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Kissinger, il Medio Oriente e la politica estera americana del Novecento

La scomparsa recente di Henry Kissinger ha dato vita ad un ampio dibattito sui media sulla sua figura e sulla sua lunga carriera politica. Il punto di vista di Stefano Marroni

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Decine e decine di articoli, interviste, servizi televisivi: ricordi di chi lo ha visto da vicino, pamphlet ferocemente dissacratori, rievocazioni commosse, una mole di documenti che in occasione della sua morte ha messo sotto gli occhi di tutti non solo il ruolo di primo piano che Henry Kissinger ha svolto nella politica estera americana degli anni ’60 e ’70, ma anche il suo peso nel plasmare nel profondo lo stato delle relazioni internazionali che – nel loro insieme – governano ancora oggi il mondo. Confermando la tesi di Greg Grandin – lo storico della Yale University che ne è stato uno dei critici più lucidi e documentati – che “nessun segretario di Stato americano ha mai conservato una maggiore influenza di Kissinger dopo la fine dell’incarico”.

Non era tecnicamente un predestinato, il figlio di un insegnante ebreo che dalla città bavarese di Fürth era riparato con la famiglia negli Usa nel ’38 sfuggendo alla persecuzione nazista. E anzi chi lo ha conosciuto meglio ha sempre legato anche gli aspetti più spiacevoli del suo carattere – che nell’arco di cento anni di vita gonfiano un’amplissima raccolta di aneddoti – alla sua necessità di venire accettato, “mellifluo con i suoi pari, tirannico con i sottoposti, ossequioso con i superiori”. Così come sono in molti a pensare che il suo crudo realismo, la mancanza di scrupoli morali, il cinico, totale disinteresse per i danni collaterali di una strategia che gli ha fatto mettere in conto anche la morte di innocenti, avesse a che fare anche con le lezioni imparate dal giovane Heinz – il nome che portò fino al liceo – dalla vicenda europea degli anni ’30: “Ogni volta che la pace è stato l’obiettivo primario di una politica – scrisse agli albori degli anni ’60 – il sistema internazionale è stato messo alla mercè delle forze più spietate”.

Erano gli stessi anni in cui il volto del giovane studioso di Harvard dal pesante accento bavarese, a cui gli occhiali con la montatura spessa davano un’aria che oggi si direbbe da nerd, stava diventando popolare anche tra il grande pubblico americano, sulla scia del successo del suo primo best seller del ’57, “Nuclear Weapons and Foreign Policy”: un trattato in favore dell’uso limitato di ordigni atomici “tattici” che probabilmente ne fece almeno in parte il modello a cui sette anni dopo Stanley Kubrick si ispirò per il suo “Dottor Stranamore”. E anche gli anni in cui pian piano Washington – sotto le ali di Donald Rockefeller – cominciò ad aprirgli le porte, con gli Stati Uniti ormai impantanati nella guerra nel sud est asiatico.

Kissinger considerò sempre sbagliato l’impegno di Kennedy e poi di Johnson in Vietnam, in un conflitto sanguinoso che arrivò a vedere sul terreno 535 mila soldati americani divorando le risorse della Difesa: pensava che l’errore di partenza fosse stato considerare il conflitto “una estensione della guerra fredda in Europa” e non invece che “è molto difficile costruire una nazione in una società divisa e nel mezzo di una guerra civile”. E quando Nixon – che convinse in piena campagna elettorale a suggerire ai sudvietnamiti di non firmare accordi prima della sua elezione, con la promessa di offrigli migliori condizioni - ne fece a 45 anni il più giovane Consigliere per la Sicurezza nazionale, si mise al lavoro convinto che alla portata degli Stati Uniti ci fosse solo la possibilità di uscire dalla guerra con un “intervallo decente” tra la partenza delle truppe e il crollo del regime sudvietnamita: “Non mi faccio illusioni, se sono fortunati – disse a John Enlichmann azzeccando al millimetro la profezia – potranno resistere al massimo un anno e mezzo”. Ma per arrivarci salvando la faccia, tra il ‘70 e il ‘73, Kissinger scelse la strada della più spietata “war for peace”, dei bombardamenti a tappeto che videro l’Air Force scaricare su Vietnam del Nord, Cambogia e Laos più tonnellate di esplosivo che durante tutta la Seconda guerra mondiale, ma senza spostare sostanzialmente né il timing né le sorti della guerra. L’uomo ne uscì con la patente di “criminale di guerra” che ancora giovedì ha dato il titolo del suo necrologio su Rolling Stone. Ma anche con un Nobel per la pace.

