La Serbia di Vucic al bivio
Tumulti interni e pressioni geopolitiche destabilizzano la maggioranza di governo: le elezioni di giugno rappresenteranno un turning point per il paese? L’analisi di Giorgio Cella

Tra i paesi dell’Europa centro-orientale e balcanica che la Storia ci ha insegnato a monitorare nel loro corso diacronico, si trova senz’altro la Serbia. Dal suo antico ruolo di scudo della cristianità nei tempi ottomani e poi della Questione d’Oriente, sino agli inizi del secolo breve quando divenne catalizzatore delle molteplici tensioni che sfociarono nella Grande Guerra, per poi costituire il primo punto di rottura nel mondo post-bipolare con le guerre nei Balcani e con il coinvolgimento della NATO, Belgrado è stata, nel bene o nel male, sempre in grado di prendersi una sua scena nel palcoscenico internazionale.
Ciò vale anche per i nostri giorni, dove la Serbia del governo di Alexander Vucic - al potere da oltre dieci anni - oltre che in un sempre più difficile equilibrio geopolitico esterno (sotto la pressione di molteplici attori statali e nell’incertezza di allineamenti e alleanze), si trova anche e soprattutto in difficoltà sul piano domestico, per via di una lunga serie di proteste di massa. Le prime manifestazioni popolari sono occorse nel novembre scorso, quando la tettoia della nuova stazione della città serba di Novi Sad è crollata, causando quindici morti. Dal 2021 in poi la stazione aveva subito dei lavori di rinnovamento sotto l’ombrello della Belt and Road Initiative cinese, sebbene implementati da un consorzio di quattro imprese, di cui due cinesi e due europee (una ungherese e una francese). Alle prime proteste per l’incidente, il governo, oltre a mostrarsi poco trasparente riguardo la pubblicazione dei documenti sugli appalti richiesti dai manifestanti, ha inviato unità di polizia per reprimere e disperdere le proteste, mossa che non ha fatto altro che incendiare ulteriormente un’opinione pubblica evidentemente non più tollerante verso dinamiche e misure verticistiche.
Le manifestazioni, trasversali alla società serba ma portate avanti e coordinate da una rete di studenti universitari, sono proseguite e aumentate nel corso degli ultimi mesi, accusando fondamentalmente il governo Vucic di corruzione e negligenza dopo il tragico incidente, esigendo misure di trasparenza e accountability nella gestione della res publica. Il continuato prosieguo delle manifestazioni ha esercitato una grande pressione su Vucic, spingendolo in una situazione politica di vulnerabilità – la più critica della sua longeva carriera politica. Una governance, quella di Vucic, che si è dimostrata negli anni capace di gestire una fase di transizione del Paese in modo machiavellico e disinvolto, in una progressivamente sempre più ardua ricerca di un equilibrio e di equidistanza tra l’occidente euro-atlantico da un lato, la Russia, la Cina e i BRICS dall’altro, e che sul piano domestico è stata tacciata dalle organizzazioni per i diritti umani e la democrazia, di corruzione e indebita pressione sugli avversari politici.
Tornando alla situazione corrente, le proteste della popolazione serba, così continuate e ben coordinate dalla rete universitaria degli studenti, hanno messo il presidente in un angolo, forzandolo a concedere quanto richiesto in termini di trasparenza per quanto occorso nel tragico evento di Novi Sad. Questa forma di potere dal basso (grassroot movement) sembra ora aver aumentato gli obiettivi e le cause della sua esistenza politica, trascendendo dal focus iniziale interamente proiettato sull’incidente di Novi Sad, ma allargando dunque il proprio spettro di azione anche ad altre, distinte situazioni politiche. Una di queste è sicuramente quella che ha recentemente visto le autorità serbe dare in affitto alla società di investimenti statunitense Affinity Partners, di proprietà di Jared Kushner - il potente e globalmente influente genero del presidente statunitense Donald Trump - una vecchia base militare dell’esercito jugoslavo divenuta iconico simbolo dei 78 giorni di bombardamenti dell’Operazione NATO Allied Force del ’99. I manifestanti, nel giorno del 26° anniversario dell’offensiva della NATO su Belgrado, hanno spiegato ai media come l’edificio - una “storica” ex base militare dell’esercito jugoslavo che nel design riproduceva stilisticamente una gola del fiume Sutjeska nella Bosnia orientale, poi danneggiato dal conflitto e divenuta un simbolo della guerra stessa - dovrebbe rimanere come simbolo dell’aggressione NATO al paese balcanico, non affittata o venduta a grandi colossi finanziari globali.
Dopo essere giunto a più miti consigli su come trattare con i manifestanti, Vucic è comunque rimasto in sella, da navigato politico quale è, mentre è caduta la testa del primo ministro Milos Vucevic, che ha dato le dimissioni sul finire di gennaio. Le dimissioni del premier serbo non sono tuttavia bastate a placare la scia dello scontento popolare, portando Vucic a indire nuove elezioni in giugno, nel tentativo di giocarsi tutto nel confronto democratico diretto con l’elettorato. L’incertezza e la volatilità politica nel Paese dunque aumenta. In questo sempre agitato contesto balcanico, torna utile una frase dello storico giornalista, inviato e politico italiano Demetrio Volcic che, nel tentativo di spiegare la mentalità e l’attaccamento alla Storia dei serbi (e, aggiunge chi scrive, anche del resto dei popoli dell’Europa centro-orientale) e come ciò influisca sui processi politici, affermò che “è difficile pensare che da noi qualcuno oggi ricordi il sacco di Costantinopoli. Invece è facile che un contadino serbo sappia ciò che avvenne nel 1204, durante la quarta calata dei crociati. Glielo ricordano i canti epici". Se tale riflessione risultasse tuttora valida anche per le nuove generazioni di serbi che diranno la loro al prossimo appuntamento elettorale di giugno, queste elezioni si prospetterebbero probabilmente in salita per il governo in carica.