande amicizia” tra India e Cina, ma piuttosto un tentativo pragmatico di evitare nuove crisi, mantenendo al contempo aperte possibilità di collaborazione selettiva e di competizione su una vasta serie di dimensioni e settori. Per entrambi i paesi, il futuro delle relazioni bilaterali dipenderà dalla capacità di evitare ulteriori scontri e di mantenere aperti canali di comunicazione, pur riconoscendo che il rapporto indo-cinese rimane complesso e intrinsecamente competitivo anche (o soprattutto) nel definirsi come polo di riferimento per il cosiddetto “Global South”.

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