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La morte di Sinwar e il futuro del Medio Oriente

Nel breve periodo la guerra potrebbe continuare. Sulle conseguenze a medio termine peserà quanto succede nell’attuale confronto in corso tra Israele e Iran. Il punto di vista di Daniele Ruvinetti

Uno degli aspetti più rilevanti dell’eliminazione di Yahya Sinwar è il potenziale impatto sui negoziati tra Israele e Hamas, mediati da attori internazionali come Stati Uniti, Qatar ed Egitto. La stabilità del governo Netanyahu dipende anche da come gestirà la questione degli ostaggi e le proteste delle loro famiglie, ancora segnate dal drammatico attacco di Hamas avvenuto oltre un anno fa. E dall’operato del governo israeliano dipende l’andamento della crisi regionale.

Sinwar, noto per il suo radicalismo, è stato un ostacolo a qualsiasi forma di compromesso con Israele. Le sue richieste, come il completo ritiro israeliano da Gaza e la liberazione di prigionieri palestinesi di alto profilo, erano considerate irrealizzabili da Israele e hanno bloccato ogni progresso nelle trattative. La sua morte apre uno scenario di incertezza: Chi erediterà il ruolo di leader negoziatore di Hamas? E come gestire i negoziati? Nel breve termine, la leadership militare potrebbe tentare di consolidare la propria posizione per evitare di mostrare segni di debolezza. Tuttavia, la pressione internazionale per risolvere diplomaticamente il conflitto, soprattutto con la liberazione degli ostaggi, potrebbe spingere Hamas verso una strategia meno intransigente.

L’eliminazione di Sinwar potrebbe in definitiva provocare caos all’interno di Hamas, innescare fenomeni di ulteriore radicalizzazione, ma anche aprire potenziali “vie d’uscita” dal conflitto. Tale destabilizzazione interna potrebbe essere sfruttata da Israele e dai suoi alleati per ottenere vantaggi significativi. Un nuovo leader, specialmente se non proveniente da Gaza, potrebbe dimostrarsi più incline a negoziare rispetto a Sinwar, offrendo una rara opportunità per spingere nuovamente per un cessate il fuoco. Parallelamente, Netanyahu si troverebbe sotto una pressione politica crescente per chiudere un accordo sugli ostaggi, data la nuova configurazione della leadership di Hamas.

Per accelerare il collasso dell’organizzazione, Israele e i suoi partner (e gli stati arabi) potrebbero adottare una strategia che preveda un’amnistia di massa per i membri di Hamas disposti a deporre le armi, oltre a ricompense finanziarie per coloro che contribuiscono alla liberazione degli ostaggi. Israele, inoltre, potrebbe impegnarsi a ritirarsi da Gaza senza procedere a una ricolonizzazione della Striscia, facilitando così l’ingresso di figure internazionali, arabe e dell’Autorità Palestinese, con l’obiettivo di stabilizzare la situazione. Tuttavia, la fattibilità di queste misure dipenderà dalla capacità di Israele e dei suoi alleati di gestire le dinamiche interne di Hamas e le reazioni della leadership.

Israele dovrà dunque bilanciare l’azione militare con un’opportunità politica. Un negoziato circoscritto che conduca alla liberazione degli ostaggi potrebbe emergere come una soluzione pragmatica, anche se una pace duratura appare improbabile nel breve termine.

Per lo Stato ebraico, l’eliminazione di Sinwar rappresenta una vittoria strategica, ma non definitiva. Il primo ministro Netanyahu dovrà dimostrare la capacità di capitalizzare questa vittoria non solo per continuare la campagna militare contro Hamas, ma anche per ottenere risultati concreti (la liberazione degli ostaggi e lo smantellamento delle infrastrutture militari di Hamas).

Resta centrale la questione del “day after” per Gaza. Alcuni settori dell’estrema destra israeliana spingono per un rafforzamento della presenza israeliana nel nord di Gaza, ma questa strategia potrebbe indurre i palestinesi verso posizioni più radicali, alimentare nuove tensioni con la comunità internazionale, nonché complicare la normalizzazione con i paesi arabi.

