Israele sotto attacco
Sabato 7 ottobre Hamas ha lanciato dalla Striscia di Gaza un violento attacco terroristico contro Israele che ha causato centinaia di morti e migliaia di feriti. L’analisi di Anna Maria Cossiga
Israele è in guerra. Lo hanno dichiarato il premier Binyamin Netanyahu e il ministro della Difesa Yoav Gallant dopo l’attacco, devastante e inaspettato, giunto da Gaza, via terra, via mare e via cielo, sabato 7 ottobre. L’operazione lanciata dalla Striscia è stata denominata il “Diluvio di Al-Aqsa”. I fatti sono noti: migliaia di razzi, provenienti dalla Striscia, colpiscono il sud e il centro del paese, giungendo anche a Gerusalemme e a Tel Aviv; miliziani palestinesi si infiltrano in territorio israeliano, uccidono, stuprano, occupano cittadine e villaggi, rapiscono ostaggi e li trasferiscono a Gaza. Mentre scriviamo, i morti israeliani sono 700, i feriti 2300, in base agli ultimi dati, ma le cifre sono destinate ad aumentare. Hamas non era mai riuscito in una simile impresa, né i servizi di intelligence di Tel Aviv e le sue forze di difesa si erano dimostrate tanto impreparate. Israele è nel caos e il mondo osserva preoccupato.
Mentre il premier Netanyahu e l’establishment promettono agli assalitori vendetta e un prezzo da pagare mai così alto, l’aviazione israeliana bombarda gli obiettivi di Hamas e le forze armate combattono i miliziani infiltrati, cercando di liberare i siti occupati e i concittadini al loro interno. Intanto il premier chiede ai capi dell’opposizione, Yair Lapid e Benny Gantz, di formare un governo di emergenza. Lapid, tuttavia, ha dichiarato che con un gabinetto addetto alla sicurezza “estremista e disfunzionale” come l’attuale, non è possibile gestire una guerra e ha chiesto l’allontanamento del ministro per la Sicurezza Nazionale, Itamar Ben-Gvir, e di quello delle Finanze, Bezalel Smotrich, che sovrintende anche al governo civile della Cisgiordania ed è, insieme al collega, un forte assertore dell’aumento degli insediamenti e dell’annessione della Cisgiordania. Non si può non notare che, in un momento in cui Israele vuole- e deve- mostrarsi unito e coeso, i forti contrasti politici sembrano non placarsi.
Si teme anche un possibile coinvolgimento dei palestinesi della Cisgiordania, dove ormai da quasi un anno le tensioni sono alle stelle, mentre Hezbollah, dal Libano, colpisce Israele con razzi e colpi di mortaio. È cosa nota la vicinanza tra il movimento sciita e l’Iran e il coinvolgimento diretto di Teheran è stato apertamente dichiarato dal consigliere militare dell’ayatollah Khamenei e dal leader dell’ala militare di Hamas, Mohammed Deif.
Da quando, nel gennaio di quest’anno, il nuovo governo Netanyahu, con gli ultrareligiosi e gli estremisti di Sionismo Religioso e di Potere Ebraico, ha annunciato la discussa riforma della giustizia, che ha spaccato il paese, i nemici di Israele hanno contato sul suo indebolimento politico, ma anche militare e di capacità di intelligence. Il rifiuto di gran parte dei riservisti di presentarsi in servizio in protesta per la riforma non è certo stata d’aiuto. Anzi ha decisamente reso più fragile ed esposto Israele. Le profonde fratture sociali all’interno di un paese non promettono mai nulla di buono; e questo è ancora più vero nel caso di Israele. Lo stato ebraico gode dell’appoggio incondizionato degli Stati Uniti, che hanno ribadito il diritto dell’alleato a difendersi e sono pronti a fornire nuovi aiuti militari. Ciò che davvero serve ad Israele, in questo momento, ci pare, però, essere l’unità interna ad ogni costo.
L’Italia condanna fermamente l’aggressione, insieme alla Francia, alla Germania, al Regno Unito e all’Unione Europea. Il nostro ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha confermato che mercoledì di recherà al Cairo per collaborare ai negoziati per il rilascio degli ostaggi. Insieme al Qatar, l’Egitto è sempre stato mediatore tra Israele e Hamas e il suo intervento può essere essenziale. Intanto, però, festeggiamenti per l’aggressione contro Israele hanno avuto luogo in Cisgiordania, a Beirut, a Damasco e a Istanbul. I paesi arabi si dichiarano profondamente preoccupati per l’accaduto e hanno invitato i contendenti a porre fine immediatamente ai combattimenti e ad evitare un’ulteriore escalation, mentre il Qatar ha attribuito ad Israele la colpa dell’attacco. La Turchia, intanto, si offre di dare il proprio contributo alla de-escalation.
Oltre all’inquietudine per l’aggressione e per i morti da essa causati, Israele si trova adesso in un’impasse non facile da superare. Attaccare Gaza su larga scala, anche via terra, come qualcuno ha ventilato, e magari rioccuparla, causerebbe un numero altissimo di morti e anche gli ostaggi, un centinaio, in base alle fonti, con ogni probabilità perderebbero la vita nei combattimenti sul terreno. D’altra parte, rinunciare al contrattacco non è certo un’opzione, per Tel Aviv. Si tratta di una scelta ardua e, al tempo stesso, spaventosa, per chiunque sarà al governo. La sopravvivenza dello stato ebraico non sembra certo essere a rischio, ma la guerra sarà lunga e sanguinosa, qualunque siano le decisioni prese.
Ha inizio un periodo estremamente difficile per Israele e per l’intera regione. Gli Accordi di Abramo sembravano aver inaugurato una nuova stagione in Medio Oriente e i colloqui tra Tel Aviv e Riad per la normalizzazione dei rapporti, mediati dagli USA, facevano ben sperare. È probabile che la concreta possibilità di un accordo in tal senso sia una delle cause che hanno condotto all’aggressione, orchestrata dall’Iran, da parte del movimento islamista di Gaza. La strada intrapresa, invece, e non per volontà dell’aggredito, qualunque siano le sue “colpe”, è tutt’altra.