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Israele-Hamas. Perché serve una nuova tregua e un ruolo dell’Ue

Hamas si riorganizza, il conflitto si regionalizza e l’Europa rischia una nuova irrilevanza nel Mediterraneo allargato. Il punto di Daniele Ruvinetti

Secondo valutazioni della difesa israeliana, Hamas ha riorganizzato le proprie fila militari dopo mesi di conflitto, riuscendo a ricostituire una forza combattente di circa 40.000 uomini. Ma il dato più significativo è forse l’evoluzione tattica: il gruppo palestinese sta riducendo il ricorso alla guerra sotterranea, prediligendo l’utilizzo di esplosivi e trappole in superficie. Una scelta che riflette adattamento, pragmatismo e capacità di resilienza, pur dopo l’uccisione di gran parte della leadership nota.

Questo scenario conferma un dato strategicamente rilevante: Hamas è capace di rigenerarsi. È una struttura ideologico-militare radicata nel territorio, capace di cooptare nuove leve e sfruttare il vuoto istituzionale. La mancanza di alternative credibili nei territori palestinesi, unita alla disperazione sociale, offre terreno fertile a questa resilienza. Di fronte a ciò, le operazioni militari israeliane si rivelano efficaci sul breve periodo, ma prive di una cornice politica in grado di tradurre i successi tattici in risultati duraturi.

A questo punto diventa indispensabile ricostruire per fasi un ecosistema politico-securitario credibile, partendo da un nuovo cessate il fuoco sostenibile. In tal senso, è evidente che occorre un rinnovato impegno statunitense, che segua l’esperienza precedente (prodotta nella continuità tra l’amministrazione Biden e la presidenza Trump) con ulteriori e maggiori garanzie. Israele è un alleato prioritario per Washington, e proprio per questo la tregua diventa cruciale per evitare un’escalation ingestibile. Una vera e propria guerra regionale.

Il governo Netanyahu appare sempre più logorato: sul piano militare, perché Hamas dimostra capacità di ripresa; su quello politico, per l’incapacità di liberare gli ostaggi ancora detenuti, a quasi due anni dal massacro del 7 ottobre 2023. La guerra, che doveva annientare Hamas, ha finito per rafforzare il suo radicamento tra la popolazione, che - priva di alternative - è spinta verso la radicalizzazione. Dinamiche analoghe si stanno sviluppando anche in Cisgiordania, date le nuove operazioni israeliane per controllare le derive estremiste. È un una spirale che si sta avviluppando sempre più su se stessa.

Sul piano regionale, i segnali di implosione sono molteplici. In Libano, sebbene Hezbollah abbia subìto gravi perdite per via dell’azione israeliana, non si può escludere un rinnovato proselitismo, anche tra segmenti della popolazione libanese. Il rischio di una nuova ondata di militanza resta vivo, così come resta viva la possibilità che l’organizzazione sciita usi la spinta della guerra per implementare la propria narrazione ideologica — che la rende ancora viva.

Anche il fronte yemenita si complica: gli attacchi missilistici degli Houthi contro Israele, sebbene finora contenuti dalle difese aeree, confermano l’estensione geografica del conflitto. Il Mar Rosso, rotta vitale tra Asia ed Europa, continua a essere destabilizzato, con rilevanti costi geoeconomici. Anche la Siria resta una faglia attiva: Israele cerca di mobilitare le comunità druse a proprio interesse, ma ciò entra in attrito con gli interessi turchi. Ankara e Tel Aviv, pur su posizioni diverse, condividono la consapevolezza che un ulteriore fronte di caos sarebbe controproducente.

In questo contesto, appare sempre più urgente l’avvio di un processo di pacificazione profondo. L’Italia, attraverso il ministro Tajani, ha espresso sostegno all’Autorità Palestinese e promosso un rafforzamento della cooperazione con l’UE. Tuttavia, è proprio l’Unione Europea a risultare assente, o marginale, nei tentativi di negoziazione per un cessate il fuoco. Il sostegno umanitario alla popolazione è fondamentale, ma non sufficiente: l’Europa deve aumentare ritmo e profondità della propria iniziativa diplomatica.

Anche perché nel frattempo, gli Stati Uniti stanno giocando una partita delicata, tentando – in forma bilaterale – un riavvicinamento con l’Iran. L’obiettivo implicito non è solo il contenimento del programma nucleare, ma la gestione delle leve d’instabilità che Teheran esercita attraverso Hamas, Hezbollah o gli Houthi. Il tentativo riflette anche una nuova disponibilità al dialogo da parte di alcune monarchie del Golfo, tese a integrare l’Iran in una più ampia architettura regionale di sicurezza. Una mossa rischiosa, che potrebbe scontentare le componenti politiche più radicali di Israele, ma utile nel lungo termine.

È in questo spazio, complesso ma aperto, che l’Europa potrebbe tornare a giocare un ruolo. Non partecipe del dialogo diretto USA-Iran, potrebbe però farsi promotrice di un grande vertice regionale, capace di includere tutte le parti, e aprire una vera trattativa multilaterale. Dopo l’irrilevanza sul dossier Ucraina, Bruxelles non può permettersi una nuova marginalizzazione nel Mediterraneo allargato. La posta in gioco, strategica e geopolitica, riguarda direttamente il suo futuro — visto che il Medio Oriente è parte della sfera geostrategica europea.

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