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La crisi del Mali vista da Algeri

Conflitti, mediazioni e prospettive in Sahel. L’analisi di Alessandro Giuli

Nel coro di condanna internazionale innescato dalla Francia contro la perdurante torsione autoritaria della giunta militare del Mali, si fa sentire nuovamente la voce dissonante di Algeri. Confortato dal lavoro d’interdizione da parte di Pechino e Mosca, che hanno bloccato in sede Onu l’attivismo di Parigi, il presidente Abdelmadjid Tebboune rivendica il peso specifico di una mediazione diplomatica dall’esito incerto ma con la chiara intenzione di marcare una primazia regionale.

Riepilogando per sommi capi. Nell’arco di pochi giorni dall’inizio dell’anno, l’organizzazione politico-economica che riunisce la Comunità degli Stati dell’Africa occidentale (CEDEAO/ECOWAS) ha stabilito d’infliggere nuove sanzioni a Bamako poiché il governo golpista del colonnello Assimi Goita il primo gennaio ha annunciato un rinvio sine die (nel 2026) delle nuove elezioni che dovrebbero ristabilire l’ordine costituzionale nel più debole e balcanizzato Stato del Sahel, flagellato dalle spinte secessionistiche Touareg e dall’ombra del califfato islamista. Contestuale anche la decisione di richiamare gli ambasciatori, chiudere le frontiere terrestri e aeree, sospendere ogni forma di collaborazione finanziaria e commerciale fatta eccezione per i beni di prima necessità alimentare, energetica e sanitaria. Contro la Giunta del Mali, che peraltro della CEDAO fa non soltanto nominalmente parte, la Francia ha subito tentato di condizionare il Consiglio di sicurezza dell’Onu affinché adottasse una risoluzione di sostegno al pacchetto di sanzioni in questione; ma la Russia e la Cina si sono opposte, neutralizzando il testo, vellicando così un esacerbato clima antifrancese serpeggiante da tempo a Bamako, e allarmando le democrazie occidentali messe al contempo di fronte alla ormai conclamata presenza delle truppe mercenarie moscovite del Gruppo Wagner a Timbuctù, laddove fino a pochi mesi fa erano stanziati i soldati dell’Eliseo operanti nell’ambito dell’Operazione anti jihadista “Barkhane” concepita nel 2014. Il rappresentante di Mosca, Vassily Nebenzia, ha quasi beffardamente lamentato al riguardo del Mali un “eccesso d’ingerenze straniere che sta complicando la situazione”.

Fumo negli occhi per il ministro degli Affari esteri francese, Jean-Yves Le Drian, secondo il quale “ciò che avviene in Mali è una vera e propria fuga in avanti che, a dispetto degli impegni assunti, pone sotto sequestro il potere per anni e priva il popolo delle proprie prerogative democratiche”. Solo apparentemente più sfumata la posizione della delegazione statunitense – “una transizione quinquennale non è nell’interesse del popolo maliano”, ha dichiarato l’americana Linda Thomas-Greenfield – poiché il cuore del bersaglio di Washington resta “la presenza di individui legati al Gruppo Wagner” sul suolo di Bamako; accusa respinta dall’ambasciatore del Mali all’Onu, Issa Konfourou, che stigmatizza la “campagna di disinformazione in atto” contro il proprio Paese. Al di là della linea di faglia tracciata da Emmanuel Macron, che assicura di riuscire a portare con sé l’Unione europea di cui si appresta ad assumere la presidenza semestrale, Pechino e Mosca reagiscono concordi: “A problemi africani, soluzioni africane”, fermo restando il diritto di stabilire sovranamente rapporti di cooperazione in materia di sicurezza nazionale.

E veniamo così al ruolo di Algeri nella vicenda, la cui strategia della neutralità ha incrinato il fronte africano guidato dai rappresentanti dei tre Stati membri non permanenti del Consiglio Onu (Ghana, Gabon e Kenya) avvicinando alle proprie posizioni il presidente di transizione della Guinea, Mamadou Doumbouya, il quale ha garantito l’apertura dei propri confini con il Mali.

Ma che cosa propone, davvero, l’Algeria? Formalmente ha espresso un appello per una “transizione ragionevole” tale da accorciare i tempi dello stato d’eccezione maliano riducendo drasticamente la distanza dalla convocazione delle urne. La scommessa di Tebboune sembra essere quella di convincere il colonnello Assimi Goita a restare in carica ancora non più di sedici mesi, impegnandosi direttamente ad “accompagnare attivamente la Repubblica del Mali e la CEDEAO lungo la via salvifica della reciproca comprensione verso una visione solidale che salvaguardi gli interessi superiori del fraterno popolo maliano”. Ma di là dalle buone intenzioni irenistiche, il cuore del messaggio sta in un altro passaggio delle dichiarazioni di Tebboune: “Il presidente della Repubblica ha reiterato l’indefettibile impegno dell’Algeria per la sovranità, l’unità e l’integrità della Repubblica del Mali”; tutto ciò sulla base di una esplicita rivendicazione: quando il leader di Algeri parla, lo fa in nome della sua doppia qualità di capo della Mediazione internazionale e presidente del Comitato preposto all’accordo per la pace e la riconciliazione nel Mali, prima ancora che come rappresentante “di un Paese vicino che condivide una lunga frontiera terrestre così come una lunga storia di buon vicinato e di fraternità” con Bamako. Non è peraltro sfuggita agli osservatori più attenti una consonanza perfino lessicale fra le dichiarazioni di Tebboune e quelle, sopra citate, del blocco sino-russo nel Consiglio di sicurezza dell’Onu: il richiamo a quella “fedeltà verso il principio della promozione di soluzioni africane per i problemi africani” storicamente radicata in seno all’Unione africana.

A costo d’essere accusata da Parigi d’aver scelto per sé un ruolo da testa di ponte moscovita in Sahel, Algeri continua a perseguire la propria “Machtpolitik” regionale, ormai stabilmente ancorata alla sfera d’influenza russa (sin dalla dipendenza per le forniture militari in funzione anti marocchina), concorrente rispetto agli interessi residuali franco-occidentali e pressoché indifferente agli sforzi diplomatici multilaterali come quello faticosamente messo in piedi dalla Missione MINUSMA per il mantenimento della pace delle Nazioni Unite (Mission multidimensionnelle intégrée des Nations Unies pour la stabilisation au Mali).

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