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La crisi tunisina e l’opzione Saïed

L’analisi della svolta politica tunisina dal punto di vista di Alessandro Giuli

La rottura istituzionale stabilita lo scorso 25 luglio in Tunisia dal presidente Kaïs Saïed è interpretabile al contempo come una svolta politica in itinere e come una forma di stabilizzazione d’una crisi altrimenti ingestibile. A ridosso dell’incontro nel quale Saïed ha cercato di rassicurare la delegazione del Congresso statunitense circa la sua scelta di rinnovare “fino a nuovo avviso” il licenziamento del premier e la sospensione dei lavori parlamentari – “le azioni sono state compiute nel pieno rispetto della Costituzione, al contrario delle accuse infondate di colpo di Stato, e riflettono la volontà del popolo”, ha dichiarato in una nota –, è necessario sgomberare il campo da due equivoci contrapposti ma speculari.

Saïed non è la versione tunisina, algida e longilinea, di Al-Sisi, il presidente egiziano che ha ripristinato al Cairo lo status quo ante l’insurrezione guidata dai Fratelli musulmani puntellando la restaurazione sulle forze armate, l’esercito considerato da sempre dalle oligarchie locali (e come tale percepito anche dalla popolazione) come il contrafforte naturale di ogni governo. I motivi fondanti della così detta “Rivoluzione dei gelsomini”, inscritti nelle più generali istanze d’en bas maghrebine di moralizzazione e rottura con le vecchie autocrazie, restano salde nel retroterra personale e nell’orizzonte politico del presidente tunisino. È apparso sincero, Said, giurista di rango internazionale – è fra l’altro titolare d’un dottorato di ricerca all’Università di Roma La Sapienza in Diritto romano, Teoria degli ordinamenti e Diritto privato del mercato – che ha ottenuto alle elezioni presidenziali del 2019 il 72,71 per cento dei voti contro un discusso uomo d’affari legato al blocco islamista di Ennahda al potere dal 2011 e capitanato da Rashid Ghannushi, quando rivolgeva queste parole ai senatori americani Chris Murphy e Jon Ossof: “Ho dovuto sequestrare la Costituzione che mi consente di prendere provvedimenti eccezionali, nel rispetto del testo e delle sue disposizioni, ma anche dell’etica”.


In questa frase, marcata dal poco rassicurante verbo “sequestrare” riferita alla Carta fondamentale di Palazzo Cartagine, si riflette sia la legittimazione sostanziale della sua dirompente scelta – la rivoluzione tradita a fronte di una crisi pandemica quasi fuori controllo accompagnata dalla proliferazione di una perdurante, se non endemica, corruzione nei gangli vitali della cosa pubblica – sia una continuità storica con l’autoritarismo che da Habib Bourguiba a Ben Ali pone sotto lo sguardo degli osservatori occidentali una verità tanto sgradita quanto innegabile: dopo oltre mezzo secolo di autoritarismo, la democrazia costituzionale non può essere una conquista immediata. Non può esserlo neppure a Tunisi, dove pure esistono una borghesia operosa e un sistema di rappresentanza sindacale ormai consolidati, per quanto impoverita l’una ed esulcerato l’altro dalla delusione nei confronti del vecchio Islam politico venato di panarabismo (il cui conclamato fallimento ha ben disvelato l’Economist nel suo ultimo speciale: i tre più influenti Paesi mediorientali, Iran-Turchia-Israele, non sono arabi) e del più recente islamismo radicalizzato. E con ciò arriviamo al secondo volto dell’equivoco in esame.

Saïed non agisce in stretta continuità con la causa dei Fratelli musulmani. Avverte il dovere di onorare la propria fama d’incorruttibile, ma sembra essergli ben chiaro che sotto l’ombrello plumbeo di Ennahda la Tunisia si è scoperta la maggiore esportatrice globale di foreign fighters e il teatro di omicidi a sfondo politico-religioso rispetto ai quali la magistratura si è dimostrata più permeabile ai condizionamenti della Fratellanza. A distanza di soli sei anni, sembrano purtroppo cadute nell’oblio, oggi, le motivazioni che nel 2015 condussero il Quartetto oltre la soglia del premio Nobel per “il contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralistica in Tunisia, sulla scia della Rivoluzione”.

Una volta riconosciuta l’obsolescenza della dialettica “panarabismo - islamismo sunnita”, s’impone un netto cambio di schema per leggere la prospettiva tunisina. La speranza di una transizione controllata e incruenta deve fare i conti con la realistica accettazione del sistema di geometrie variabili interno alla Fratellanza musulmana, rispetto al quale la Tunisia occupa attualmente uno spazio ideale intermedio tra opposte tendenze.

Se ancora non è chiaro quali siano le ambizioni ultime di Saïed e se ancora non è dato conoscere l’esito di alcuni suoi atteggiamenti contenitivi, quando non repressivi, nei confronti del potere destituito, resta il fatto che il presidente è in questo momento il monopolista dell’interlocuzione con l’Occidente. La valenza strategica del suo ruolo, del resto, così come della sua volontà formale di ricondurre il Paese sulla retta via della rivoluzione, è confermata dal tragico “testacoda” afghano: se la ritirata degli Stati Uniti finirà per produrre un arco di crisi che si proietterà dall’Asia estrema fino al Sahel e al Maghreb, passando per Turchia e Medioriente, non deve sorprendere che qualcuno si stia portando avanti con il “lavoro sporco”. È il caso di Azzam Tamimi, storico leader dell’ala estremista dei Fratelli musulmani stanziato a Londra, protagonista d’una tempestiva campagna di delegittimazione del “golpista Saïed” che procede di pari passo con la battaglia contro la diabolisation dei “più democratici patrioti” Talebani.

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