Le avventure di Corto Maltese e il Mediterraneo
Quarto appuntamento con la rubrica curata per Med-Or da Pietrangelo Buttafuoco. In questo nuovo capitolo le suggestioni della vita e delle avventure di Corto Maltese, affascinante avventuriero nato dalla mente geniale di Hugo Pratt.
© Cong SA
La sua “linea d’ombra” la passò - come si conviene ad ogni adolescente - a 17 anni, quando si imbarcò sul “Vanità Dorata”, un magnifico tre alberi destinato ad andare lontano. Dal porto di La Valletta, nel cuore del Mediterraneo, prosegue (ma non inizia) la formidabile ed avventurosa vita di Corto Maltese, una creatura così vicina ai sogni e alle emozioni di ciascuno di noi che ancora non sappiamo se sia solo l’estensione del talento artistico e dell’incanto visionario di Hugo Pratt, il suo padre fondatore, o se sia un marinaio davvero esistito e poi misteriosamente scomparso tra la leggenda e il mito che torna, di tanto in tanto, a farci visita. E la sua biografia è scientificamente tracciata negli archivi e nelle biblioteche di Malta, Venezia, Siviglia, Gibilterra, Scicli, Genova (dove è in corso al Palazzo Ducale una bellissima mostra che ne celebra la grandezza), Cairo, Rodi, Marsiglia, Tunisi con escursioni in Cornovaglia, Djibuti, Aden, Addis Abeba per perdersi poi verso Buenos Aires, la Patagonia, l’Isola di Pasqua fino a quei mari del Sud dove le isole altro non sono che dei puntini di sospensione di un discorso sempre in divenire.
Quello che sappiamo per certo è che Corto Maltese - al pari di tanti navigatori, esploratori, antropologi, scienziati, poeti, rivoluzionari - è un uomo di confine che ha eletto la propria prima dimora nel Mediterraneo, quel mare così piccolo rispetto agli oceani di altre meravigliose avventure da sembrare una culla.
Eh sì, perché la sua infanzia si nutre proprio del Mare Nostrum. Siete autorizzati a levare in alto un calice ogni 10 luglio, giorno della sua nascita. Era il 1887, due giorni prima era nato Marc Chagall e pochi giorni dopo Marcel Duchamp. Dopo poche settimane di vita Corto prende la sua prima nave e va a Gibilterra nella casa della madre. La “Niña di Gibilterra” era una donna piuttosto forte: gitana, cartomante, appassionata della cabala, bella e spregiudicata. La donna fu anche modella per il pittore Jean Auguste Ingres che se ne innamorò perdutamente e conobbe - nelle strade di Gibilterra - anche Nicolò Paganini con cui Ingres si dilettava a duettare al violino. Suo padre, invece, era un marinaio di Tintagel, borgo splendido della Cornovaglia dove c’è un castello in cui - si dice - venne concepito re Artù. Ma il papà di Corto, classica barba rossa del marinaio d’ordinanza, non era né un principe né un mago, ma solo un contrabbandiere di armi e whisky. Quello che fece di buono fu, nel mare che confina con le Colonne d’Ercole, trasferire a suo figlio la passione per la navigazione a vela e quei geni un po’ malandrini di una vita al confine tra il bene e il male.
Aveva sei anni il piccolo Corto quando, un giorno, alle spalle della moschea di Cordoba dove nel frattempo si era trasferito con sua madre, una cartomante gli disse che non aveva la linea della fortuna. Corto non ci pensò più di tanto: andò in camera, prese il rasoio di suo padre e si incise sul palmo sinistro una linea della fortuna lunga e profonda. “Non so se da quel giorno ho avuto più fortuna - scrisse anni dopo - ma certamente mi sentii più libero e questo mi bastava”.
Per la sua educazione la madre volle che tornasse a Malta dal rabbino Ezra Toledano, che era stato anche suo amante, perché voleva che Corto seguisse la scuola ebraica.
