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Iran: le elezioni presidenziali e la vittoria di Pezeshkian

Dopo il risultato delle elezioni presidenziali in Iran, Med-Or ha rivolto alcune domande a cinque esperti di politica internazionale e Medio Oriente sulle possibili conseguenze sul piano interno e internazionale dei risultati del voto.

A seguito dell’incidente in elicottero del 19 maggio 2024, in cui sono morti il presidente, Ebrahim Raisi, e il ministro degli Esteri, Hossein Amir-Abdollahian, in Iran sono state indette le elezioni presidenziali, svoltesi lo scorso il 28 giugno. Dopo che nessuno dei 6 candidati principali è riuscito ad ottenere la maggioranza dei voti, come previsto dalla Costituzione, si è proceduto ad un secondo turno elettorale che si è tenuto il 5 luglio.

Il ballottaggio tra i due esponenti più votati ha sancito la vittoria del candidato riformista Massoud Pezeshkian, con circa il 55% delle preferenze contro il 45% del contendente conservatore, Saeed Jalili. Seppur con una partecipazione maggiore rispetto al 28 giugno (39%), anche al secondo turno la maggioranza degli aventi diritto non si è recata alle urne, segnando uno dei livelli di affluenza più bassi dalla rivoluzione del 1979: 49% secondo i dati ufficiali.

Durante la campagna elettorale, Pezeshkian ha sottolineato i rischi della politica repressiva del regime, soprattutto nei confronti di donne e giovani, e ha ribadito il suo impegno per risollevare l’economia. In politica estera, seppur con moderazione, è stata espressa la volontà di migliorare le relazioni con i vicini e di adottare un approccio più dialogante con l’Occidente.

A prima vista, questo approccio sembrerebbe antitetico rispetto alla presidenza Raisi e alle precedenti gestioni di Rouhani e Ahmadinejad. L’elezione del primo presidente riformista dal 1997 – anno in cui fu eletto Khatami, con il quale proprio Pezeshkian è stato ministro della Sanità – ha infatti suscitato alte aspettative sul futuro della Repubblica Islamica. Tuttavia, rimangono degli interrogativi sull’effettiva possibilità di implementazione del programma elettorale da parte del presidente e sulla concreta volontà degli altri elementi cardine dello stato di adeguarsi al cambiamento, anche sul fronte della politica estera.

Data l’importanza che l’Iran riveste nel contesto mediorientale, alla luce anche dei conflitti in corso e delle complesse relazioni con molti paesi vicini e con le potenze internazionali, abbiamo rivolto qualche domanda ad alcuni esperti italiani, cercando di raccogliere le loro valutazioni sul futuro del paese e, in particolare, sulle potenziali conseguenze, interne ed estere, che con l’elezione di un candidato riformista potrebbero verificarsi. Anche alla luce del delicato momento che la Repubblica Islamica sta attraversando e della situazione politica interna, visto che le elezioni si sono svolte dopo i mesi di tensioni e proteste represse violentemente e nel quadro di una situazione economica di crisi, cui il paese è soggetto da tempo.

Partendo da queste riflessioni e dai possibili effetti dei risultati elettorali, abbiamo rivolto le nostre domande a Riccardo Redaelli, professore ordinario di Geopolitica e di Storia e Istituzioni dell’Asia presso l’Università Cattolica del S. Cuore di Milano e direttore del Centro di Ricerche sul Sistema Sud e il Mediterraneo Allargato (CRiSSMA) del medesimo Ateneo; Arturo Varvelli, direttore dell’Ufficio di Roma dello European Council on Foreign Relations (ECFR); Alessia Melcangi, professoressa associata di Storia contemporanea del Nord Africa e del Medio Oriente presso La Sapienza Università; Germano Dottori, membro del Consiglio di Amministrazione di Med-Or e Anna Maria Cossiga, vicedirettrice dell’Unità Analisi di Med-Or.

Alle ultime elezioni presidenziali in Iran ha vinto il candidato riformista, Massoud Pezeshkian. Questo risultato può rappresentare un punto di svolta per la Repubblica Islamica rispetto alla precedente traiettoria tracciata dall’esecutivo di Raisi?

