La guerra in Sudan dopo un mese di battaglie
Le RSF e l’esercito sudanese trattano a Gedda mentre la crisi umanitaria galoppa. I problemi dei diversi attori coinvolti nella transizione complicano le mediazioni. La Russia aspetta e si prepara a salire sul carro del vincitore.
Corsa contro il tempo a Jedda
Partiamo dai numeri: sono 450,000 gli sfollati e i rifugiati che hanno abbandonato il Sudan fino a questo momento. Tra 4 e 5 sono i cessate il fuoco proclamati ma solo parzialmente rispettati. Più di 400 i morti e più di 3,200 i feriti accertati fino a questo momento. La rete ospedaliera di Khartoum è collassata da circa una settimana e fra poco potrebbe avvenire anche nel resto del paese. Adesso aggiungiamo un dato temporale: il conflitto in Sudan dura da meno di un mese. Da qualunque prospettiva la si guardi, quella che sta andando in scena nel paese del Corno d’Africa è una catastrofe umanitaria, arginata per il momento solo da alcuni aiuti umanitari confluiti a Port Sudan da cui parte il coordinamento di tutti gli aiuti. Uno scenario di guerra prolungata porterebbe a una crisi difficilmente sostenibile sul piano geopolitico e che, gioco forza, avrebbe effetti regionali potenzialmente destabilizzanti per tutto il lato sud del Mediterraneo.
In questo contesto, i colloqui in corso a Gedda, Arabia Saudita, tra i rappresentanti delle milizie paramilitari guidate da Mohammed Hamdan Dagalo, più noto come Hemedti, e quelli dell’esercito nazionale sudanese (SAF secondo l’acronimo inglese) guidato dal presidente del Consiglio Sovrano del Sudan, Abdel Fattah al-Burhan, sembrano sempre più una corsa contro il tempo. I colloqui di Gedda (supportati anche dagli USA e dall’ONU) sono al momento l’iniziativa di mediazione più rilevante dall’inizio del conflitto, anche perché è l’unica che è riuscita a portare al tavolo delle trattative le parti dopo il fallimento delle mediazioni dell’IGAD e della Lega Araba. Riyad ha già stanziato 100 milioni di dollari di aiuti umanitari al Sudan e, di concerto con gli Emirati Arabi Uniti, sta procedendo all’attuazione di corridoi umanitari che, via mare, stanno trasportando i profughi da Port Sudan. Intanto, il Consulente per la Sicurezza Nazionale americano, Jake Sullivan, è atterrato a Gedda per prendere parte alla mediazione. I funzionari del ministero degli esteri saudita si mostrano abbastanza sicuri in merito alla possibilità di raggiungere un cessate il fuoco. Tali presupposti, tuttavia, contrastano con quelli delle RSF e delle SAF che, in un comunicato congiunto, hanno fatto sapere che il meeting di Gedda è focalizzato solo sull’implementazione dei corridoi umanitari e non sulla cessazione delle ostilità. Nella giornata dell’8 maggio si è avuta un’apertura del generale al-Burhan, che si è detto disponibile a una soluzione diplomatica della crisi a patto che le RSF si ritirino dai centri abitati e dalle strutture pubbliche. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Bloomberg, i due generali sarebbero in procinto di firmare un accordo ‘per garantire gli aiuti umanitari in linea con quanto dichiarato sino a qui
Una guerra per tanti attori
Quando il 15 aprile le forze delle RSF hanno marciato contro le posizioni dell’esercito nazionale, esse non hanno fatto altro che seppellire nei fatti un processo di transizione abortito da tempo. Il fallimento dell’accordo tra civili e militari, annunciato nel dicembre scorso con grande clamore, ha infatti messo a nudo i limiti dello sforzo della comunità internazionale per condurre il Sudan all’approdo del governo civile.
Da una parte c’è l’Egitto che mantiene la linea restando schierato a favore delle SAF. Sulla relazione tra il Cairo e i militari di Khartoum, influisce anche la relazione personale tra Al-Sisi e al-Burhan, che hanno frequentato la stessa accademia in gioventù ma, soprattutto, la percezione strategica del paese delle piramidi per il Sudan, considerato come il proprio giardino di casa se non addirittura come parte integrante del proprio territorio da parte degli ultranazionalisti. Al netto dell’importanza del paese per la geopolitica del Cairo la crisi in corso ha messo in luce tutti i limiti del ruolo regionale dell’Egitto. Infatti, sembra che la congiuntura finanziaria sfavorevole che ha colpito il paese stia influenzando la capacità dell’Egitto d’influenzare la crisi al di là dell’assistenza umanitaria prestata nelle zone di conflitto. Già a gennaio, il Cairo aveva provato a inserirsi nel processo di transizione con la visita del capo dell’intelligence Abbas Kamel, che aveva offerto ai capi dell’RSF e delle SAF una mediazione alternativa a quella supportata dal Quad (il quartetto composto da Stati Uniti, Regno Unito, Arabia Saudita ed Emirati) che, secondo alcuni, avrebbe tutelato maggiormente il ruolo delle forze armate nel paese. L’idea, però, è respinta in blocco da Hemedti ed al-Burhan preoccupati d’indispettire gli Emirati, l’Arabia Saudita e gli USA. Resta sul tavolo la possibilità di un’opzione militare che, secondo alcune fonti, sarebbe già in atto con i piloti egiziani che avrebbero pilotato i velivoli delle SAF. Un’opzione, capace potenzialmente di alterare gli equilibri sul campo, che è piena d’incognite anche per il suo fautore: come spiegare a una popolazione impoverita che è nel suo interesse morire per Khartoum?
