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Le vite nella storia del Mediterraneo: Martin Lings

La seconda puntata della rubrica curata da Pietrangelo Buttafuoco dedicata alla figura di Martin Lings

È con lo stesso distacco che Martin Lings (1909-2005) lascia sbottonata la sua giacca di velluto a coste – talmente grandi da rivelare l’inequivocabile sartoria inglese – nella sua casa di Westerham, nella contea del Kent, oppure si abbandona sulla spalla un bisht, il tradizionale manto arabo che intreccia la lana di cammello a quella di capra, tra le strade del Cairo.

Sempre presente, come bibliotecario, sufi o professore, ma sempre in una forma altra da sé, come l’acqua.

Talmente devoto al più vicino dei suoi maestri, Frithjof Schuon, da finire per assomigliargli – sguardo, frenologia e portamento – Martin fa quello che ogni discepolo sincero è destinato a compiere: superarlo.

Mentre Schuon si esprime nell’instancabile complessità germanica, Lings racconta il suo Profeta con una lingua rorida. E mentre Schuon è ricordato per una mistica talmente perennialista da sembrare sincretica, Lings porta all’Occidente un sufismo tutt’altro che criptico.

La chiarezza, il rigore, li acquisisce grazie al suo incessante studio di Shakespeare; un autore che apprende tramite C.S. Lewis, il grande incontro della sua formazione. Folgorato dallo scrittore, il giovane cambia il suo percorso di studi, si fa notare dal luminare Lewis passando da studente ad amico nel giro di pochi mesi.

E come Lewis è il maestro culturale, Shakespeare è il suo primo maestro spirituale.

Il primo maestro di molti. Al suo arrivo al Cairo, Lings si converte all’Islam, trova un nome nuovo – Abu Bakr, il migliore amico del Profeta Muḥammad e primo califfo – e prende su di sé gli obblighi del digiuno, della preghiera e del ricordo. Ogni pratica gli viene insegnata passo a passo dalla cerchia degli Shadhili egiziani, confraternita nata nel XIII secolo in Marocco e diffusissima in Nord Africa. Confraternita che, negli anni di Lings, aveva ricevuto dall’Europa un ravvivamento che ancora oggi ne determina il corso. René Guenon, infatti, si trovava anch’egli al Cairo.

Mentre Lings cercava in Shakespeare la linfa per una nuova spiritualità europea, Guenon era seguito con trepidazione da giovani francesi rapiti dalle sue analisi di taoismo, induismo e perfino dello stesso Dante (L’esoterismo di Dante, Adelphi, 2001), tutte vie che nella mente di Guenon erano rivoli di una sola Tradizione universale.

Guenon, Lings e Schuon si convertono all’Islam e cercano una via per ravvivare l’Occidente, in una fatica culturale che non è mai il rinnego di un’abiura.

Al Cairo, Lings diventa subito docente di letteratura inglese all’Università. Destino vuole che muoia di colpo il titolare della cattedra e, nello scompiglio, solo Lings sia disponibile a prenderne il posto.

Gli studenti egiziani, certamente, si aspettavano una ben altra presenza inglese, dietro la cattedra. Abituati a britannici orgogliosi della propria distanza, volenterosi di insegnare il minimo indispensabile a mostrare la propria superiorità, decisi a tutti i costi a esporre una cultura impenetrabile dalle menti e dalle penne dei subalterni.

Un insegnamento, quello di Lings, è basato su un’altra certezza: il teatro inglese è vivo quando si fa scena, se smette di essere letto tra le pagine di un libro e viene scolpito nella memoria e nel gesto. Ecco che, per la prima volta nella storia dell’Università del Cairo, Shakespeare viene messo in scena. Ogni anno, Lings ne sceglie un’opera e lavora con un gruppetto di studenti - alcuni diventeranno famosi attori egiziani - crea costumi, scenografie, e siede infine con gioia durante lo spettacolo.

E così bisogna immaginare i suoi pomeriggi; reduce dalle prove di un Otello - il suo preferito, che l’aveva folgorato già da ragazzo - raggiunge i suoi confratelli e si unisce alla hadra, il canto che si fa preghiera.

Lings è l’antidoto al conflitto di civiltà, all’idea che la conversione sia una scelta di campo culturale, all’idea limitante secondo cui per essere musulmani è necessario “tagliare fuori” la propria appartenenza culturale occidentale.

È impossibile pensare che quello di Lings sia stato un percorso lineare, che si può adattare alla narrativa della frattura, del prima e del dopo, delle conversioni sulla via di Damasco. La quieta spiritualità shadhilita, anzi, lo spinge a tornare di continuo alle sue origini. Ecco perché, quarant’anni dopo il suo arrivo al Cairo, pubblica finalmente un libro su Shakespeare, tradotto anche in italiano come Il segreto di Shakespeare (Atanòr, 1985). È il sottotitolo inglese, però, a svelare il segreto di Lings: His Greatest Plays Seen In The Light of Sacred Art (Le sue opere più grandi viste alla luce dell’arte sacra).

Per Lings, la grandezza di Shakespeare si manifesta nella vita delle sue opere. Solo quando sono messe in scena, nella loro resa teatrale, si può gustare qualcosa del mistero della santificazione.

Non semplicemente un’osservazione fenomenologica ma, come Lings afferma chiaramente nel capitolo dedicato a Macbeth: “la presenza dello Spirito non può essere limitata entro la stretta di considerazioni meramente exoteriche”.

