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La postura dell’India nel puzzle afghano

Il Governo indiano dimostra una grande flessibilità politico-diplomatica, ma non mancano contrapposizioni interne.

Anche chi non nutre una particolare simpatia per l’Esecutivo indiano guidato da Narendra Modi deve obiettivamente riconoscere che nel puzzle afghano, per quello che al momento è dato capire e sapere, esso ha dimostrato un’inaspettata flessibilità politico-diplomatica. Merito, in grande parte, dell’abilità tattica del responsabile del dicastero degli Esteri, il ministro Subrahman Jaishankar. Che fin dallo scorso luglio, intuita “l’aria che tirava in Afghanistan”, ha lavorato, da un lato, per disancorare il suo governo dalla ferrea ma perdente alleanza con quello di Ashraf Ghani, in via di liquidazione a Kabul, aprendo al contempo, ma senza farne parola, un canale di comunicazione diretta con i Talebani. Dall’altro, enfatizzando l’ansia della pubblica opinione indiana per il rimpatrio dalla polveriera afghana dei connazionali Indu e Sik, è riuscito, in nome dell’unità del Paese, a quietare i sussulti dei partiti dell’opposizione, ferocemente contrari a qualsiasi apertura del governo nei confronti dei Talebani filo-pakistani.

Al riguardo, riferisce Radha Kumar su Indian Express del 27 agosto: “On Thursday 26th, External Affairs Minister S. Jaishankar briefed the Opposition parties on India’s Afghanistan policy in the wake of the Taliban takeover. The main focus of his briefing was in India’s evacuation effort, but he also added that the Indian government’s policy is to wait and watch. The briefing appears to leave as much unsaid as said”. Tattica forse agli occhi di molti spregiudicata, ma obbligata. Infatti, spiega un esperto diplomatico di lungo corso quale Vivek Katju: “some members of the Indian foreign policy and strategic community now seem willing to accept the need for open contact with the Taliban by the government, others are not willing to go so far”.

Una contrapposizione non solo politica, ma di idee e di sentimenti. Che vede “l’un contro l’altro armati” due mondi di grande peso della società indiana: quello degli intellettuali e quello dei militari. Basta leggere, per quanto riguarda il primo, l’appassionato The American withdrawal from Afghanistan and the sins of empire pubblicato lo scorso 22 agosto dal grande politologo, e intransigente oppositore del governo, Pratap Bhanu Mehta, secondo il quale “The exact shape of the Taliban, Isis, al Qaida is no more over-determined by intervention of great powers, than it is by some more primordial essence of a culture… Will the Taliban reinvent itself? There is reason to be deeply sceptical that it will”. Concetti ripresi e ribaditi, a distanza di pochi giorni, dall’autore di Paradise at War: A Political History of Kashmir, Radha Kumar. Che, in polemica con la politica del ministro Jaishankar, scriveva: “At present, the message we are sending out […] is one of retreat. This is not a message we can afford to send, when China and Pakistan are cementing their power in the region, along with their alliance against India”.

Di parere opposto i militari. Favorevoli, per ragioni di puro e semplice realismo, all’apertura di un dialogo diretto con i Talebani. Visto che, in un seminario a porte chiuse tenutosi alla fine del mese di agosto, il comandante in capo dell’esercito di Delhi, il generale Bipin Rawat, aveva candidamente confessato che: “From India’s perspective we were anticipating a Taliban takeover of Afghanistan […] We were anticipating this thing happening a couple months down the line”.

Ma mentre in India si discuteva, la diplomazia di Delhi, dietro le quinte, operava. Tanto è vero che il 16 agosto, giorno successivo alla presa di Kabul da parte dei Talebani, il Consiglio di Sicurezza dell’ONU presieduto dall’indiano T.S. Tirumurti “has dropped a reference to Taliban from a paragraph in its statement that called on Afghan groups not support terrorists […] The reference to the Taliban was omitted indicating that the Taliban was perhaps being seen as a state actor by United Nations Security Council members, including India”. A proposito della quale, scriveva su Twitter Syed Akbaruddin, ex ambasciatore indiano alle Nazioni Unite: “In diplomacy… a fortnight is a long time… The T word is gone”.

Una mossa colta al volo dalla leadership talebana che, come si è visto a più riprese negli ultimi giorni, non perde occasione per confermare agli occhi del mondo di essere assai diversa da quella brutalmente oscurantista e isolazionista del passato. Infatti, a sole 24 ore dalla pubblicazione del succitato documento del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, le agenzie di stampa riportavano quanto segue: “In what is being seen as a signal to India, Sher Mohammad Abbas Stanekzai, deputy head of Taliban’s office in Doha, in a carefully scripted statement read out in Pastho-46-minute video message broadcast on the group’s social media platforms and Afghanistan’s Milli Television […] said that India is very important for this subcontinent and that his group wants to continue Afghanistan’s cultural, economic, political and trade ties with India like in the past […] It is the first categorical statement directed at India by a senior leader of the Taliban since they captured power in Kabul”.

Tutto bene dunque? Fino ad un certo punto. Visto che Abbas Stanekzai è lo stesso che “in 1996 has made a similar overture to India after the Taliban’s first takeover of Kabul when he was Deputy Foreign Minister of a caretaker regime”. Ragion per cui dovremo attendere i fatti per capire dove sta la verità.

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