Approfondimenti

Iran e Stati Uniti: segnali di diplomazia sotto pressione strategica

Ci sono variabili che potrebbero far saltare il tavolo negoziale tra Washington e Teheran, ma da entrambi i lati escono feedback positivi sul percorso diplomatico in corso. Il punto di Emanuele Rossi

Mentre si avvicina il secondo round dei colloqui tra Iran e Stati Uniti, il principale dei risultati ottenuti è l’innesco di una serie di incontri – per ora bilaterali – che fa pensare a ciò che accadeva un decennio fa, quando si finalizzava il Joint Comprehensive Plan of Action, più noto come Jcpoa, o semplicemente: accordo per il controllo del programma nucleare iraniano. Quell’intesa dal 2018 esiste di fatto solo sulla carta, ossia da quando Donald Trump, nel suo primo mandato, aveva deciso di ritirare unilateralmente gli Stati Uniti dal sistema “5+1” che componeva l’accordo. Trump non ha mai creduto nel Jcpoa anche perché era un successo diplomatico di Barack Obama, presidente democratico iper-criticato dall’elettorato trumpiano. Il repubblicano – che definì il Jcpoa “il peggior accordo di tutti i tempi” – ha sempre detto che con l’Iran avrebbe voluto negoziare qualcosa di diverso, e forse di più ampio. Per farlo, secondo la sua ottica transazionale della politica estera, aveva rialzato tutta la panoplia sanzionatoria secondo la cosiddetta “massima pressione”, la quale avrebbe dovuto portare Teheran a piegarsi, accettando il negoziato con gli Usa. Ma così non è stato, anche perché l’Iran ha sfruttato innanzitutto la sponda strategica di Cina e Russia, e poi la riapertura dei canali di dialogo con il Golfo. Per questo, anche l’amministrazione Biden, pur partita con buoni propositi, non era riuscita a riavviare un processo di dialogo o — una volta viste saltare le opportunità e mantenuta di fatto la massima pressione attiva — a portare l’Iran a piegarsi.

Stavolta potrebbe succedere qualcosa di diverso? Non è chiaro, perché c’è ancora un clima di sfiducia reciproca. Gli iraniani temono che gli statunitensi si sfilino di nuovo da qualsiasi genere di intesa, ma Trump sembra disposto a mettere sul tavolo il sollevamento di alcune importanti sanzioni — dunque prova forme di rassicurazione. Trump, minaccia “sarà molto brutto per loro”, perchè “se dovessimo fare qualcosa di molto duro lo faremo”, ma al tempo stesso può stupire con concessioni.

Sorge però un’altra domanda: gli apparati saranno disposti ad accettare questa linea negoziale? Qui ruota il grande dibattito interno alla situation room: cosa possiamo e cosa non possiamo concedere? Gli americani credono che debbano essere discussi anche altri elementi oltre a una denuclearizzazione, che tra l’altro non si sa quanto l’Iran sia disposto ad accettare — c’è per esempio il grande tema delle influenze malevole regionali, che con il programma missilistico rappresentano i cosiddetti “aspetti collaterali”.

A giudicare dalle parole del ministro degli Esteri iraniano, in un op-ed sul Washington Post che ha anticipato la riapertura dei colloqui, è forse in corso un processo di reciproca comprensione (oppure un bluff). Preparando il terreno per l’incontro, Abbas Araghchi ha proposto un'idea interessante e nuova, mai avanzata in precedenza dall'Iran, che sembra ora interessato a dimostrarsi aperto agli affari con gli Usa: "Molti a Washington dipingono l’Iran come un paese chiuso dal punto di vista economico. La verità è che siamo aperti ad accogliere imprese da tutto il mondo. Sono le amministrazioni statunitensi e gli ostacoli del Congresso, non l’Iran, ad aver tenuto le imprese americane lontane dall'opportunità da mille miliardi di dollari che l'accesso alla nostra economia rappresenta”.

Tradotto: se vogliamo parlare in termini transazionali, ecco cosa la Repubblica islamica può offrire agli Stati Uniti. A questo punto ne va aggiunto anche uno implicitamente conseguente che riguarda gli equilibri regionali, che un accordo sul nucleare Usa-Iran potrebbe innescare. Perché in questo caso non è tanto il dettame diretto dell’intesa che conta, ma il clima che essa potrebbe innescare. In quest’ottica, l’incontro tra delegazioni a Muscat, mediato dagli espertissimi diplomatici omaniti (che saranno presenti anche nei successivi talks), rappresenta dunque non solo un nuovo tentativo di riattivare il canale negoziale, ma anche quello di arrivare a un risultato che possa soddisfare tutti. Per l’amministrazione Trump, l’obiettivo è incassare qualcosa da raccontare come un grande successo agli elettori (solitamente disinteressati a certe dinamiche) e un risultato che accontenti i partner – con quelli della regione del Golfo più inclini alla de-escalation (viste le normalizzazioni dei rapporti con Teheran), portando Israele ad accettare certe evoluzioni (nonostante Tel Aviv voglia una linea ben più dura).

