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La sfida dei “battlegrounds states” nella corsa alla Casa Bianca

La vittoria elettorale nei sette “battlegrounds states” si gioca sul filo di pochi voti ciascuno. Da questi risultati potrebbe dipendere l’esito finale delle elezioni presidenziali del prossimo 5 novembre. Il punto di vista di Stefano Marroni

Non sarà una battaglia all’ultimo voto, la sfida che nella notte del 5 novembre incoronerà il quarantottesimo inquilino della Casa Bianca. A meno di un mese da quelle che tutti i media americani, a destra e a sinistra, considerano le più importanti degli ultimi decenni se non del secolo, il risultato assoluto non lascia dubbi: se si votasse come in Europa, dove conta il voto diretto dei cittadini, Kamala Harris avrebbe largamente in tasca la vittoria che le regalerebbero i circa 5 milioni di voti in più che i sondaggi le assegnano a livello nazionale, arrotondando a poco più di tre punti percentuali – 49 contro 46 per cento - il vantaggio su Donald Trump. E’ una rincorsa clamorosa, dopo i mesi in cui il consenso dei democratici si è logorato nel lungo tira-e-molla sulla candidatura di Biden, ma non assicura ancora la vittoria a quella che potrebbe davvero essere la prima donna Commander-in-Chief nella storia americana: ma il meccanismo del sistema elettorale disegnato dai padri fondatori - in cui l’indicazione del presidente eletto dipende da un collegio costituito da “grandi elettori” indicati col sistema maggioritario da ciascuno stato - può cambiare tutto. E di fatto repubblicani e democratici si battono in qualche caso per la conquista non di milioni, ma di poche decine di migliaia di voti. Quelli che faranno la differenza nei sette stati (più, forse, il Nebraska) in cui il margine tra i due contendenti è così esiguo che nel gergo dei sondaggisti i loro voti verranno assegnati “lanciando la monetina”.

Negli Usa li definiscono battleground states, gli stati campo di battaglia. E sono diventati l’oggetto di una competizione che a tratti ha i contorni di una partita a “Risiko”, perché nei calcoli degli strateghi dei due partiti – assicura Dan Kanninen, che dirige la campagna Harris in questi stati – “tutti e sette possono costituire il punto critico, e la conquista di anche un solo di loro può cambiare di segno tutta la partita”. Quattro fanno parte della cosiddetta Sun Belt, la fascia meridionale degli Usa che va dall’Atlantico al Pacifico snodandosi al di sotto del 36° parallelo: il Nevada e l’Arizona ad Ovest, e la North Carolina e la Georgia ad Est. Gli altri tre – Pennsylvania, Winsconsin e Michigan – sono nella Rust Belt, il blocco dei grandi stati industriali che separano la costa Est di New York, Boston e Philadelphia dal Midwest rurale.

È una delle aree a cui la globalizzazione ha inferto i colpi più duri. Innescando una crisi di identità che negli ultimi decenni ha indotto l’elettorato a un comportamento ondivago: portandolo nel Blue Wall di Obama nel 2012, poi in quello rosso di Trump nel 2016 e infine ancora nel blocco di Biden nel 2020. Anche i tre stati del Sud – che almeno dagli anni ’70 avevano votato compattamente il Gop, come i loro vicini più conservatori – si sono trasformati in swing states, anche se più per il peso di fattori demografici: l’arrivo di bianchi californiani più liberal in Nevada, il crescere del peso dei Latinos in Arizona, l’ostilità delle donne più istruite in North Carolina e soprattutto in Georgia contro l’ingombrante maschilismo di Trump. Risultato, quattro anni fa Biden vinse per poco più di diecimila voti in Arizona e in Georgia e per ventimila in Michigan, e perse per poco più di settantamila in North Carolina, ma su uno sfondo così malmesso per Trump che l’ex governatrice Nikky Haley è poi stata la sua maggiore antagonista nelle primarie repubblicane.

In questo contesto, le ultime rilevazioni non sciolgono i dubbi su come possa andare a finire. Perché a livello nazionale i due contendenti hanno quasi prosciugato la palude degli incerti, e “ormai solo il 4 per cento degli americani non ha deciso per chi votare”, ha calcolato Jim Messina, a suo tempo direttore dei sondaggi nella squadra di Obama. Ed è questo a spiegare cosa spinga i SuperPac che finanziano la campagna a riversare in un manciata di stati veri fiumi di denaro – oltre un miliardo di dollari da settembre in spot televisivi, post sui social network e mail bombing nelle caselle di posta degli elettori – e anche perché gran parte degli eventi pubblici più importanti con i due candidati si siano concentrati tra Winsconsin, Michigan e Pennsylvania, incluso il comizio che ha visto Trump tornare a Butler, dove settimane fa era stato ferito da un attentatore: se siamo qui – ha detto il tycoon a una folla in gran parte convinta del suo ruolo salvifico per gli Stati Uniti - è perché “lo hanno voluto la mano della Provvidenza e la Grazia di Dio”.

