Approfondimenti

La tessera Kosovo nel mosaico dei Balcani

Il focus di Antonio Stango sul Kosovo e l’area dei Balcani

Statualità contestata e storia non condivisa

La situazione dei Balcani occidentali, dove tensioni mai del tutto sopite dopo le guerre degli anni Novanta sembrano a volte sul punto di riacutizzarsi, ha nei rapporti fra Kosovo e Serbia uno dei più delicati terreni di confronto. L’indipendenza del Kosovo – proclamata nel febbraio 2008 – è riconosciuta da circa 100 Stati; tuttavia, fra questi non c’è la Serbia, che lo considera ufficialmente ancora una propria provincia. Il preambolo alla Costituzione serba in vigore, adottata nel 2006, stabilisce infatti che “la provincia di Kosovo e Metohija è parte integrante del territorio della Serbia, ha lo status di una sostanziale autonomia all’interno dello Stato sovrano della Serbia e da tale status derivano obbligazioni costituzionali di tutti gli organi dello Stato a sostenere e proteggere gli interessi statali della Serbia in Kosovo e Metohija”. Da parte sua, la Federazione Russa – che con la Serbia ha storicamente un rapporto privilegiato – blocca la richiesta di ammissione del Kosovo alle Nazioni Unite, attraverso il veto alla raccomandazione del Consiglio di Sicurezza che è elemento necessario perché l’Assemblea Generale possa eventualmente deliberarla.

Il Paese ospita quindi ancora la United Nations Interim Administration Mission in Kosovo (UNMIK), istituita nel giugno 1999 con la Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza parallelamente al ritiro delle forze serbe al fine di garantire condizioni di vita pacifica agli abitanti e promuovere la stabilità regionale, in coordinamento con l’OSCE e con la Missione dell’Unione Europea sullo Stato di diritto in Kosovo (EULEX). È su questa base che il 20 aprile, in occasione della discussione del nuovo rapporto biennale dell’UNMIK, il Kosovo ha avuto una rara opportunità di intervenire con la propria ministra degli Esteri a una riunione del Consiglio di Sicurezza stesso. A rendere acceso il dibattito, sul quale gravavano anche i potenziali riflessi nella regione della guerra in corso in Ucraina, hanno contribuito due recenti episodi: il rifiuto del governo di Pristina di consentire che gli appartenenti alla minoranza serba del Paese potessero votare per le elezioni serbe del 3 aprile scorso nelle località di residenza (mentre circa 19.000 elettori hanno potuto farlo recandosi in seggi speciali in territorio serbo) e la “crisi delle targhe” del settembre 2021, quando alla decisione del governo del Kosovo di imporre – per reciprocità – l’uso di targhe provvisorie rilasciate dalle autorità kosovare per le auto in transito immatricolate in Serbia seguirono violente manifestazioni di protesta e minacciosi spostamenti di aerei militari e carri armati serbi in prossimità del confine. In entrambi i casi, si è trattato da parte kosovara di un’affermazione della propria statualità, da parte serba di contestazione della stessa.

Al ministro degli Esteri serbo Nikola Selaković, che ha parlato di discriminazione delle minoranze in Kosovo, l’omologa kosovara Donika Gërvalla-Schwarz ha risposto che l’indipendenza del Kosovo è nata dal genocidio commesso dalla Serbia, che – a differenza di molti serbi nella società civile – i leader serbi non hanno mai riconosciuto. La rappresentante del Kosovo ha aggiunto che, in assenza di “conti con il passato” e di “riconoscimento della realtà”, la Serbia rimane una minaccia alla normalizzazione e alla pace nella regione e deve decidere se essere “parte dell’Occidente” o comportarsi come un satellite della Russia, con il cui sostegno sta attuando un forte potenziamento militare: accuse ribaltate dal ministro serbo, secondo il quale il Kosovo è “il risultato di attività terroristiche, narcotraffico e traffico di organi”, la Serbia è un pilastro della pace, il presidente Vučić sta costruendo la cooperazione nei Balcani e il termine “genocidio” non dovrebbe essere abusato.

A sostegno della posizione serba, la rappresentante della Federazione Russa Anna Evstigneeva ha accennato a “recenti e crescenti violenze contro i serbi del Kosovo”, ha ipotizzato che il Kosovo possa compiere azioni di pulizia etnica, ha ricordato il bombardamento di Belgrado da parte della NATO nel 1999 e le guerre in Iraq e in Libia e affermato che l’aspirazione del Kosovo a un’integrazione nella NATO e in altre “associazioni occidentali” sarebbe in contrasto con la Risoluzione 1244 e aumenterebbe le tensioni.