Siccome tra marinai ci si conosce, a 13 anni fa il primo incontro “eccellente” (sembra nel Canale di Sicilia) con il giovane ufficiale della marina mercantile inglese Joseph Conrad presentatogli da suo padre. E qui dunque torniamo alla “Linea d’ombra”, che viene attraversata nel 1904. Il “Vanità Dorata” passa il canale di Suez e ferma a Ismailia. Corto fa una escursione a Giza per vedere le piramidi e incontrare un rabbino che gli regalerà la mappa per trovare le miniere di re Salomone. Poi prosegue per il mar Rosso e l’oceano Indiano: Aden, Muscat, Karachi, Bombay, Colombo, Madras, Rangoon, Singapore, Shangai, Tien Sin.
Ma Corto è uomo di Mediterraneo non solo per la geografia ma anche - e soprattutto - per l’anima che sa esprimere segnali da nomade. E i nomadi, si sa, devono tenere allacciati i fili di tutte le culture che attraversano, rispettare tutte le tradizioni che incontrano e dispensare quei seminativi acquisiti nei viaggi precedenti.
Prendiamo l’incipit fulminante della primo episodio de”Le Etiopiche” che si intitola “Nel nome di Allah misericordioso e compassionevole”: “Sura 93, Il sole del mattino, 11 versetti (ma ci bastano i primi quattro). 1) Per il sole del mattino. 2) per la notte, quando le tenebre si infittiscono. 3) il tuo Signore non ti ha dimenticato e non ti ha preso in odio. 4) la vita futura per te vale più della vita presente”. Inizia la storia. Le prime quattro vignette sono mute, si vedono sabbia, ombre, cammelli, dettagli di armi e bardature di uniformi. Poi, inizia il dialogo. El Oxford dice: “Forse non sai che ho studiato a Oxford, a Londra, a New York, a Parigi ma… preferisco il deserto”. Perché?” chiede Corto, anche lui in sella a un dromedario. El Oxford risponde: “Perché è pulito”.
Poi Corto incontra Cush, un guerriero Beni Amer. Ha un carattere spigoloso il ragazzo, non ama la mediazione e apostrofa i bianchi chiamandoli “cani infedeli”, è quello che oggi potremmo definire un “musulmano intransigente” (ma, attenzione, la storia è stata disegnata da Pratt nel 1972) ma poi diventa uno dei migliori amici di Corto. Ha scritto Hugo Pratt: “Ho conosciuto dei tipi come Cush. A quindici anni, quando scappai dal campo di prigionia (inglese, nel 1942 ndr) alcuni musulmani mi recuperarono e mi portarono con loro sui cammelli invece di condurmi al posto di polizia. Restai con loro due mesi. Un giorno mi diedero da mangiare qualcosa che mi fece vomitare, e mi obbligarono a inghiottire quello che avevo rigettato: in questo modo intendevano farmi capire che non c’era più molto da mangiare. Cush non è un vero e proprio dancalo, è un Beni Amer e come tutti loro ha il senso della teatralità e dell’ironia. Tutti i nomadi sono in fondo dei commedianti. Non passano certo il loro tempo nelle scuole coraniche. Quando si vive in mezzo a vipere e scorpioni, si deve saper ridere, ogni tanto”.
Ma torniamo al Mediterraneo e agli incontri più o meno casuali del nostro immaginario compagno di viaggio. Nel 1907 è ad Ancona e incontra un giovanissimo Josiph Dzugasvili (il futuro Stalin) che per mantenersi agli studi sbarca il lunario facendo il portiere di notte in un albergo. Gli servirà questa breve amicizia di bevute 15 anni dopo quando, preso prigioniero dai sovietici in Azerbaigian (“La casa dorata di Samarcanda”), riesce a telefonare al segretario del Comitato Centrale e a farsi liberare per raggiungere la Crimea prima e la Repubblica Sovietica di Bukhara poi per assistere - insieme al suo caro amico Rasputin - alla morte in battaglia di Enver Pascià, il generale turco responsabile del genocidio degli armeni.