Gli scontri in Sudan rappresentano anche un banco di prova notevole per la nuova diplomazia regionale delle monarchie del Golfo. L’attivismo di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti in Sudan è direttamente proporzionale all’importanza che quest’ultimo gioca nelle loro strategie regionali. Impegnate in un progressivo spostamento strategico verso l’Asia, la stabilizzazione del paese è un pezzo importante delle strategie marittime delle due monarchie che hanno speso insieme ingenti somme nel paese. Solo nel settore immobiliare di Khartoum i due paesi hanno complessivamente investito 27 miliardi di dollari, mentre un dato più recente e più rivelatore delle strategie dei due paesi è quello dell’accordo di principio tra l’Abu Dhabi Ports Group e il Consiglio Sovrano per la costruzione del distretto commerciale (comprensivo di porto e aziende agricole) di Abu Amama per 6 miliardi di dollari. Le ingenti somme finanziarie investite dalle monarchie del Golfo nel corso del processo di transizione hanno anche salvato il Sudan dal collasso finanziario, un’opzione caldeggiata anche dagli Stati Uniti che hanno sospeso gli aiuti umanitari dopo il colpo di stato del 2021 contro il governo di Hamdok. Gli USA, tuttavia, erano consci della necessità di sostenere il processo di transizione soprattutto sul piano finanziario. Al netto dell’utilità di questo approccio, che ha sicuramente contribuito a mantenere in vita per quanto possibile il processo di transizione, Abu Dhabi e Riyad hanno compiuto un errore di valutazione nella politica sudanese: l’importanza di una componente civile forte per stabilizzare le frizioni interne all’esercito. Troppo focalizzate sul mantenimento della pace tra le RSF e le SAF, le iniziative delle monarchie del Golfo hanno trascurato questa componente e quindi ignorato un dato che era sotto gli occhi di tutti: lo scontro tra le due fazioni era inevitabile. In queste ore Abu Dhabi e Riyad stanno spendendo importanti risorse diplomatiche (e ne hanno in abbondanza) per risolvere (o quantomeno arginare) il conflitto ma non è detto che tale tentativo vada a buon fine, considerando come le ostilità siano ormai avvitate in una lotta esistenziale. La speranza, per quanto terribile, è che l’aggravarsi della crisi umanitaria porti a una sempre più grande influenza della leva finanziaria (unica arma in mano alla diplomazia del Golfo) spingendo nuovamente i militari sulla linea dettata dal Golfo.
Un’analisi del conflitto in corso in Sudan non può prescindere dal ruolo della Russia. Sebbene non si possa escludere che sul piano delle dinamiche macroeconomiche la guerra in Ucraina ha influenzato la transizione sudanese (come del resto ha fatto in tutta la regione) leggere i fatti di Khartoum come un nuovo fronte del confronto tra Russia e Occidente è grossolano per almeno due motivi: 1) non tiene conto di alcuni dati fattuali; 2) non tiene conto del ruolo (preponderante) giocato dagli obiettivi e dai calcoli delle forze sul campo. Andando per gradi: la presenza russa in Sudan è per molti versi argomento da libri di storia, visto che risale all’epoca dell’Unione Sovietica, se non addirittura a quella zarista. In tempi più recenti, Mosca ha supportato il regime di al-Bashir contro la piazza nell’ambito di una più ampia strategia controrivoluzionaria che il Cremlino porta avanti nella regione dai tempi delle primavere arabe. In questo contesto è stato determinante il ruolo giocato dal Wagner Group, impegnato in una campagna di disinformazione a supporto del regime già nel 2019. Dopo la caduta di al-Bashir, la Russia è rimasta nel paese coltivando le proprie relazioni con entrambi i generali per il raggiungimento di alcuni obiettivi funzionali alla propria strategia nel Mediterraneo, come la costruzione della base navale di Port Sudan. In questo contesto il Wagner Group ha intessuto legami solidi con Hemedti e le RSF, soprattutto collaborando nello sfruttamento delle miniere d’oro del paese. Questo legame, però, non ha impedito alla Russia di coltivare relazioni solide in parallelo con al-Burhan e l’esercito che ad oggi continua ad essere un cliente privilegiato dell’industria bellica russa. Questo tipo di rapporti ambivalenti è confermato anche dall’avanzamento del progetto di Port Sudan a cui un comitato tecnico composto da esponenti dell’esercito ha dato esito favorevole due settimane prima dello scoppio delle ostilità. Quanto alla possibilità che la Russia rifornisca di armi le RSF tramite gli uomini di Haftar in Libia, teoria entrata in voga grazie a un articolo del Wall Street Journal, questa non tiene conto di una realtà sul campo che va avanti da circa 10 anni. Il traffico d’armi che collega al-Kufra al Sudan e alle RSF è funzionale al finanziamento delle truppe di Haftar in Libia e di conseguenza non è frutto della guerra ma preesistente. La Russia ha avuto un ruolo determinante, tuttavia la possibilità di uno scontro che si prolunghi nel tempo è contrario ai propri interessi strategici. In questo momento Mosca resta “seduta sullo steccato” pronta a salire sul carro del vincitore nel momento in cui questo sarà allestito.