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La Libia a un passo dal baratro

Le ultime evoluzioni della situazione in Libia potrebbero portare all’interruzione parziale delle attività petrolifere e rischiare di riaprire il conflitto. L’analisi di Daniele Ruvinetti

C’è un aspetto che riguarda il petrolio, uno che concerne la stabilità regionale, uno che interessa le potenze internazionali, tutto con ricaduta diretta sui libici. Il destino della Libia torna centrale per gli equilibri del Mediterraneo, con una policrisi che avvolge il paese, facendo da sfogo a disequilibri noti da tempo, ormai trasformati in destabilizzazione.

Il caos circonda il Governo di Unità Nazionale, il cui mandato onusiano è di fatto scaduto (perché in tre anni non è stato mantenuto l’obiettivo di organizzare le elezioni) ma il cui leader, Abdul Hamid Dbeibah, non sembra intenzionato a lasciare il potere. L’emergenza della crisi istituzionale e personale con il presidente della Banca Centrale libica, Sadiq El Kabir, che dura da oltre un anno, ha portato alla destituzione di quest’ultimo — per volontà del governo accordata dall’organo superiore, il Consiglio Presidenziale creato dal processo del Forum di dialogo libico. È una mossa non concessa dagli accordi del forum stesso, che hanno prodotto questa fase di apparente tentativo di stabilizzazione, con El Kabir che non arretra di un centimetro e molti degli attori internazionali che non riconoscono la sua sostituzione come atto legittimo e legalmente autorizzato. Se si considera che questo dibattito più che acceso ha già prodotto in almeno un paio di occasioni la paralisi dell’intero sistema bancario nel paese, si comprende quanto lo stallo sia profondo e si rifletta tanto sulla quotidianità quanto sulle relazioni finanziarie internazionali della Libia.

Ma non solo. A complicare la situazione ci sono anche i movimenti militari dall’Est, dove l’esercito guidato da Khalifa Haftar, che controlla Bengasi e protegge militarmente la Camera dei Rappresentanti auto-esiliatosi a Tobruk da ormai un decennio, si è mossa verso Ovest. Direzione Ghadames, per un’operazione raccontata come missione contro i traffici illegali al confine tra Algeria e Tunisia; un’azione di captatio benevolentiae nei confronti di chi osserva dall’esterno. Ma è soprattutto un modo per mostrare le armi a Dbeibah – armi di provenienza russa, visto che Mosca da anni (già ai tempi della Wagner, ora con l’Afrika Corp) è finanziatore militare di Haftar. Al di fuori della sfera militare, si registra anche il riavvio di un dialogo tra El Kabir e Haftar, indicativo dopo anni di scontro.

Dall’Est arriva anche un’altra problematica: la Camera ha disconosciuto definitivamente il governo di Dbeibah e pure il Consiglio Presidenziale, promuovendo la strada per la creazione di un nuovo esecutivo, unitario nei fatti e operativo per portare il Paese alle agognate elezioni. Da notare inoltre che nel cosiddetto “Senato libico”, l’Alto Consiglio, ci sono fratture e scontri per la leadership, recentemente sostituta e non riconosciuta in forma unanime.

Questo set di tensioni e frammentazioni si ripercuote sul petrolio, bene che potrebbe fare della Libia un paese ricco e invece è costantemente usato, da anni, come leva di forza tra le fazioni protagoniste delle divisioni interne. All’inizio di questo mese, quando il più grande giacimento petrolifero della Libia, El Sharara, ha interrotto le operazioni, si era compreso che il paese si stava dirigendo verso una nuova ondata di escalation militare. Da allora, tutti i segnali hanno confermato questa direzione, culminando con l’annuncio del governo libico orientale di interrompere tutti i flussi di petrolio sotto il suo controllo. L’istituzione non ha riconoscimento internazionale, ma è in grado di esercitare controllo e influenza su un’area ricca come quella dei giacimenti della Cirenaica.

In termini semplici, il conflitto ruota attorno alla preoccupazione del governo orientale, dominato militarmente dal signore della guerra Haftar e politicamente appoggiato dai leader della Camera come il presidente Aguila Saleh, che il tentativo del governo occidentale di Dbeibah, di sostituire l’attuale governatore della Banca Centrale possa compromettere l’accesso del primo alle entrate petrolifere.

Per risolvere pacificamente la disputa, sarebbe necessario un accordo tra Haftar e Dbeibah, probabilmente sotto pressione internazionale, per garantire la continua distribuzione delle entrate del paese. Tuttavia, ciò risulta estremamente difficile per diverse ragioni: non esiste alcuna fiducia tra le due parti, gli attori internazionali capaci di esercitare pressione su entrambe le parti non sono uniti né particolarmente influenti in questo momento, e il conflitto non riguarda più solo la Banca Centrale, ma è ormai sfociato fino a includere il controllo più generale sul sistema politico e sul territorio del paese.

In altre parole, a breve termine, ci sono più scenari negativi che positivi all’orizzonte. L’iniziativa di formare un governo terzo sembra quella più efficace, ma richiede innanzitutto un’accettazione da parte di Tripoli e Dbeibah, che dovrebbe fare un passo indietro. Su tutto, il ruolo dei grandi attori esterni sarà determinante. Mentre gli USA sembrano interessati a cercare con un nuovo governo la stabilizzazione, resta da capire che partita intendano giocare Turchia ed Egitto, rispettivamente posizionati su Tripolitania e Cirenaica. C’è poi un ruolo velenoso della Russia, che, come in altri dossier, trae profitto dall’instabilità. Anche per questo sembra necessario che USA e UE si spendano per promuovere quella stabilizzazione. Ma riusciranno a trovare volontà e forza per aumentare in modo efficace il loro impegno?

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