Da analizzare ci sono infatti le posizioni dei grandi attori regionali. L’Egitto, per esempio, si trova in una posizione particolarmente delicata. Da una parte, ha un interesse strategico a mantenere la stabilità a Gaza, per evitare che il conflitto si estenda e destabilizzi la penisola del Sinai. Dall’altra, la presidenza Al-Sisi dovrà fronteggiare una crescente pressione interna, con un’opinione pubblica sempre più critica verso Israele e solidale con i palestinesi.

Anche l’Arabia Saudita, che sta cercando di normalizzare i rapporti con Israele, potrebbe vedere nella morte di Sinwar un’opportunità per accelerare il dialogo. Tuttavia, Riad dovrà bilanciare questo avvicinamento con il mantenimento di legami con la base islamica regionale e la causa palestinese.

L’eliminazione di Sinwar, pur indebolendo Hamas, potrebbe poi provocare reazioni inattese anche tra gli alleati del movimento nella regione, come l’Iran e i suoi satelliti.

Hezbollah ha connesso i suoi attacchi missilistici contro Israele al conflitto a Gaza, e la campagna militare israeliana in Libano non si arresterà a meno che non venga raggiunto un grande accordo che coinvolga anche il gruppo libanese. L’offensiva contro Hezbollah è sostenuta da un consenso molto ampio all’interno delle forze militari e politiche israeliane.

Israele, infatti, ha già avviato operazioni aeree e terrestri nel sud del Libano con l’obiettivo di ridurre le capacità offensive della milizia libanese, in particolare eliminando i suoi armamenti più letali, come missili balistici e da crociera. La distruzione di queste risorse è cruciale non solo per la sicurezza di Israele, ma anche per prevenire un’escalation su larga scala in tutta la regione. Il ritorno degli israeliani evacuati dalle aree settentrionali dipenderà dalla capacità dell’IDF di neutralizzare in modo definitivo la minaccia rappresentata da Hezbollah, il che rende improbabile una cessazione delle ostilità nel breve periodo — anche perché Israele potrebbe essere portato a vedere con scetticismo nuovi accordi, non fidandosi dei libanesi. Non a caso Hezbollah ha inaugurato una “nuova fase” nello scontro, lanciando un drone contro la residenza privata marittima del primo ministro israeliano.

Nel fronte yemenita, gli Houthi stanno acquisendo una crescente visibilità internazionale. L’Iran, il principale sostenitore degli Houthi (e di Hezbollah), probabilmente intensificherà il suo appoggio fornendo al gruppo armi avanzate e componenti tecnologiche per migliorare la loro capacità di compiere operazioni marittime e di colpire obiettivi israeliani. Si pensa che Teheran possa collaborare con Mosca per dotare gli Houthi di missili anti-nave, aumentando così la minaccia per le rotte commerciali e navali della regione.

Tuttavia, questa maggiore visibilità comporta anche rischi significativi. Il leader degli Houthi, Abdul Malik al-Houthi, potrebbe diventare un bersaglio per Israele, come già accaduto per i leader di Hezbollah e Hamas. L’eliminazione di un leader di tale rilievo potrebbe causare una crisi di leadership all’interno del movimento e aggravare la frammentazione tra le reti di alleati e proxy sostenuti dall’Iran.

In sostanza, nel breve periodo difficilmente assisteremo a qualcosa di diverso dalla deriva attuale. Dinamiche che potrebbero avere una scossa anche dalla eventuale reazione con cui Israele potrebbe colpire l’Iran, dopo l’attacco subito il primo di ottobre. Nel medio termine è possibile che la leadership politica di Hamas riveda parte delle posizioni guerresche scendendo a forme di dialogo con Israele. Ma la domanda è se il procedere degli eventi intralcerà i processi di ipotetica distensione senza poter mai raggiungerne un innesco negoziale.

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