Riccardo Redaelli: “La risposta è no se si pensa che il nuovo presidente possa modificare profondamente le scelte strategiche della Repubblica Islamica dell’Iran (RII): egli non ha né i poteri effettivi né la volontà né il necessario sostegno interno per attuare una politica radicalmente diversa in tema di proiezione geopolitica regionale, negoziati nucleari, assetti interni del sistema di potere (il famoso Nizam). Tuttavia, i poteri del presidente per quanto limitati non sono nulli, ma dipendono da una continua e complessa negoziazione/bilanciamento con i poteri non elettivi. Se in campo di proiezione della cosiddetta ‘difesa avanzata’, gestione dei proxy etc non avrà molti margini – come già il più celebre presidente riformista Mohammad Khatami (1997-2005) – potrà cercare di dare nuovi indirizzi in tema di gestione della disastrata economia iraniana e soprattutto nei controlli circa la moralità dei cittadini, che sono uno degli aspetti peggio sopportati dalla popolazione, perché umiliano i cittadini (e soprattutto i giovani) nella loro vita quotidiana. Il fatto che il regime non sia intervenuto con una massiccia manipolazione dei risultati elettorali del ballottaggio (come fatto nel 2009) dimostra che vi è una comprensione – almeno di parte del Nizam – che sia necessario ridurre la stolida, ottusa applicazione delle regole religiose attuata dal pessimo presidente precedente, Raisi. A meno di cambiamenti radicali, il presidente finirà per essere – come già Khatami prima di lui – più il rappresentante dell’opposizione moderata ai conservatori radicali che il vero decisore politico”.

Arturo Varvelli: “È possibile che alcune cose cambino e che si avvii soprattutto sul piano interno, una nuova fase politica con maggiori aperture sociali e diverse scelte economiche. Tuttavia, non bisogna sopravvalutare la figura del presidente che comunque deve sottostare alle regole di un paese autocratico nelle quali le leve del potere sono più nelle strutture legate alla Guida Suprema che al Presidente. Sul piano internazionale, l’Iran continuerà a percepire un senso di accerchiamento da parte delle altre potenze regionali e internazionali, che probabilmente verrà accresciuto dalla possibile vittoria elettorale di Trump negli Stati Uniti. Teheran continuerà a supportare una rete di alleanze regionali, composta da attori statali e non statali, che è stata definita Asse della resistenza, il cui scopo è difendere gli interessi iraniani. La relazione della Repubblica Islamica con questi proxy actors sarà una delle prime evidenze da osservare per comprendere se a livello internazionale qualcosa cambierà. Ma le variabili sono troppo numerose per fare attualmente previsioni”.


Alessia Melcangi: “E’ difficile dire se l’elezione di un riformista dopo diversi anni possa realmente tracciare una traiettoria diversa rispetto a quella del precedente esecutivo Raisi essenzialmente per due ragioni: le posizioni e iniziative dei riformisti, dalla fine del governo Khatami (1997-2005), sono state a lungo screditate e emarginate da un sistema sempre più controllato dai pasdaran e dalle forze più conservatrici che hanno costantemente accusato i moderati di essere stati troppo deboli con l’Occidente. Sebbene le istanze popolari, anche a seguito delle numerose proteste degli ultimi mesi, siano chiaramente a favore di un ritorno al riformismo, sembra improbabile ipotizzare un futuro deciso cambiamento di rotta. La seconda ragione è relativa al ruolo stesso svolto del presidente della Repubblica d’Iran che, per Costituzione, ha poteri limitati dalla presenza delle cariche non elettive a legittimazione religiosa (il Rahbar), in particolar modo in alcuni ambiti, come la politica estera, ma anche dal Parlamento che può bloccare l’azione del governo sfiduciandone i ministri. In ragione di ciò è ancora più complesso immaginare un vero cambio nella politica interna per il nuovo governo Pezeshkian.