Il Cremlino, del resto, ha fatto spesso riferimento all’operazione Allied Force condotta dalla NATO contro la Serbia nella primavera del 1999 come ad un ‘precedente’ che giustificherebbe i propri interventi in Paesi confinanti, come in Georgia nel 2008, in Ucraina nel 2014 e ora. Tuttavia, quella campagna avvenne solo dopo prove concrete di uccisioni di massa e deportazioni, non dette luogo a un’invasione e si concluse con il ritiro delle truppe serbe dal Kosovo secondo l’accordo di Kumanovo e la citata Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza (con il voto favorevole della stessa Federazione Russa e con la sola astensione cinese); processi per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio si sono svolti all’Aja al Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia; e nel luglio 2010 la Corte Internazionale di Giustizia delle Nazioni Unite, in un parere consultivo richiesto dalla Serbia, ha affermato che la dichiarazione di indipendenza del Kosovo non violava né i principi generali del diritto internazionale, né la Risoluzione 1244.

Il governo del Kosovo ritiene che le proprie istituzioni possano ormai gestire direttamente il Paese e i rapporti internazionali e assicurare il carattere multietnico della società, anche grazie al sostegno dell’Unione Europea; e che quindi l’UNMIK abbia sostanzialmente raggiunto il suo scopo e non sia più necessaria una missione di mantenimento della pace. In sede di Consiglio di Sicurezza, si sono espressi in questo senso anche Stati Uniti e Albania; ma i rappresentanti di India e Repubblica Popolare Cinese – oltre che di Serbia e Federazione Russa – hanno insistito sull’integrità territoriale della Serbia, sulla tutela delle minoranze non albanesi e sulla conferma del ruolo dell’UNMIK.

Il Kosovo nelle organizzazioni internazionali e i rapporti con la NATO

Mentre permane la situazione di stallo rispetto ai rapporti con la Serbia e nell’impossibilità di essere ammesso alle Nazioni Unite in presenza del veto russo, il Kosovo è divenuto membro di diverse organizzazioni e istituzioni internazionali, fra le quali l’International Monetary Fund, la World Bank, la European Bank for Reconstruction and Development e la Commissione di Venezia del Consiglio d’Europa. Ha inoltre presentato fin dal 2012 una domanda di adesione al Partenariato per la Pace della NATO.

La NATO è presente nel Paese come garanzia per la sua sicurezza con la missione KFOR, sempre in attuazione della Risoluzione 1244. In 23 anni, il suo dispiegamento sul campo è passato dai 50.000 militari iniziali ai circa 3.800 di oggi – compresa una Multinational Specialized Unit a guida italiana basata su un reggimento di Carabinieri. Dopo la dichiarazione di indipendenza, la NATO ha iniziato a trasferire gradualmente i propri compiti alle nuove istituzioni, fra le quali la Forza di Sicurezza (Kosovo Security Force – KSF). Quest’ultima è dotata solo di armi leggere e non è considerata tecnicamente una ‘forza armata’; ma nel 2018 il Parlamento ha votato con legge ordinaria per la sua progressiva trasformazione in un esercito nazionale. Una risoluzione parlamentare del 3 marzo di quest’anno ha poi impegnato il governo a intraprendere i passi necessari, in coordinamento con i partner internazionali, per chiedere la candidatura del Kosovo all’adesione alla NATO, all’Unione Europea e al Consiglio d’Europa, con 94 voti a favore su 120 e il boicottaggio dei deputati della minoranza serba.

L’eventuale adesione alla NATO – contrastata da Serbia e Federazione Russa – è ostacolata sia dal fatto che l’indipendenza del Kosovo non è riconosciuta da quattro Stati membri (Spagna, Grecia, Slovacchia e Romania), sia dalla necessità di un ulteriore adeguamento del Paese agli standard politico-istituzionali richiesti dalla NATO. Elementi importanti per l’Alleanza, come per l’UE e per il Consiglio d’Europa, sono il rafforzamento dello Stato di diritto (inclusi l’indipendenza della magistratura, la regolarità dei processi democratici, il rispetto dei diritti delle minoranze), la lotta alla corruzione, il consolidamento dell’economia di libero mercato e l’efficienza del sistema burocratico e del corpo diplomatico – campi nei quali il Kosovo, pur avendo avviato questi processi, ha ancora molta strada da compiere. La NATO e l’UE hanno inoltre indicato che la trasformazione della KSF in forza armata dovrebbe avvenire solo attraverso una legge costituzionale, al cui iter partecipino i rappresentanti delle minoranze; inoltre, il Kosovo dovrebbe dimostrare “la capacità e la volontà di dare un contributo militare alle operazioni della NATO”.

