La corsa contro il tempo dello Studio Ovale
Nello Studio Ovale è ormai una corsa contro il tempo, dopo il cambio di passo di Biden sulla crisi israelo-palestinese, per evitare un allargamento del conflitto in Medio Oriente. L’analisi di Stefano Marroni
Nello Studio Ovale è ormai una corsa contro il tempo. Mentre Israele martella Gaza e mette sotto assedio la West Bank nonostante gli inviti di Biden a “non rifare i nostri errori”, gli Stati uniti cercano disperatamente di mettere a fuoco nel giro di poche settimane una soluzione politica in grado di tenere insieme le esigenze di sicurezza di Israele con un futuro per Gaza e per l’insieme del popolo palestinese che non segni una definitiva, irrimediabile frattura con l’intero mondo islamico: con i governi alleati di Washington messi alle strette dalla rabbia popolare per le immagini della strage che arrivano dalla Striscia, e ormai a un passo dallo strappare la rete di rapporti con Israele che è stata dalla guerra del Kippur in poi la principale cura della politica americana in Medio Oriente.
Una partita difficile, che porta con sé il rischio di una crisi globale, e la certezza di immediati e cospicui vantaggi tattici per Cina, Russia e Iran. Ma su cui Joe Biden gioca ormai anche una parte importante delle sue possibilità di restare alla Casa Bianca. Per non dire del giudizio della storia sulla sua figura.
L’obiettivo è uscire dalla crisi aperta dall’attacco di Hamas e dalla controffensiva su Gaza “con una visione chiara di cosa deve avvenire dopo – ha detto Biden – e che dal nostro punto di vista deve essere una soluzione che preveda l’esistenza di due stati”. Ma è una strada in salita, per molti versi un’autentica rimonta. Perché nonostante il milione e mezzo di dollari elargiti ai palestinesi a Gaza e nella West Bank – notano anche molti analisti americani – pesa un ritardo che “nuoce gravemente alla credibilità americana nel mondo arabo”, nota Daniel C. Kurtzer, che fu ambasciatore a Tel Aviv quando alla Casa Bianca c’era George W. Bush.
Sembra innegabile che fino al 7 di ottobre il nodo israelo-palestinese non occupasse in realtà un posto significativo nell’agenda di un presidente calamitato dal dossier ucraino e soprattutto da quello dell’espansione cinese. Chi segue più da vicino la situazione mediorientale si aspettava che il nuovo Comandante in Capo compisse almeno alcuni gesti simbolici destinati a correggere l’impianto aggressivamente antipalestinese dell’amministrazione Trump. “Ho trovato invece sorprendente quanto l’approccio di Biden fosse simile a quello dell’amministrazione precedente”, nota Khaled Elgindy, del Middle East Institute, indicando in particolare le tre questioni su cui si appuntavano le attese di molti attori mediorientali: da un lato il ritorno degli Usa alla denuncia del carattere illegale degli insediamenti dei coloni ebrei in Cisgiordania, e dall’altro la riapertura della rappresentanza dell’Autorità palestinese a Washington e del consolato americano a Gerusalemme Est, che per decenni aveva costituito un segno visibile di attenzione per il popolo palestinese.
Nel 2020 Biden ne aveva fatto una promessa in campagna elettorale che nel 2021 aveva ribadito incontrando per la prima volta Abu Mazen: salvo subire sostanzialmente il niet di Israele, perentorio nel sostenere che “non c’è posto per un consolato palestinese a Gerusalemme”, per dirla con l’allora primo ministro Naftali Bennett: “Gerusalemme è la capitale di un solo stato, lo stato di Israele. Punto”.
Nel faccia a faccia con Benyamin Netanyahu di fine settembre - mentre sembrava alle viste un’intesa militare strategica con l’Arabia Saudita in chiave anti-iraniana preliminare ad uno storico allacciamento dei rapporti tra Riyad e Gerusalemme - i toni di Biden non erano stati morbidi nella richiesta al premier israeliano di fare il possibile per distendere il clima in Cisgiordania, anche a costo di rompere con gli estremisti religiosi che sostengono il suo governo. E da qui è ripartito il segretario di Stato Antony Blinken nei suoi ormai tre round di colloqui mediorientali dopo il 7 di ottobre, che nel week end lo ha visto a Gerusalemme perorare la causa di una tregua umanitaria. Ma la faticosa, parziale, riapertura del valico di Rafah, il suono delle sirene delle ambulanze che hanno portato via da Gaza i primi feriti e il rientro di una manciata di cittadini stranieri sono stati gli unici risultati di una mediazione affidata soprattutto ai buoni uffici del Qatar, un quasi miracolo reso possibile dal suo singolare ruolo di “maggior alleato degli Usa fuori dalla Nato” e insieme di maggior finanziatore (oltre che ospite) dello stato maggiore di Hamas.
Nel frattempo, persino la mite Giordania ha richiamato il suo ambasciatore in Israele e sostanzialmente congelato le relazioni diplomatiche bilaterali, e l’Egitto ha respinto la proposta israeliana di accogliere almeno una parte dei profughi costretti a sfollare dai bombardanti su Gaza in cambio di un taglio sulla restituzione dei prestiti concessi al governo del Cairo. Ma tutti i paesi arabi si sono messi alla finestra, rifiutando qualsiasi pubblica solidarietà a Gerusalemme dopo la disumana incursione terroristica con cui Hamas ha innescato la crisi. Dietro le quinte, naturalmente, qualcosa si muove. Il Jerusalem Post ha svelato che nello scorso fine settimana lo stesso capo del Mossad David Barnea – accompagnato dal suo predecessore Yossi Cohen – è volato a Doha per colloqui che la Difesa israeliana non ha confermato ma che quasi certamente hanno ruotato sulla sorte dei 240 ostaggi ancora nelle mani di Hamas, la stessa preoccupazione che ha spinto in gran segreto gli Stati uniti – rivela il New York Times – a spedire sul terreno “diverse dozzine” di commandos con il compito di affiancare Tsahal nella loro liberazione.
Da Israele – una realtà che conosce benissimo, e a cui lo lega una vicinanza che ha radici fortissime e pluridecennali nella sua storia personale e politica – Biden sa benissimo di non potersi “aspettare che porga l’altra guancia”. Nei giorni scorsi anche un opinionista tutt’altro che tenero con Netanyahu come Thomas Friedman ha ricordato le parole con cui nel 2006 un altro premier (ed ex capo delle forze armate), il laburista Ehud Barak, mise in guardia Hezbollah: “Non pensate che se rapite o uccidete la nostra gente noi tratteremo la cosa come fosse un piccolo disputa di confine. A voi possiamo sembrare occidentali, ma il moderno stato di Israele è sopravvissuto come ‘una villa nel mezzo di una giungla’. Se ci mettete alle strette, siamo pronti a giocare con le vostre regole. Non fatevi illusioni”.
Parte da questa consapevolezza, la strada stretta che Biden si trova davanti. Anche perché a renderla ancora più impervia sono i contraccolpi della crisi nell’opinione pubblica e nella politica americana. Con i repubblicani che alzano alle stelle il prezzo di un via libera a nuovi aiuti a Israele, e i sondaggi che rilevano una perdita secca di undici punti nel consenso degli elettori democratici, causata dal sostegno della Casa Bianca al governo di Netanyahu. Una mina sotto la corsa di Biden, in vista di un voto che ancora una volta, il prossimo anno, si combatterà sul filo di poche decine di miglia di voti.