Germano Dottori: “È ovviamente prematuro ipotizzare una svolta, ma il significato di questo risultato può difficilmente essere sottovalutato. Sono almeno due i motivi a renderlo rilevante: il primo è che i vertici del regime hanno compreso che in assenza di un candidato esterno al blocco più conservatore la partecipazione al voto sarebbe stata estremamente bassa, rendendo ancora più evidente lo scollamento tra autorità e popolo apertosi dopo la lunga rivolta delle donne. Il secondo è che gli elettori più pragmatici hanno approfittato dell’opportunità loro offerta per veicolare in modo concreto l’idea della necessità di un cambiamento. Al secondo turno, hanno votato molti più aventi diritto e l’affluenza ha svolto un ruolo importante nel determinare la vittoria del candidato riformista. Va sottolineato ancora una volta che il problema fondamentale in Iran è una crisi di legittimità delle istituzioni islamiche che non nasce dal difetto di pluralismo politico, ma dall’imposizione della norma religiosa, che obbliga i giovani a non vivere in modo libero la propria affettività, negando loro un diritto al quale sono naturalmente molto sensibili. Un dato per tutti: la repubblica nata con il chador vanta oggi una delle più performanti chirurgie estetiche del pianeta, alla quale donne e uomini ricorrono massicciamente come si trattasse di uno status symbol: un fenomeno poco noto, che certamente stupirebbe Khomeini se fosse ancora vivo. Pezeshkian ha promesso maggior tolleranza, ma è tutto da verificare che possa superare la concezione che fa del velo e della sobrietà dei costumi un pilastro morale delle istituzioni islamiche”.

Anna Maria Cossiga: “L’elezione di Pezeshkian come presidente della Repubblica islamica d’Iran segna il ritorno dei riformisti alla più alta carica elettiva del paese per la prima volta dal 2005. Tuttavia, è necessario uscire dalla visione puramente occidentale del concetto di “riformismo”, distinguendolo da quello di matrice iraniana e non cadendo nell’errore di pensare che siano possibili dei cambiamenti radicali. Lo stesso Pezeshkian in passato aveva difeso l’utilizzo dello Chador, il velo integrale iraniano, e non dobbiamo dimenticarci che la selezione dei candidati è sempre espressione dell’establishment. Inoltre, il nuovo presidente ha poteri limitati sulle questioni strategiche – essendo responsabile dell’attuazione delle ampie linee guida politiche stabilite dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei”.

Restando per un momento ancora sulla situazione interna del paese, abbiamo inoltre chiesto a Riccardo Redaelli quali sono stati i principali temi e le problematiche di politica interna che hanno dominato la campagna elettorale e Come hanno influenzato il risultato delle elezioni.

Questa campagna elettorale è stata particolarmente breve e caratterizzata dall’impossibilità di criticare il predecessore, dato che la sua improvvisa scomparsa ne aveva fatto uno shahid della RII. Inoltre, molti argomenti – come i proxy regionali, il nucleare, le scelte più strategiche del regime – sono tabù e non possono essere affrontati esplicitamente. In realtà a molti, l’approvazione quale candidato di Massoud Pezeshkian da parte del Consiglio dei Guardiani, dentro e fuori l’Iran, era sembrato solo uno specchietto per allodole. Per convincere qualche cittadino in più a partecipare al rito delle elezioni presidenziali in una Repubblica islamica piegata da anni di brutale repressione delle proteste popolari e da una crisi economica frutto degli avventurismi geopolitici e della corruzione del regime. L’idea prevalente era che il sistema di potere sempre più repressivo l’avesse accettato come candidato perché preoccupato di un’astensione di massa che minava la retorica della partecipazione popolare, vista quale un elemento di legittimazione formale di un regime odiato dalla grande maggioranza degli iraniani. Pezeshkian non è un trascinatore di folle, né carismatico come poteva esserlo Khatami. Nelle precedenti competizioni aveva ottenuto risultati modesti. Tuttavia, ha giocato bene le sue carte, evidenziando gli eccessi della repressione “morale” nei confronti dei cittadini, in particolare di donne e giovani. Ha insistito molto sulle conseguenze di questa rigidità sulla vita quotidiana degli iraniani; ha ovviamente sottolineato i problemi della corrottissima e inefficiente economia e ha rilanciato la politica del “suo presidente” Khatami della mano tesa verso l’estero, in particolare verso i paesi arabi e le monarchie del Golfo, ma anche verso l’Occidente (sia pure in modo prudente)”.