Al fianco di Nixon e poi di Gerald Ford, ormai anche segretario di Stato, Kissinger visse gli anni che lo consacrarono come un protagonista assoluto della scena mondiale che fino alla fine ha offerto consigli (“Non sempre accolti, e non sempre capiti”, ridacchiava lui) a tutti i presidenti americani, da Kennedy a Biden. È opera sua soprattutto la diplomazia segreta che nel ’72 portò Nixon a siglare un accordo con Mao Zedong che lasciò il mondo senza fiato, e poi – nel giro di pochi mesi – alla sigla del primo trattato con Mosca sulla riduzione degli arsenali nucleari. Ma ci sono le sue impronte nella sanguinosa aggressione del Pakistan al Bangladesh, nella guerra scatenata dall’Indonesia contro Timor Est e ancora – e forse soprattutto, per la eco che ebbe in Europa – nel sanguinoso colpo di stato che abbatté in Cile il governo democraticamente eletto di Salvador Allende, aprendo la strada a una serie di golpe in tutta l’America Latina.

Tutto, su un piano che non teneva in alcun conto le regole e le volontà altrui: “La posta in palio in Cile è troppo alta perché i suoi cittadini possano esser lasciati a decidere da sé”, spiegò a Nixon ancora prima del voto che portò Allende alla Moneda. Perché “la vittoria di un governo marxista democraticamente eletto – gli disse – sicuramente avrà un impatto in altre parti del mondo e stabilirà un precedente, specialmente in Italia”. La Casa Bianca prese ad agire sempre più spesso, e consapevolmente, oltre i limiti della legge: “Quel che è illegale lo facciamo subito – semplificò una volta Kissinger – mentre per quel che è incostituzionale ci mettiamo un po’ di più…”. Fu anche in questo clima di pretesa impunità e di ossessione per la segretezza e il controllo che maturò la fallimentare incursione dei plumbers di Nixon al Watergate. E in tutto il mondo si consolidò l’immagine del doppio standard americano nel valutare quel che è giusto e quel che non lo è.

L’ultimo successo di Kissinger da segretario di Stato fu la shuttle diplomacy tra Il Cairo e Tel Aviv che rovesciò il possibile cataclisma della guerra del Kippur nell’occasione per portare Israele ed Egitto al tavolo della pace, e di fatto mise fuori gioco la Russia dallo scenario mediorientale almeno fino al 2015. Anche per questo, più ancora che altrove, la morte di Kissinger ha suscitato in Israele – ha sottolineato nei giorni scorsi Haaretz – reazioni ambivalenti almeno quanto il legame che il ragazzo fuggito dalla Germania di Hitler aveva con il mondo ebraico. Cattivo e insieme eroe, distante e vicinissimo: “Se non fosse per la casualità del mio essere ebreo, sarei un antisemita”, confessò una volta a uno dei suoi biografi, Walter Isaacson. Capace di convincere Nixon, nel chiuso dello Studio Ovale, che “se anche i russi spedissero gli ebrei nelle camere a gas non sarebbe una nostra preoccupazione”. Ma anche di fissare la cornice che tuttora garantisce lo statuto speciale di Israele come alleato degli Stati Uniti: un alleato a cui è concesso il possesso di armi nucleari e la prolungata occupazione di territori in violazione dei diritti dei loro abitanti.

Kissinger era ancora solo uno studioso quando nel ’65, in un incontro segreto a Tel Aviv con i massimi dirigenti israeliani – hanno svelato recentemente documenti ritrovati da Avner Cohen, uno studioso di problemi nucleari del Middlebury Institute di Monterrey – gli venne chiarita l’intenzione di Israele di procedere alla costruzione di “ordigni atomici difensivi”, sfruttando la produzione di uranio arricchito nel reattore di Dimona, costruito con l’aiuto della Francia. Kissinger si spese per ridurre le tensioni con l’amministrazione americana su questa questione. E fu ancora lui a definire con Golda Meir, nel ’69, il “Nuclear Understanding” che sancì la presa d’atto americana del dispiegamento di armi nucleari da parte di Israele, e insieme il regime di opacità che tuttora circonda la questione.

Così – anche se forse è vero, come ha sostenuto The Economist, che non è mai riuscito a far parte davvero come avrebbe voluto del sancta sanctorum del potere americano – e mentre cala il sipario sui cento anni di vita del ragazzino scappato da Fürth e diventato arbitro dei destini del mondo, la contesa sulla sua eredità è destinata a continuare, aldilà della contrapposizione “caricaturale – ha scritto il Pulitzer Nicholas Kristof – tra chi lo vede come un eroe e chi come un criminale”. Dalle sue ultime uscite – la celebrazione dei suoi cent’anni da parte di Pechino, e in parte anche gli ammonimenti su un Putin da capire “leggendo Dostoevskij, e non il Mein Kampf” – hanno da un lato consacrato l’immagine di un uomo legato al suo tempo e dall’altro – con l’allarme sul rischi di armi nucleari governate da programmi di intelligenza artificiale – acceso un faro sulla curiosità inestinguibile di uomo che fino alla fine forse ha solo finto di volersi far conoscere davvero: “No, non le dirò che cosa io sono”, disse in una celebre intervista ad Oriana Fallaci. “Non lo dirò mai a nessuno…”.

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