L’acqua alla base dello scontro tra Iran e Talebani
Si alzano le tensioni tra Iran e Afghanistan sulle acque del fiume Helmand. L’analisi di Emanuele Rossi
Una nuova possibile guerra per l’acqua potrebbe alterare i fragili equilibri tra Medio Oriente e Asia Centrale: tra Iran e Afghanistan si sono alzate le tensioni attorno alle acque del fiume Helmand.
Nei giorni scorsi, infatti, si sono verificati scontri nella zona di confine tra la Repubblica islamica dell’Iran e l’Emirato islamico dell’Afghanistan, con anche morti e feriti tra le autorità frontaliere dei due Paesi. Da Kabul e Teheran la reazione propagandistica ai fatti è stata abbinata a tentativi di distensione e uso della saggezza diplomatica: resta la consapevolezza che l’oggetto del contendere ha tutte le caratteristiche per essere una risorsa attorno a cui possono scoppiare guerre. E che la questione specifica potrebbe non essere risolta facilmente.
L’acqua è una risorsa vitale e con i cambiamenti climatici, in determinati contesti geografici, si stanno già creando i presupposti per stagioni di conflitto, come rappresenta bene la vicenda della diga Gerd sul Nilo.
L’Iran è particolarmente sensibile alla situazione: a luglio di due anni fa, gli abitanti del Kuzhestan erano scesi in strada per protestare contro la mala gestione delle risorse idriche della provincia, e in definitiva manifestare contro la teocrazia. In quell’occasione, le temperature, che avevano raggiunto picchi record di 50 °C e le precipitazioni ridotte del 50% rispetto alle medie storiche stagionali, avevano prodotto una condizione di siccità gravissima, innescata in un contesto particolare. Il Kuzhestan è una provincia che da anni lamenta (a ragione) forme di marginalizzazione e sfruttamento da parte di Teheran: nonostante ospiti i pozzi da cui deriva l’80 % del petrolio iraniano e i maggiori pozzi idrici del Paese, poco delle risorse provinciali resta nel territorio, e le condizioni di povertà sono diffuse, soprattutto tra la minoranza araba (solitamente discriminata nella Repubblica islamica).
In Afghanistan la situazione è altrettanto complessa: i Talebani hanno imposto profonde contrazioni alle libertà individuali dei cittadini afghani, e non stanno fornendo un miglioramento delle condizioni di vita (come promesso quando hanno ripreso il potere denunciando la corruzione del governo laico). Il contratto sociale non regge. La scarsità d’acqua è un problema cruciale per una popolazione che non ha tecnologie moderne di approvvigionamento e che vive in molti casi di sola agricoltura e allevamento.
Il fiume Helmand
Come detto, tra Iran e Afghanistan la ragione del conflitto è un fiume, l’Helmand. Il corso d’acqua nasce dal monte Koh-e Bābā, uno dei rilievi attorno a Kabul (parte della catena dell’Hindu Kush), e attraversa in diagonale da sud verso ovest tutto l’Afghanistan, diventando il collettore di diversi tributari lungo i suoi oltre 1100 km di corso. Non sfocia in mare, ma si ferma nell’area endoreica del bacino del Sistan, che si trova di là dal confine nell’omonima provincia iraniana. Qui, insieme ad altri fiumi, dà origine ad alcuni laghi e paludi attorno a Zabol (città iraniana di confine di circa 150mila abitanti).
Il fiume è letteralmente fonte di vita per l’area. In Afghanistan ha un corso perenne grazie alle nevi dell’Hindu Kush e alimenta un sistema di irrigazione lungo tutto il suo corso, che taglia mezzo Paese. In Iran scorre in una delle regioni più secche della terra, il Sistan-Balochistan, dove le precipitazioni media sono di 113 mm l’anno (per confronto, nelle zone più aride della Sardegna si aggirano attorno ai 400 mm).