Entrando poi nello specifico di alcune questioni che il risultato elettorale solleva in particolare per quanto riguarda anche il ruolo dell’Iran nel complesso mosaico geopolitico del Medio Oriente, abbiamo allargato la prospettiva delle nostre domande con i nostri interlocutori, entrando con loro nel merito di alcuni singoli temi aperti. Per questo, proprio allargando lo sguardo agli scenari internazionali, abbiamo chiesto ad Anna Maria Cossiga come con il passaggio del governo nelle mani dei riformisti, può cambiare la postura iraniana a Gaza e, soprattutto, in Libano?

Sul fronte esterno il nuovo governo, seppur portatore di istanze moderate, dovrebbe porsi in continuità con il precedente, garantendo, quindi, il supporto sia alla causa palestinese sia ai principali proxy nella regione: da Hamas a Hezbollah, il sostegno a due tra i principali membri de “l’Asse della Resistenza” dovrebbe rimanere invariato. Anche alla luce dei poteri limitati di cui gode il nuovo presidente, non sembra imminente un cambio di strategia e un’apertura verso una possibile de-escalation nel breve periodo da parte di Teheran. È opportuno sottolineare, tuttavia, che un eventuale allentamento delle tensioni potrebbe provenire da un fattore esogeno rispetto al conflitto stesso, come ad esempio le elezioni presidenziali americane di novembre 2024”.

Mentre invece abbiamo chiesto a Alessia Melcangi se con il passaggio del governo nelle mani dei riformisti potrebbero verificarsi dei cambiamenti nella strategia di Difesa Avanzata dell’Iran e, in particolare, nel rapporto con i proxy de “l’Asse della Resistenza” “La gestione della strategia di Difesa Avanzata, basata sul finanziamento e addestramento di forze proxy è affidata ai pasdaran, che rappresentano i gruppi più conservatori e antioccidentali. Tale assetto in politica estera è stato ultimamene testato con la guerra di Gaza che ha, inoltre, rafforzato i legami tra Teheran e i proxy in funzione antisraeliana e antioccidentale, così come avvenuto in Iraq, Siria e Yemen durante gli ultimi due decenni. Anche in questo ambito il Presidente Pezeshkian avrà poco margine di manovra, condizione che, invece, potrebbe mutare, a livello di diplomazia internazionale, come già annunciato dal nuovo Presidente che si è detto disposto a rilanciare il dialogo con l’Occidente, in continuo peggioramento dalla fine della Presidenza Rouhani”.

Guardando all’area del golfo, come potrebbero variare i rapporti di Teheran con le monarchie del Golfo? Il Prof Redaelli risponde che “È un’illusione molto occidentale l’immaginare che un presidente riformista moderato possa migliorare significativamente i rapporti con Arabia Saudita (KSA) e le altre monarchie del Golfo ostili a Teheran. Perché il riavvicinamento con EAU e KSA è stata una scelta pragmatica, dettata dalla necessità di ridurre le tensioni (e di far smettere il lancio di missili su KSA da parte degli Houthi), che non riduce il mistrust e le divergenze fondamentali. Quindi a principi e emiri arabi del Golfo poco importa che vi sia un presidente che tende la mano e parla in modo conciliante. A loro interessa un compromesso con i veri poteri profondi del deep state; e si sa bene, lungo la sponda araba del Golfo, che Pezeshkian non avrà molti margini di manovra con i pasdaran o con le scelte strategiche di proiezione avanzata regionale”.

Altra questione su cui potrebbero porsi degli interrogativi è la questione dell’accordo sul nucleare iraniano. A questo proposito abbiamo chiesto a Germano Dottori se con il nuovo esecutivo di matrice riformista, si può pensare ad un rilancio del JCPOA. Più in dettaglio, anche alla luce delle elezioni americane di novembre, e come potrebbero variare i rapporti tra Teheran e Washington. “È molto verosimile che il nuovo presidente cercherà di propiziare in qualche modo l’avvio di un nuovo processo negoziale. Altro è invece affermare che possa riuscirci. Per rilanciare l’economia servirebbe in effetti ottenere un ammorbidimento delle sanzioni. Quindi è ragionevole ipotizzare che Pezeshkian esplorerà la possibilità di riportare in vita il JCPOA, affondato nel 2018 da Trump, o almeno di sostituirlo con un’intesa differente. È ovvio che un’eventuale trattativa sarebbe però particolarmente impervia: perché un Trump rieletto ed intenzionato a consolidare la propria reputazione di deal maker la vorrebbe certamente più stringente, verificabile e duratura di quella silurata sei anni fa, mentre a Teheran avvertono l’esigenza opposta di non legarsi troppo le mani. Probabilmente, Pezeshkian godrà di più larghi margini d’iniziativa sul piano interno che su quello internazionale. La situazione potrebbe cambiare se al neoeletto presidente riuscisse di innescare, dopo la recente prova di forza, un processo di distensione con Israele: al momento, però, un’ipotesi purtroppo remota, anche perché sulla linea del dialogo con la cosiddetta “entità sionista” dovrebbero spostarsi attori importanti del regime che invece prosperano sulla logica della contrapposizione e dell’alimentazione dell’instabilità regionale”.

