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La corsa di Kamala Harris e la scelta del candidato Vicepresidente

Mentre Kamala Harris avvia la sua corsa per la Casa Bianca dopo il ritiro di Joe Biden, la scelta del candidato Vicepresidente diventa un primo importante passo per la sua campagna. L’articolo di Stefano Marroni

Il processo – molto riservatamente – è iniziato a metà della scorsa settimana, quando Covington & Burling – uno dei più importanti studi legali del mondo - ha iniziato a sollecitare a una dozzina di personalità l’invio dei documenti necessari per una prima valutazione di un loro ruolo nel ticket democratico: dando il via a un lavoro frenetico, che nei giorni scorsi ha visto poi Eric Holder – l’ex ministro della Giustizia che fece lo stesso lavoro per Obama nel 2008 – gestire una serie di interviste a distanza su Teams con i profili più promettenti. Il piano di Kamala Harris è di annunciare già il 7 agosto – con una velocità senza precedenti nella storia politica americana – il nome di chi la affiancherà nella corsa che tra meno di cento giorni designerà il nuovo inquilino della Casa Bianca. Una scelta da fare in fretta, ma senza errori: una scelta da cui - nella rincorsa a cui il Partito democratico è stato costretto dal braccio di ferro con Joe Biden – potrebbe dipendere come forse mai in altre presidenziali l’esito della sfida con Donald Trump.

Per Kamala – che dopo i timori iniziali ha convinto il corpaccione del partito democratico, attivando una mobilitazione senza paragoni con quella delle ultime settimane e una raccolta fondi che ha superato quella di Biden nei primi tre mesi dell’anno - non si tratta solo di individuare una figura già conosciuta almeno al grosso dell’elettorato, e abbastanza forte mediaticamente da vincere il confronto pubblico con avversari scorbutici. A restringere il campo della scelta sta il fatto che vale a maggior ragione per lei – donna, nera, critica con Israele e controversa interprete delle politiche di Biden in materia di immigrazione - la regola che negli ultimi sessant’anni ha spinto candidati presidenti con una forte caratterizzazione personale e politica a puntare, per vincere, su un partner di tutt’altro profilo. Come fecero il liberal bostoniano John F. Kennedy con il texano conservatore Lyndon Johnson, l’outsider Ronald Reagan con il mainstream George H. Bush, e poi il giovane Obama col più stagionato Joe Biden e nel 2016 ancora Trump – allora neoconvertito al Gop - con l’ultraconservatore Mike Pence. Aggiungendo, a ben vedere, che anche la scelta del ruvido J.D. Vance come nuovo partner di “The Donald” - in un ticket per molti versi politicamente molto omogeneo - ha a che fare comunque con il bisogno del tycoon – newyorkese, ottantenne, miliardario per nascita, senza un curriculum universitario e militare e con alle spalle una vita privata decisamente disordinata – di mettersi accanto un giovane senatore del Midwest rurale, un self made man laureato a Yale e con una esperienza di combattimento nei Marines in Iraq.

Per questo, nel mazzo dei potenziali candidati messi sotto osservazione, Kamala Harris ha voluto quasi tutti i protagonisti della politica democratica dell’ultimo decennio, comprese due star – la governatrice del Michigan Gretchen Whitmer, 53 anni, e quello della California Gavin Newsom, 56 – che fino a due settimane fa sembravano destinate a contendersi la nomination presidenziale del 2028. Con loro, nella check list più ampia, ci sono altri tre governatori di peso. Viene dall’Illinois JB Pritzker, 59 anni, proprietario dell’impero Hyatt Hotels, abilissimo fund raiser e durissimo accusatore di Trump. Wes Moore, 45 anni, è stato il primo nero a diventare governatore del Maryland. Mentre Tim Waltz, 60 anni, leader nazionale dell’associazione dei governatori democratici, ha riconquistato il Minnesota che nel 2016 tradì Hillary Clinton: e negli ultimi giorni è diventato famoso per aver coniato per Trump e Vance l’epiteto di “quite weird people”, “gente proprio strana”, che sta spopolando in rete e nei meme. Ma in lista c’è anche Pete Buttigieg, l’enfant prodige che da sindaco di un piccolo centro dell’Indiana nel 2020 corse le primarie democratiche in Iowa battendo Biden, che poi lo volle nella sua amministrazione come segretario ai Trasporti: popolarissimo nella base democratica, a 42 anni sarebbe il più giovane vicepresidente nella storia degli Stati Uniti. E - insieme - il primo gay dichiarato.

