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Le ambizioni diplomatiche globali cinesi. Dopo l’Ucraina i tentativi a Gaza

La strategia cinese per aumentare la propria influenza e il proprio ruolo internazionale. La presenza nel Mediterraneo. L’analisi di Giorgio Cella

La proiezione diplomatica globale cinese è sicuramente uno degli aspetti più innovativi del cangiante sistema internazionale odierno. Riguardo le risorse di cui Pechino dispone per la sua espansione di potenza sono noti i suoi asset globali sul piano economico-commerciale con la Via della Seta, è nota la sua estesa rete di comunità cinesi per il mondo, è noto il valore dei suoi centri di ricerca e degli avanzamenti nel campo tecnologico e AI, così com’è noto il suo progressivo potenziamento militare; meno studiati e meno noti invece, anche poiché in fieri, sono gli sforzi della Cina per costituirsi forza diplomatica internazionale a pieno titolo. A chi scrive, tale tentativo di emergere come grande negoziatore globale, rammenta in qualche modo, mutatis mutandis, lo slancio degli Stati Uniti tra fine 19° e inizio 20° secolo, quando la futura grande potenza statunitense cominciava ad affacciarsi con sempre più forza e frequenza sui quadranti geopolitici più disparati, richiamati e poi trascinati nelle varie crisi che si manifestavano dall’Europa all’Asia, dall’Africa all’America Latina. Sul filo di questa premessa iniziale e di questa idea comparativa, converrà rammentare, in modo propedeutico a ciò che seguirà, che la struttura gerarchica delle relazioni internazionali e di potenza odierna si articoli ormai in modo evidente in un nuovo bipolarismo sino-americano.

Per quanto riguarda l’attività diplomatica cinese in relazione al Medio Oriente (dopo gli sforzi diplomatici già spesi sul fronte russo-ucraino), entreremo ora più in profondità in relazione al conflitto in corso tra Israele e Hamas. Dopo aver tessuto un difficile intreccio diplomatico tramite negoziazioni che avevano portato a un documento firmato da Iran e Arabia Saudita che mirava alla normalizzazione dei rapporti bilaterali nel marzo 2023, la diplomazia di Pechino si è ora fatta sentire anche nel conflitto tra Israele e Hamas. La Cina ha a questo riguardo sinora tenuto una posizione pressoché invariata, che ha reiterato più volte le più classiche raccomandazioni della diplomazia internazionale delle Nazioni Unite, ossia la volontà di giungere alla creazione di uno Stato palestinese, insieme a un invito alle parti a limitare le azioni militari per giungere a una tregua e a future negoziazioni. L’orientamento diplomatico cinese, più precisamente, come passaggio propedeutico a una realtà statuale, mira a compattare e unire il fronte palestinese amalgamando le distanze tra Fatah e Hamas, al fine di non trovarsi impreparati per una futura, eventuale gestione postbellica dei territori in Cisgiordania e soprattutto a Gaza. Nelle ultime settimane, la diplomazia cinese, in una rara occasione di sinergia sino-europea, ha raccomandato a Israele uno stop all’offensiva su Rafah, in un comunicato congiunto con la diplomazia francese. Un anelito che seppur condivisibile su un piano ideale, sembra oggi difficilmente plausibile se si guarda alla ardua e complicata situazione sul terreno.

Il ruolo di leader del gradualmente sempre più esteso gruppo dei BRICS o cosiddetto Sud Globale (definizione dai vari limiti e astrattezze, mutuata dalla formula politologica anglosassone Global South), condiziona in qualche misura Pechino a scegliere una diplomazia generalmente e formalmente ostile agli interessi di Washington - quantomeno nel grande gioco delle parti della politica internazionale -, dunque formalmente più vicina alla causa palestinese. In questo orientamento, troviamo altresì i punti di attrito con Tel Aviv, soprattutto a livello di principio: per Israele, infatti, la fonte primaria e causa scatenante di tutto il conflitto in corso è l’attacco terroristico del 7 ottobre perpetrato da Hamas; per parte cinese invece, sebbene la condanna degli attacchi fu al tempo netta e senza indugi, la fonte del problema rimane proprio l’assenza di uno Stato per i palestinesi. E’ la soluzione a due Stati ordunque che diviene (come d’altronde per molti Paesi occidentali) l’obbiettivo prioritario.