Allo stesso quesito Arturo Varvelli ci ha risposto che “Credo che l’Iran continuerà in ogni caso a guardare alla Cina e alla Russia come potenze amiche ma il nuovo presidente potrebbe cercare di conservare e rafforzare le aperture fatte verso i paesi arabi del Golfo e trovare un modus vivendi con Israele. Spero di sbagliarmi, ma non credo che JCPOA sia una opzione sul tavolo. Fa parte di un progetto politico ormai troppo distante. Credo invece che l’equilibrio nella regione sarà basato su deterrenza e dissuasione come si è notato nello scambio militare limitato tra Israele e Iran di qualche mese fa. Un equilibrio fragile che può essere compromesso da un allargamento del conflitto di Gaza al Libano che la comunità internazionale dovrebbe considerare come un pericolo vero da affrontare preventivamente. Allargando il discorso io credo che una seconda amministrazione Trump potrebbe puntare a rivitalizzare gli accordi di Abramo, che sono stati un vanto della prima amministrazione. Tuttavia, è chiaro che questi non possano avere successo prima del termine delle ostilità dell’azione militare di Israele e la cessazione delle ostilità a Gaza. Ed è anche vero che gli accordi di Abramo hanno mostrato un grande limite. Non hanno costituito un sostituto del percorso di indipendenza palestinese. Hanno rappresentato una scorciatoia che non ha funzionato. Anche una eventuale amministrazione Trump dovrà ripartire da questa considerazione. Paesi arabi e Israele seppure accomunati da molti interessi non potranno più bypassare i nodi politici”.

Infine, una questione importante, anche alla luce dei conflitti in corso tra Ucraina e Gaza, rimane anche quella del rapporto di Teheran con Mosca e Pechino. In particolare, se questo potrebbe subire delle variazioni dopo i risultati elettorali. Per Germano Dottori infatti: “Intanto merita di essere ricordato che Russia e Cina furono (e sono tuttora) parti del JPCOA, dal quale non si sono ritirati. Sia Mosca che Pechino vantano inoltre rapporti importanti con Teheran che ben difficilmente il nuovo presidente vorrà mettere in discussione. Nell’osservare quanto Pezeshkian cercherà di fare, non dobbiamo pensare ad un capovolgimento della postura geopolitica complessiva della Repubblica Islamica, al momento inimmaginabile, ma piuttosto ad un ampliamento dei suoi vettori, che dal nostro punto di vista costituirebbe comunque un progresso e probabilmente interpreterebbe anche in modo più adeguato la vocazione commerciale dell’Iran, dischiudendogli nuovi mercati. Dopotutto, si tratterebbe di una scelta paragonabile a quelle fatte, da punti di partenza differenti, dalla Turchia di Erdogan e dall’Arabia Saudita di Bin Salman, ancorate saldamente all’Occidente ma attive anche in raggruppamenti di segno diverso come la SCO e i Brics”.

Restano ovviamente sul campo numerosi interrogativi aperti, non solo sul futuro dell’Iran, ma anche sul ruolo che l’Iran rivestirà nei prossimi mesi ed anni nella regione mediorientale e anche a livello internazionale, in un contesto di crescente competizione tra potenze grandi e medie. Certamente anche alla luce dei processi di stabilizzazione che si erano innescati nella regione mediorientale prima del 7 ottobre e, poi, dopo lo scoppio della guerra a Gaza, il ruolo che l’Iran rivestirà nei prossimi anni potrà certamente essere molto rilevante nei complessi equilibri regionali, ma anche in altre aree del globo.

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