Sono candidature di peso, personalità che per ruolo e notorietà Kamala non può permettersi di escludere a priori se non a rischio di perderne il sostegno. Ma a Washington quasi tutti scommettono sul fatto che il running mate dell’ex procuratore generale della California non verrà pescato tra loro. Restringendo di fatto la rosa dei possibili VP a personalità più funzionali alla corsa di Harris in termini politico-geografici e di curriculum professionale, oltre che in grado di coprire il fianco alla vicepresidente sui temi che per varie ragioni la vedono più esposta: “Tutte le scelte sono lecite, certo”, ribatte a chi nei caucus democratici chiede “scelte coraggiose” Debbie Walsh, una studiosa del ruolo politico delle donne alla Rutgers University del New Jersey: “È vero, per decenni i candidati sono sati entrambi maschi e bianchi e nessuno se ne scandalizzava. Anche a me piacerebbe avere due donne alla Casa Bianca. Ma in un momento così, credo sia ragionevole rassicurare la gente, ed evitare che i cambiamenti si sviluppino così in fretta. Non dobbiamo redigere un manifesto della cultura woke, e per vincere Kamala ha bisogno di un qualche bilanciamento: penso che il running mate sarà un maschio bianco, non omosessuale, espresso da uno degli swing states…”.

È lo schema che sembra prevalere anche attorno a Harris. E che fa emergere una griglia di quattro-cinque nomi ognuno dei quali ha carte forti da giocare. Su tutti, sta guadagnando molte posizioni il senatore dell’Arizona Mark Kelly, 60 anni, in assoluto il più conosciuto e trasversale tra i possibili vice di Harris grazie anche agli anni di servizio come pilota nella Us Navy in Iraq, e poi come astronauta e comandante della stazione orbitante internazionale. Figlio della working class, sposato con un ex deputata dell’Arizona vittima di una sparatoria e diventata un’icona della lotta per il controllo delle armi, il senatore ha dalla sua non solo l’aver vinto in un importante swing state grazie al larghissimo sostegno della comunità dei latinos, ma di aver saputo gestire con successo – e il consenso di molti repubblicani - la pressione migratoria al confine sud grazie a un mix di lotta alla clandestinità e accoglienza dei richiedenti asilo: un asset importante, vista le critiche a Harris sulla gestione del dossier.

Ma c’è altra un’altra spina per Harris che potrebbe orientare le sue scelte. La vice di Biden deve convincere il grande pubblico – sensibile alle accuse di Trump sul dilagare della violenza urbana “per colpa di Joe e Kamala” - di essere non solo in prima fila per il controllo delle armi ma anche decisa nella repressione del crimine. Di essere, insomma, ancora il tosto procuratore generale della California che la sinistra del partito democratico accusava di essere “Kamala the Cop, “Kamala la poliziotta”.

Anche per questo molta attenzione si è concentrata sulla possibilità che il running mate possa essere uno dei tre governatori – Andy Beasher del Kentucky, Roy Cooper della North Carolina e Josh Shapiro della Pennsylvania – che come Harris sono stati a lungo procuratori generali nei loro stati, con un curriculum di inchieste importanti e protagonisti di una collaborazione con lei proseguita per anni.

Dalla loro, Beasher e Cooper hanno anche l’essere stati eletti in stati molto “rossi”, che hanno scelto Trump sia nel 2016 che nel 2020. E a 46 anni Beasher – che grazie anche ai toni garbati ma fermi con cui è diventato un ospite frequente della conservatrice Fox News è secondo i sondaggi il governatore più popolare negli Usa – ha le carte in regola per fronteggiare il corregionale J D Vance, che ha accusato di esser “un falso hillbilly”.

Shapiro – diventato una celebrità nazionale per essere riuscito a far riaprire in soli 12 giorni il ponte della I-95 crollato a Philadelphia - è però secondo molti osservatori molto più in alto dei colleghi nella top list di Harris. Il suo lavoro prima da GA e poi da governatore (eletto nell’anno in cui la Pennsylvania voltò le spalle a Hillary Clinton) lo ha reso fortissimo nello swing state per eccellenza, dove nei sondaggi finora Biden ha sempre inseguito Trump. E la sua vicinanza a Israele sembra destinata a sedare le preoccupazioni per la politica estera di Kamala.

La sua nomina presenterebbe però anche qualche incognita per Harris, sia per le controversie nel partito democratico innescate dalle posizioni moderate sui temi del lavoro e dell’ambiente, che soprattutto per il sostegno di Shapiro a Israele dopo il 7 ottobre. Con lui ebreo praticante al fianco di Harris, inoltre, per la prima volta nella storia americana si formerebbe un ticket presidenziale senza bianchi cristiani: una novità che anche nel 2024, per l’America rurale, potrebbe essere indigesta.

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