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Indian Power: l’importanza crescente della comunità indiana in America

Cresce l’importanza della comunità indiana nel comparto economico, sociale e soprattutto politico americano. Il punto di Stefano Marroni

I segnali c’erano tutti, anche se in larga parte dei media americani l’attenzione per gli aspetti demografici che decideranno la sfida del 5 di novembre – concentrata come è sui margini esigui che coloreranno di rosso o di azzurro gli stati chiave per designare il vincitore – ha messo a fuoco soprattutto gli umori con cui neri, latinos e bianchi impoveriti andranno a un voto che non solo il crescendo di violenza delle ultime settimane annuncia come il più drammatico degli ultimi decenni. Ma giorno dopo giorno è il ruolo di un altro gruppo etnico a conquistare il centro della scena. Perché già ora – ormai a sole sette settimane dall’epilogo di USA 2024 – l’unica certezza che il voto riserva agli americani è che quella sera, per la prima volta nella storia del paese, sul palco dei vincitori ci sarà una donna di origini indiane: nel ruolo alternativamente di presidente degli Stati Uniti o di second lady, come negli Usa si definisce la moglie del vicepresidente. Cristallizzando nelle figure di Kamala Harris ed Usha Vance il ruolo di primo piano che gli ormai quasi cinque milioni di americani nati in India o figli di immigrati dal subcontinente hanno conquistato in pochi decenni prima nella società e nell’economia Usa, e ora nella politica. Scrivendo una storia di successo che è per molti versi un unicum della vicenda delle migrazioni verso gli Stati Uniti.

In qualche modo, e paradossalmente visto il ruolo di falco di JD Vance nel ticket repubblicano, è anche il profilo delle due donne a dare un senso unitario al cambiamento profondo che segnalano. Al di là dei venti anni di età che le separano, entrambe sono figlie della generazione di immigrati arrivati negli Usa a metà degli anni ’60, quando le ragioni dell’economia imposero agli Stati Uniti nelle politiche il criterio della qualificazione professionale su quello etnico, che aveva a fino ad allora favorito soprattutto l’arrivo dei nord europei.

Kamala, 59 anni, è la figlia maggiore di Donald J. Harris – un nero giamaicano – che a 86 anni è oggi professore emerito alla Stanford University: negli anni ‘70 dirigeva studi di economia che gli hanno guadagnato la fama di “marxista” e che Trump ha citato per accusare Kamala di aver “imparato bene la lezione”. Sua madre Shyamala Gopalan – figlia di due impiegati del Tamil Nadu, lo stato nel sud dell’India famoso per le sue palme di cocco – arrivò invece a 19 anni da Madras a Berkeley con una borsa di studio che le aprì le porte di una carriera importante nella ricerca biomedica.

I genitori di Usha Vance – selezionata per una Gates Fellowship a Cambridge prima di far parte alla Corte Suprema del team del Chief Justice John G. Roberts e poi del super conservatore Brett M. Kavanaugh – arrivarono invece negli Usa con un background accademico già definito: ingegnere meccanico il padre Krish Chiukurili, laureato al prestigioso Indian Institute of Technology, e biologa sua madre Lakshmi, oggi preside di uno dei college della Ucsd a San Diego. A casa, oltre che in inglese, i Chiukurili hanno sempre parlato in telogu, una delle 22 lingue riconosciute dalla costituzione indiana e la più diffusa nel sud del paese.

Anche politicamente Kamala e Usha – che è induista praticante – hanno respirato lo stesso clima. Come Kamala, Usha è cresciuta in California ma si è laureata in legge a Yale, e quando conobbe JD Vance – l’hillybilly boy del Kentucky schierato allora con i “never Trump” del Gop a cui ha dato tre figli – era ancora una democratica registrata come i suoi genitori: suo padre fu tra i 2300 accademici americani che nel 2017 scrissero al tycoon per chiedergli di non denunciare gli accordi di Parigi sul clima. Oggi, inevitabilmente, la possibile SLOTUS (l’acronimo per “second lady of the United States”) è schierata con i repubblicani. Anche se alla convention di Milwaukee – la sua prima apparizione pubblica – ai media americani non è sfuggita la distanza tra il suo quiet look e lo stile strillato e il trucco pesante delle donne trumpiane. O che nella sua presentazione del marito si sia curiosamente guardata dal citare Donald Trump. Quanto a Vance (“Che ha imparato a cucinare indiano per amore di mia madre”, ha confidato lei), gli è toccato prendere con cautela le distanze dalle battute razziste della nuova favorita di Trump, la cospirazionista Laura Loomer, che prima di lanciare le fake news sugli haitiani che “mangiano gatti e cani” aveva detto - alludendo alle radici indiane di Harris, ma inevitabilmente anche di Usha – che con lei presidente “la Casa Bianca puzzerà di curry”, e a gestire i servizi “sarà uno dei loro soliti call center”.