Simile divergenza di vedute, emerge altresì quando il soggetto dell’analisi è Hamas: per l’Occidente e in primis per Israele, si tratta senza dubbi di un’organizzazione terroristica, per vari altri paesi di quel fronte alternativo globale guidato informalmente dalla Cina, e per la Cina stessa, Hamas non viene designata come una formazione terroristica, ma più come movimento di resistenza anti-israeliana sorta nell’ambito dei decenni di conflitto mediorientale. Il dialogo con Hamas si è financo palesato in alcuni recenti incontri svoltisi a Pechino con dirigenti del movimento. In questa divergenza nell’identificare cosa rappresenti Hamas, si ripropone del resto quella più ampia spaccatura che è la cifra del sistema internazionale odierno: l’Occidente da un lato, con un sostegno generale verso Israele (e l’Ucraina), e l’altro fronte globale alternativo a quello a guida statunitense capitanato da Pechino. L’unico terreno comune tra i due schieramenti (sebbene da raggiungere secondo modalità differenti) è che sia la Cina, sia la Russia, così come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna e la maggioranza degli altri Stati d’Europa, concordano sulla finale soluzione dei due Stati. Anche alla luce della nuova posizione di Pechino nel nuovo schieramento globale antioccidentale (schieramento sebbene lungi dall’essere unificato), Israele pone attenzione (e preoccupazione) per le affermazioni e le posizioni cinesi sul conflitto. Attenzione e interesse verso i comportamenti diplomatici di Pechino in Medioriente non viene solo da Israele, ma anche da gran parte del mondo arabo, dove il Dragone ha accresciuto sensibilmente la sua proiezione negli ultimi anni, e dove ogni dichiarazione o azione che riguardi la delicata questione di Gaza viene valutata attentamente dagli Stati arabi e islamici. Gli Stati Uniti vedono invece questa rinnovata presenza cinese nella regione tramite il prisma della competizione globale e quello della politica di potenza.

Nei rapporti sin qui delineati tra la Cina, Israele e i palestinesi, è però necessario scavare un po’ più a fondo: nonostante questa recente aumentata esposizione di Pechino in Medioriente in favore dei palestinesi di Gaza, il rapporto con Israele risulta essere piuttosto strutturato. È dunque necessario spendere qualche considerazione finale sui rapporti bilaterali tra Cina e Israele i quali, nonostante le recenti frizioni diplomatiche, sono piuttosto solidi e articolati (in primis militari, ma anche in svariate altre dimensioni dell’agire umano come l’agricoltura, l’uso dell’energia solare, nell’ambito scientifico, tecnologico, in quello medico etc). I rapporti bilaterali tra i due Paesi hanno superato i 30 anni di relazioni diplomatiche ufficiali, iniziate nel 1992, sebbene essi fossero già esistenti in modo informale sin dagli anni ’80, ove entrambi i Paesi sostenevano i mujaheddin in Afghanistan in chiave anti russo-sovietica. Rapporti incentrati sugli scambi di tecnologia bellica sono poi perdurati nell’ultimo decennio dello scontro bipolare e oltre, lungo tutti gli anni ’90. Si rammenti come la Cina sia oggi il terzo partner commerciale più importante per Tel Aviv, e la collaborazione tra i due Paesi nella dimensione bellica, accademica e tecnologica è cresciuta fortemente negli ultimi decenni. Israele, sul piano militare, vedendo nella Cina un mercato fondamentale per la propria industria della difesa ed aerospaziale, è stata infatti uno dei principali fornitori di armamenti a Pechino. Anche alla luce di questo contesto bilaterale, è realisticamente immaginabile pensare che nonostante lo status di Pechino sia in crescita sul piano globale, esso non potrà tuttavia modificare in modo sostanziale gli obbiettivi strategici che Israele si è prefissato di raggiungere a Gaza e nella regione. Tutti questi aspetti ci permettono di inquadrare in modo più olistico e realista i rapporti di forza tra le due nazioni e il difficile equilibrio in cui Pechino intende esercitare il proprio ascendente nei drammatici scenari mediorientali odierni.

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