Il nodo centrale resta chiaramente il programma nucleare iraniano. L’amministrazione Trump – forte qui del sostegno esplicito di Israele – sostiene che l'Iran dovrebbe smettere di arricchire l’uranio al livello del 20% e al livello quasi di grado di armi del 60%, ma non ha escluso che gli iraniani sarebbero in grado di continuare ad arricchire l’uranio al livello del 3,67% necessario per un programma di energia nucleare civile. Tuttavia, nella sostanza, la posizione americana a Muscat è apparsa meno rigida rispetto al passato. Si parla infatti di un possibile accordo transitorio, forse ispirato al meccanismo “freeze-for-freeze”: sospensione dell’espansione nucleare da parte iraniana in cambio di un congelamento dell’intensificazione delle sanzioni. Questo schema, già ipotizzato in altri momenti di stallo, permetterebbe di guadagnare tempo e creare uno spazio negoziale senza forzare soluzioni immediate. Ma Trump avrà intenzione di investire quel tempo? Il quadro che emerge è quello di una diplomazia “coatta”, spinta da dinamiche di forza a media-bassa intensità sul terreno, ma anche da un interesse condiviso a contenere il livello ed evitare un’escalation, spostando l’attenzione sul tavolo diplomatico.

In questo scenario, la figura dell’inviato speciale americano – il rappresentante Steven Witkoff – assume un ruolo strategico. Proveniente da recenti missioni in Russia e coinvolto nei dossier più caldi del Medio Oriente, Witkoff incarna quella diplomazia americana pragmatica, multilivello, che punta a tenere insieme pressioni e aperture. Il tono più misurato, meno privo di sovrastrutture ideologiche e con competenze più da businessman che da diplomatico esperto di relazioni internazionali, è sembrato adatto a questa fase dei colloqui, contribuendo a disinnescare la tensione iniziale e facilitare un primo passo costruttivo.

Va anche tenuto conto del contesto regionale, che offre segnali di cambiamento: Hezbollah e Hamas sono stati colpiti duramente dagli attacchi israeliani, gli Houthi in Yemen sono all’attacco ma anche attaccati, lo scenario siriano non è favorevole (avendo portato al potere i nemici dell’Iran). Questo generale indebolimento potrebbe indurre Teheran a valutare margini di manovra più flessibili, soprattutto in vista di un possibile alleggerimento delle pressioni economiche.

L’aspetto più critico del negoziato in sé è infatti rappresentato dal tema delle sanzioni, la cui gestione può segnare il risultato – sia in termini di successo e insuccesso, sia di rapidità. Superata un’eventuale fase ibrida, l’Iran richiede un pacchetto di sollievi economici più ampio di quanto concesso nel 2015 col Jcpoa, ritenendo che solo una reale apertura possa rilanciare la propria economia profondamente in crisi. La delicatezza dei punti riguarda il fatto che su questo Trump è politicamente esposto: qualsiasi concessione potrebbe essere letta come una sconfessione del suo ritiro dal Jcpoa. L’equilibrio tra fermezza retorica e disponibilità tattica sarà quindi determinante per l’obiettivo strategico. Sul lato iraniano, ottenere successi di ordine economico potrebbe invece essere una via per rendere maggiormente accettabile il negoziato agli hardliners – almeno secondo un’ottica pragmatica.

Resta infine una variabile che sfugge al controllo diretto dei negoziatori: l’atteggiamento di Israele. L’insistenza di Tel Aviv sulla necessità di impedire ad ogni costo l’acquisizione di capacità nucleari da parte dell’Iran lascia aperta l’opzione di un attacco preventivo, anche in assenza di una luce verde americana? L’eventuale rottura del dialogo, o la percezione israeliana di un accordo troppo debole, potrebbero accelerare una dinamica militare difficile da contenere? Da aggiungere: al Jcpoa partecipavano le cinque potenze che detengono un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e dunque includeva anche Russia e Cina: quale sarà la linea di Mosca e Pechino? Avranno interesse a seguire (anche se informalmente) l’iniziativa statunitense, oppure riterranno la complicazione dei negoziati un’opportunità da sfruttare per togliere concentrazione ed energia agli Usa su dossier più sensibili per Russia e Cina, come Ucraina e Indo-Pacifico?

Approfondimenti

Dazi e mercati. Le scelte di Trump

La svolta dei dazi e le reazioni dei mercati e della politica americana. Il punto di vista di Stefano Marroni

Leggi l'approfondimento
Approfondimenti

Il piano della Russia per il Corno d’Africa

Mosca approfitta del disgelo con gli USA e del caos imperante tra dazi e guerre per estendere la sua influenza nel Corno d’Africa. Il punto di Luciano Pollichieni

Leggi l'approfondimento
Notizie

Ingrandimenti: il report mensile di Med-Or

Online il report mensile di Med-Or Ingrandimenti per il mese di Aprile

Leggi la notizia