È questa centralità per entrambi i Paesi che ha portato all’accordo siglato nel 1973 per la co-gestione delle acque del bacino idrogeologico dell’Helmand. Stando all’intesa, l’Afghanistan si impegna a garantire all’Iran 850 milioni di metri cubi d’acqua ogni anno (22 m3 al secondo). Addirittura, nella seconda pagina del documento viene dettagliato per quote mensili il volume ceduto, tenendo conto della stagionalità dell’Helmand e delle precipitazioni locali. Di più: tra i commi dell’intesa c’è anche una previsione di flessibilità in caso di stagioni di siccità. Tutto piuttosto dettagliato.
Le accuse iraniane, la difesa talebana
Secondo Teheran, i Talebani non stanno rispettando l’accordo idrico del 1973 e questo sta creando enormi complicazioni per il Sistan-Balochistan, una delle aree più colpite dalla siccità nel paese. Una piaga non da poco, se si considera che i dati del servizio meteorologico iraniano indicano il 97% del territorio della Repubblica islamica afflitto da forme più o meno spinte di crisi idrica. Una situazione su cui però pesano anche la cattiva gestione (clientelare e tecnicamente non sempre adeguata) delle risorse e dell’infrastrutture da parte dei gangli della teocrazia.
Per gli iraniani, i Talebani starebbero deviando l’acqua dell’Helmand e per questo le aliquote accordate non stanno arrivando. Per esempio, la diga di Kamal Khan, inaugurata nel 2021, è legale ai sensi del trattato di cinquant’anni fa, ma l'Iran sostiene che ridurrà ulteriormente l'approvvigionamento idrico del lago Hamoun, al confine tra i due Paesi, e le tensioni che ne derivano sono cresciute negli ultimi due anni. Le cose sono cambiate, anche a causa del cambiamento climatico, e anche per la presenza di un gruppo ideologicamente avverso alla Repubblica islamica sciita – i fanatici sunniti talebani che hanno creato in Afghanistan un Emirato islamico. Non a caso, l’Iran sostiene che “i Talebani disprezzano le leggi internazionali”. Gli afghani dal loro lato si difendono sostenendo che le aliquote cedute sono diminuite a causa della scarsità delle precipitazioni – situazione che ha anche portato un aumento della domanda interna.
Il contesto è particolarmente delicato, e gli scontri a fuoco sono uno sfogo di tensioni che durano da tempo: all’inizio del mese, il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha avvertito i Talebani di non violare i diritti idrici dell’Iran. La scorsa settimana, il ministro degli Esteri iraniano ha usato la questione delle acque dell’Helmand per sottolineare che i Talebani riflettono soltanto una parte delle anime dell’Afghanistan, e aggiungere: “Non riconosciamo l'attuale organo di governo dell'Afghanistan e sottolineiamo la necessità di formare un governo inclusivo [nel Paese]”. Dichiarazioni non apprezzate da Kabul, sebbene Teheran continui a ripetere che “il dialogo” è l’unico modo per risolvere la situazione. I Talebani hanno spostato un po’ di più uomini e materiali (comprese le attrezzature americane abbandonate nel ritiro del 2021) al confine con l'Iran e minacciano di trasformare l'Iran in un Paese sunnita. Dichiarazioni non apprezzate da Teheran.
A Teheran la linea dominante è quella di cercare una soluzione di accomodamento negoziale, anche perché al di là di slanci propagandistici, anche i Talebani continuano a battere sul riconoscimento del trattato del 1973 e cercano di evitare uno scontro (che sarebbe sanguinoso e probabilmente senza vincitori, e soprattutto senza soluzione per le acque dell’Helmand). La posizione del governo di Raisi è stata finora pragmatica e flessibile nei confronti dei talebani, mentre altri – in particolare i riformisti – hanno criticato l'impegno dell'Iran, affermando invece che la posizione presa sarebbe troppo morbida e accomodante.
In definitiva, lo scontro al confine Iran-Afghanistan è un promemoria della necessità di una soluzione pacifica, globale e sostenibile alle crescenti dispute sull'acqua. È certo che questo non sia l'ultimo confronto di tale tipo, con il rischio di un'escalation collegato, in un’area già fortemente a rischio di tensioni e conflitti.