Tutto questo è particolarmente difficile per un Paese il cui PIL nel 2020, secondo la World Bank, è stato di soli 7,72 miliardi di dollari (inferiore a quello del Molise) e che ha una popolazione di meno di 1.900.000 abitanti, dei quali circa il 10% appartenenti a minoranze. Le stime sulla composizione etnica sono peraltro scarsamente affidabili: secondo dati ufficiali del 2011, i serbi sarebbero circa 28.500, ma a quel censimento alcune comunità non avevano partecipato, in particolare nelle quattro municipalità del Kosovo settentrionale dove risiederebbero circa 70.000 serbi. Altri gruppi minoritari includono bosgnacchi (ufficialmente 1,6%), turchi (1,1%), ashkali (0,9%), egizi (0,7%), gorani (0,6%) e rom (0,5%). Per quanto riguarda il sentimento di appartenenza religiosa, la popolazione è per circa il 94% musulmana.

Tenendo conto delle disponibilità finanziarie e delle problematiche interetniche, sociali e istituzionali aperte, anche quando verrà completato il processo di trasformazione della KSF in forza armata la capacità militare del Kosovo non potrebbe almeno inizialmente che essere marginale, consentendo una temporanea resistenza a eventuali aggressioni e un’operatività soprattutto non bellica, ad esempio per missioni di soccorso in caso di calamità naturali. Tuttavia, il Kosovo ha negli ultimi anni aumentato progressivamente il budget per la difesa, passando dallo 0,7% del PIL nel 2017 al 2% nel 2021 e pianificando per il 2022 uno stanziamento di 74,4 milioni di euro, e la KSF ha programmato di raddoppiare l’attuale numero di 2.500 militari attivi e passare da 800 a 3.000 riservisti.

Intanto nel dicembre 2021, ricevendo il ministro della Difesa turco, la presidente della Repubblica del Kosovo, Vjosa Osmani, ha chiesto il sostegno della Turchia al processo di adesione alla NATO e discusso le possibilità di cooperazione militare, dalla fornitura di equipaggiamento alla formazione di ufficiali, sottufficiali e piloti. Pochi mesi prima, il Kosovo aveva firmato con la Turchia un contratto per l’acquisto di 14 veicoli blindati. Il rapporto con la Turchia sembra intensificarsi negli ultimi tempi: il 23 aprile, in occasione della Giornata nazionale dei turchi del Kosovo, il ministro della Difesa kosovaro ha affermato che lo Stato dovrebbe incrementare la presenza di appartenenti alla minoranza turca nel settore pubblico e ha elogiato il sostegno della Turchia nello sviluppo dello Stato. Il Kosovo ha però acquistato nel 2021 anche 50 veicoli blindati dagli Stati Uniti, con dotazioni di lanciagranate e mitragliatrici.

Oltre alla KFOR, nel Paese opera dal 2008 la missione dell’UE sullo Stato di diritto, denominata EULEX, nell’ambito della politica di sicurezza e di difesa comune e nel quadro della Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza. Con l’attuale mandato, in scadenza nel febbraio 2023, impiega 420 persone e ad essa collaborano anche Canada, Norvegia, Stati Uniti, Svizzera e Turchia. Ha l’obiettivo di sostenere le pertinenti istituzioni del Kosovo nel loro percorso verso una maggiore efficacia, sostenibilità, multietnicità e responsabilità, nel rispetto degli standard internazionali in materia di diritti umani e delle migliori pratiche europee. Monitora casi e processi selezionati nel sistema giudiziario del Kosovo; sostiene il miglioramento del suo servizio penitenziario; fornisce supporto alla capacità di controllo della folla e delle sommosse da parte della polizia, la coadiuva nelle attività di cooperazione internazionale e gestisce il suo programma di protezione dei testimoni.

Gli sviluppi della guerra in Ucraina hanno alcune implicazioni di rilievo per il Kosovo, che li segue con particolare attenzione temendo che il campo delle ostilità possa in qualche modo allargarsi ai Balcani per via degli stretti rapporti tra Serbia e Federazione Russa. Il Kosovo è quindi decisamente favorevole all’Ucraina; ha aderito alle sanzioni europee, ha offerto ospitalità a 20 giornalisti ucraini, si è impegnato ad accogliere 5.000 rifugiati e sta cercando di accelerare il processo di consolidamento dei propri rapporti con NATO e UE. L’Ucraina da parte sua non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, ma ha contribuito alla missione UNMIK con 40 militari, che ha richiamato dopo il 24 febbraio.

Il 10 marzo la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock ha visitato Pristina, congratulandosi per l’atteggiamento del Kosovo e assicurando il proprio sostegno al suo processo di integrazione europea. La Missione EULEX ha previsto un incremento del proprio personale includendo una forza di gendarmeria e l’Alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza Josep Borrell ha affermato che l’UE sosterrà tutti i Balcani occidentali per superare le ulteriori difficoltà economiche causate dalla guerra.

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Tensioni e venti di crisi nei Balcani. L’articolo di Antonio Stango, pubblicato il 25 maggio 2024 su Il Giornale

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