Tra il 1908 e il 1913 Corto viene segnalato in Tunisia, a Marsiglia, a Trieste dove conosce James Joyce presentatogli dal sindacalista e rivoluzionario irlandese James Connolly. Dopo una lunga serie di viaggi in Asia e America del Sud, torna nel Mare Nostrum. Nel 1917 è a Venezia per il primo episodio delle “Celtiche” (“L’angelo della finestra d’Oriente). Tra i bombardamenti degli aerei austriaci e i monaci della laguna che hanno la mappa dell’Eldorado, il Maltese riesce a dire della città di suo “padre” Hugo: “Questa città è bellissima e io finirei per lasciarmi prendere dal suo fascino, diventerei pigro… Venezia sarebbe la mia fine”. Già, Venezia e la basilica di San Marco, “la prima moschea che si incontra andando verso Oriente”.
Poi la scena si sposta (secondo episodio “Sotto la bandiera dell’oro) dalle parti di Caporetto dove Corto incontra un americano che fa l’autista di autoambulanze, che si chiama Ernest Hemingway e poco dopo - a bordo di un piroscafo - tratta con un marinaio greco la spartizione di una discreta quantità di oro del Montenegro: “Dimmi, cosa farai con la tua parte?” chiede Corto al greco. “Metterò su una flottiglia di pescherecci e con i futuri guadagni anche una di petroliere”. Inutile dire che quel marinaio di Smirne era Aristotele Onassis. Ancora la Serenissima - e siamo nel 1921 - torna in “Favola di Venezia”. Qui Corto naviga tra massoneria, esoterismo e storia. Incontra Gabriele d’Annunzio fresco dell’impresa di Fiume e si invaghisce di Hipazia, la filosofa, astronoma e matematica neoplatonica di Alessandria d’Egitto (ah, il Mediterraneo…). A proposito di Alessandria e del disastroso incendio della sua straordinaria biblioteca vale la pena leggere questo commento di Hugo Pratt che getta un altro ponte sul Mediterraneo verso il mondo arabo: “Perché mai questo incendio della biblioteca di Alessandria? Forse perché conteneva libri che contestavano il Cristianesimo. Per i padri della Chiesa tutti questi libri erano delle eresie. E chi ha salvato tutta questa cultura dell’antichità? Gli Arabi. Penso a persone come Arun Al-Rashid o al Saladino. E i Mongoli? Quando arrivavano da qualche parte, uccidevano tutti ma rispettavano i saggi e le biblioteche”.
Favola di Venezia ha anche un altro nome: Sirat Al-Bunduqiyyah, che vuol dire appunto “La sura di Venezia”: nella lingua araba, Venezia è l’unica città al mondo il cui nome viene tradotto con un nome arabo: Al-Bunduqiyyah.
Negli ultimi anni di cui abbiamo cognizioni, Corto continuò a viaggiare per il Mediterraneo spingendosi fino al corno d’Africa, in Asia Minore, in Francia e infine in Spagna. Per alcuni - per esempio lo racconta Cush ne “Gli scorpioni del deserto - Corto è “sparito” in Spagna nel 1936 durante la guerra civile. Per altri era sicuramente vivo nei primi anni 60, altri lo hanno avvistato tra Praga e Berlino. Gli ultimi “testimoni” (“Oceano Nero”, 2021) raccontano di averlo visto allontanarsi dalla cattedrale - pardon, moschea - di Cordoba proprio pochi mesi fa, in cerca di altre avventure.
“Ci sono a Venezia tre luoghi magici e nascosti: uno in calle dell’amor degli amici; un secondo al ponte delle maravegie; un terzo in calle dei marrani a san Geremia, in Ghetto. Quando i veneziani (qualche volta anche i maltesi) sono stanchi delle autorità costituite, si recano in questi tre luoghi segreti e, aprendo le porte che stanno nel fondo di quelle corti, se ne vanno per sempre in posti bellissimi e in altre storie”. Così si conclude Favola di Venezia e così prosegue la vita sorpresa e sorprendente di un cittadino del Mediterraneo il cui unico confine è quello della conoscenza. E quindi, è uomo senza confine.