Conti alla mano, le previsioni più recenti - come quelle del “Cook Political Report”, diretto da una delle sondaggiste indipendenti più accreditate, Amy Walter – ipotizzano che entrambi i candidati abbiano consolidato maggioranze definite nella maggior parte degli stati, a cominciare da quelli che esprimono il più grande numero di delegati nel collegio elettorale, come California e New York per i democratici e Texas e Florida per il Gop. Salvo dunque clamorose sorprese, dunque, Harris può già contare oggi su 225 voti elettorali contro i 216 di Trump. Vuol dire che per avere la maggioranza nel collegio elettorale l’ex presidente ha bisogno di mettere insieme almeno altri 51 voti, mentre alla vicepresidente ne servono almeno 45. In un Risiko, appunto, che potrebbe vedere vincere Trump solo se il tycoon conquistasse oltre ai tre battleground in cui anche se di pochissimo è relativamente più forte – Georgia, Arizona e North Carolina gli regalerebbero insieme 43 delegati – almeno uno tra Pennsylvania (19), Michigan (15) e Winsconsin (10). Allo stato attuale Kamala Harris - che è davanti nella Rust Belt ma con Trump in leggera ripresa – non può permettersi di perdere in Pennsylvania: ma anche se vincesse in Winsconsin e Nevada dovrebbe disputarsi con Trump la vittoria in Michigan, la tradizionale roccaforte democratica che nel 2016 voltò clamorosamente le spalle a Hillary Clinton consegnando a sorpresa la vittoria al tycoon.

Stavolta l’insidia ha un altro segno: “Il Michigan è in bilico per effetto della guerra a Gaza”, spiega la stratega dem Debbie Dingel, alludendo al crescente distacco con la grande comunità islamo-americana dello stato, i circa 300 mila residenti di origine mediorientale e nord africana che nel 2020 la retorica antimusulmana di Trump spinse in massa a sostenere Biden ma che stavolta di lui e di Kamala non ne vogliono sapere: “Personalmente non conosco nessuno che voterà per Harris”, spiega al New York Times l’imam Hassan Qazwini, dell’Islamic Institute of America a Dearborn Heights. “All’inizio – dice - in molti abbiamo sperato che la vicepresidente mostrasse più imparzialità e equilibrio nel gestire il conflitto, ma purtroppo era solo un wishful thinking.”

Sull’altro fronte, i segnali più allarmanti per Trump provengono dall’elettorato femminile, che uno studio dell’American University dà divise in un 46 a 38 per Harris che ha a che fare con il suo profilo personale e soprattutto con le politiche repubblicane in materia di aborto e contraccezione (persino con le elettrici del Gop largamente in dissenso con il loro partito) , ma anche - nelle ultime settimane – con un +15 per cento di donne in più disposte a dare credito alla vicepresidente anche nella gestione dell’economia. E’ uno dei cavalli di battaglia di Trump, quello che gli ha aperto le porte in consistenti settori di elettorato che non lo hanno mai votato: e così forse non è un caso se nelle ultime uscite l’ex presidente ha alzato molto i toni sull’altro tallone di Achille democratico, la festini dell’immigrazione, spingendosi anche ad affermazioni apertamente razziste come quelle sugli haitiani che “mangiano i nostri cani e nostri gatti”, o quelle sui “cattivi geni del Dna” con cui i nuovi arrivati potrebbero corrompere gli Usa.

Su tutto, in ogni caso, pesa l’incertezza legata alla probabilità che un voto vinto di un’incollatura apra la strada – se non ad un conflitto – di certo a una aspra e lunghissima battaglia legale: “Vogliamo che tutti i voti siano contati la sera del voto”, tuona Trump quasi tutti i giorni. Ma appare difficile che il miracolo riesca, a maggior ragione dopo che gli uragani che stanno devastando il Sud hanno sconvolto anche i sistemi elettorali di Florida, Georgia e North Carolina: “Se il distacco è minimo, al punto che il margine di vittoria è più piccolo del margine di errore – spiega Richard Hasen, professore alla Law School della UCLA – avremo tonnellate di ricorsi e tutto inevitabilmente finirà davanti alla Corte Suprema”. Una ragione di più, visti gli ultimi pronunciamenti di una squadra di giudici ridisegnata con cura da Trump, perché Kamala non possa dormire sonni tranquilli.

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