Ecco che qui, nel tentativo di sviscerare le opere più misteriose del bardo, Lings si avvale dei simboli islamici, a loro volta intercettati da Guenon. Ora, dopo decenni dal suo primo rapimento per Otello, Lings sa spiegarne la ragione precisa: “L’anima, impersonificata nel Moro, gradualmente cade nelle profondità più buie dell’errore, cioè, del pensare che il nero sia bianco e il bianco sia nero, che la falsità sia verità e la verità sia falsità.”

Il lavoro di Lings è fondamentale per la fatica dell’oggi, in cui è facile immaginare la storia di un giovane ambizioso, frenato dal colore della sua pelle e dalla sua fede, che finge di cambiare per non essere emarginato - questa è la teoria ardita portata avanti da una delle ultime rappresentazioni dell’Otello ad opera dell’English Touring Theater.

Arte sacra è una parola chiave che è quasi incantesimo nel mondo imaginale di Lings. Proprio Schuon aveva lavorato all’enigma dell’arte, alla sua transizione dal sacro al profano nella tradizione universale (Art from the Sacred to the Profane: East and West, World Wisdom, 2007) un’arte che è tutta imperniata attorno a dei simboli universali, come René Guenon aveva insegnato a entrambi (Simboli della scienza sacra, Adelphi, 1990).

Alla cura dell’arte si dedicherà Lings negli ultimi decenni della sua vita. Dal Cairo tornerà a Londra, come curatore dei libri e dei manoscritti orientali al British Museum. Collaborerà anche con la British Library e, in pochi anni, organizzerà l’evento più importante di arte islamica mai realizzato in Occidente, il World of Islam Festival del 1976, le cui pubblicazioni sono tesori di bellezza in tipografia, contenuto e rilegatoria.

Anche in Italia i lavori di Martin Lings sono rimasti cosa viva. È sua, infatti, la biografia-agiografia più letta tra i musulmani: Il Profeta Muḥammad. La sua vita secondo le fonti più antiche (Il Leone Verde, 2004), che è un lavoro di cesello. Una narrativa delicata, che non osa dipingere a tratti troppo decisi i personaggi, ma si rifiuta di abbandonarli alla freddezza del saggio.

Per Lings, la cultura islamica deve essere viva. Lo capisce già dagli anni del dottorato, quando dedica la sua tesi alla figura di Aḥmad al-ʿAlawi, intitolandola Un santo sufi del XX secolo (Edizioni Mediterranee, 1994). Dipinge ʿAlawi in tutte le prospettive contemporaneamente, portando il lettore alla vertigine. Alterna la biografia all’intervista, la traduzione al lirismo, con una frenesia di tridimensionalità tutta rivolta a un solo scopo: mostrare che la santità è sempre presente nella storia, e che rimangono in ogni epoca dei poli - spesso nascosti - in grado di mostrarla.

Nella sua estrema vecchiaia - una vita di 96 anni - Martin Lings accumula libri, viaggi, mostre, e cura la propria casa. L’interesse per il simbolismo dei colori che ha accomunato tutti i suoi maestri diviene la sua ossessione. Lo racconta Gai Eaton, che scriverà il suo necrologio per The Guardian, dettagliando la lunga ricerca del vecchio Martin per una particolare sfumatura di blu che riflettesse la perfezione celeste. E circondato dal blu più perfetto, Lings fa sue quelle proprietà misteriose, privilegiato perfino nel poter affrontare una morte leggera.

Il segreto di Lings e il segreto di Shakespeare sono ciò di cui abbiamo bisogno. Non è una strada per esoteristi, ma per chi crede che l’Occidente non sia destinato a spegnersi. Per chi vuole contraddire Spengler e il suo tramonto, Houllebecq e la sua eutanasia.

Il messaggio ultimo di speranza Lings lo affida a L’Undicesima Ora (The Eleventh Hour, Achetype, 1987). Il suo studio sulla crisi spirituale del mondo moderno, la sua certezza di una fine visibile ma non imminente, sono riletti alla luce della parabola degli operai mandati nella vigna, narrata nel Vangelo di Matteo (20, 1-16), dove gli operai giunti tardi al lavoro ricevono la stessa paga di chi era arrivato per primo. Per Lings, il messaggio è lo stesso del hadith in cui Dio afferma: “La mia misericordia è maggiore della mia ira”.

Nei tempi ultimi, nell’oscurità, nella dimenticanza, abbonda la misericordia. E abbondano uomini come Lings, in grado di opporsi a una narrativa nel conflitto a proposito della relazione tra Islam e Occidente, e sempre pronti a riscoprire la propria tradizione spirituale facendosi luce con tutto ciò che incontrano. Massimo Campanini (1954-2020), ad esempio, che di fronte a Lings storceva un po’ la faccia – troppo sufi per i suoi gusti – ma che è stato tremendamente operoso nel percorrerne la via. Simpatizzante per la teologia islamica più razionalista, la neo-mu’tazila, nondimeno si è trovato, nei suoi ultimi lavori prima della sua scomparsa, proprio come Martin, a scrivere una biografia del Profeta Muhammad che riparte da zero rispetto a tutti i dogmi accumulati in ambito arabista e islamologico (Maometto, Salerno, 2020) e a svelare i misteri arabo-islamici di Dante (Dante e l’Islam, Studium, 2019) nella speranza che l’ “oblio dell’Islam in Occidente” abbia fine.

(Rubrica a cura di Pietrangelo Buttafuoco)

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