Del resto, se appare certo che la candidatura di Kamala Harris rafforzerà il sostegno che da sempre la maggioranza degli indiani americani ha garantito ai democratici, da tempo la crescente forza politica della comunità non si esercita più come un monolite. Hanno solide radici indiane due degli ex sfidanti di Trump nelle primarie repubblicane, l’imprenditore multimilionario Vivek Ramaswamy e soprattutto Nikky Haley, l’ex governatrice della North Carolina che ha più lungo tenuto testa all’ex presidente con il sostegno dell’ala mainstream del Gop, nata sikh ma oggi protestante. Ed è repubblicano Bobby Jindal, l’ex congressman che nel già nel 2007, in Louisiana, fu il primo indiano eletto governatore.

In un decennio, il numero dei membri indiani della House of Representative è passato da uno a cinque, e quelli eletti a livello statale da meno di dieci a quasi cinquanta. E tra di loro – anche se sono democratici tutti i membri attuali del Congresso di origine indiana – a spostare in qualche modo gli equilibri nella comunità comincia ad essere anche l’assonanza politica e personale tra Trump e il premier indiano Narendra Modi, accolto trionfalmente nel 2019 alla Casa Bianca e enfaticamente sostenuto nella sua crociata contro i musulmani.

Pesa molto, naturalmente, anche la trasformazione della comunità indiana americana dal punto di vista della educazione e del reddito, che oggi è il più alto tra i gruppi etnici degli Stati Uniti. Passati gli anni duri della prima immigrazione novecentesca di manodopera agricola a basso costo – e quelli in cui anche i turisti italiani hanno scoperto lo stereotipo dell’indiano negli Usa nei turbanti esibiti dai tassisti sikh di New York – negli ultimi trent’anni è esploso il numero degli studenti che sono arrivati negli Usa per migliorare il loro background universitario e che poi si sono definitivamente trapiantati.

Tra il 2000 e il 2010, i nuovi arrivi sono aumentati del 70 per cento, e tra loro moltissimi sono i giovani che le imprese e le università arruolano direttamente nelle facoltà indiane: moltissimi medici e ancor di più le teste d’uovo (oltretutto perfettamente fluenti in inglese) allevate nei maggiori bacini tecnologici del paese, come Bangalore, Chennai, Pune, Mumbai, Hyderabad. Anche se si stima che negli Usa ci siano poco più di 700 mila immigrati clandestini di nazionalità indiana, il 70 per cento dei nuovi arrivati ha almeno un diploma di scuola superiore e il 40 è laureato: e tra di loro ci sono alcuni dei nomi più importanti dell’economia e del mondo academico americano, tra cui ben cinque premi Nobel, il preside di Harvard College Rakesh Kurana e una star del giornalismo tv come Fareed Zakaria.

Tra i manager di primissima fascia, sono indian americans Ajay Banga, presidente e Ceo di Mastercard, Dev Praga, che ha lo stesso ruolo a Newsweek, Satya Nadella, ad di Microsoft, Shantanu Naraye di Adobe, Arvin Krishna, Ceo di Ibm e Sundar Pichai, che è alla testa di Google e Alphabet. Ma tra loro ci sono anche Rajeev Suri, di Nokia, e ancora Vasant Narasimhan, CEO di Novartis, Vinod Khosa, cofondatore di Sun Microsystems, o Laxman Narasimhan, CEO di Starbucks.

Anche se ci sono anche alcuni di loro tra i venture capitalist della Silicon Valley che dopo aver riccamente sostenuto Obama e poi Biden hanno iniziato a raccogliere fondi per il Gop in polemica con le politiche restrittive dell’amministrazione nei confronti dell’high tech, il sostegno a Kamala Harris rimane prevalente. Ed abilmente l’ex procuratore generale della California ha rispolverato un legame profondo anche se non ostentato, che ha fatto dire ironicamente a Trump “sapevo fosse nera, solo adesso scopro che è indiana”: giocando sui ricordi dei suoi viaggi da piccola a Chennai, e sulla citazione della madre sul senso dello stare al mondo (“Mica penserai di essere caduta da una palma? “) che fa parte ormai del bagaglio della comunicazione democratica in rete. “In un certo senso Kamala ci normalizza, è la rappresentazione visibile del ruolo della comunità nella vita pubblica”, spiega Shoba Viswanathan, di Indiaspora. Ma soprattutto, dal punto di vista della politica internazionale, il suo arrivo alla Casa Bianca “potrebbe far molto per spazzare via i reciproci sospetti con New Delhi che hanno da tempo condizionato una relazione di cui l’America ha un bisogno strategico nell’Indopacifico”, ragiona Gautan Mukunda, alle spalle anni di lavoro all’Harvard Kennedy Center for Public Leadership: anche se non sarà facile – ragionano gli osservatori – ricucire le ferite aperte con Modi dalle critiche della Casa Bianca alla fine del regime di autonomia speciale del Kashmir. Una scelta che abilmente Trump si è ben guardato dal condannare.

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